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Da La nonviolenza e' in cammino - Centro di ricerca per la pace di Viterbo. N. 1161 del 31 dicembre 2005

Enrico Peyretti: Cauto elogio della pazienza

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1. Pazienza viene da patire. Patire non e' soltanto soffrire. Conosciamo dei verbi la forma attiva e quella passiva, cioe' l'azione che puo' essere anche buona (per esempio: vengo guarito, vengo istruito) di qualcuno o qualcosa verso di noi, su di noi, non necessariamente contro di noi. Comunque, patire, anche quando e' un soffrire, non e' uguale a subire. Subire e' sottomettersi, rinunciare al diritto e alla dignita', che vanno
difesi non solo per noi, ma per tutti. Patire senza subire puo' essere una forza. C'e' di peggio che patire la tortura. Come diceva un torturato al suo torturatore: "Il peggio e' essere come te". Si patisce un'offesa, una violenza fatta a noi, oppure un dolore, un male della vita, della natura, della malattia: il male umano, o il male naturale.

2. Il male e' soltanto maledetto? E' solo da rifiutare e ribellarsi immediatamente? Non puo' essere anche fecondo, utile? "Non tutto il male vien per nuocere", diceva la saggezza popolare. Il dolore non e' solo
distruttivo: se colpisce una vita viva, vi scava nuovi spazi interiori, che non conoscevamo, come il primo pianto apre i nostri polmoni chiusi di neonati. Di un romanzo cinese ricordo solo questa frase: "Hai il cuore
spezzato? Vuol dire che hai un cuore". Il male si puo' anche portare con pazienza. Portare, invece di subito scaricare, e' un atto di forza. Nadia Neri sintetizza cosi' la personalita' di Etty Hillesum: ha saputo trasformare il dolore in forza. La condizione per questa crescita dolorosa e' assumere il dolore, affrontarlo e non fuggirlo, portarlo, elaborarlo. Il che richiede coraggio, cioe' cuore. Il solo fuggire dal dolore e' debolezza
e incrementa la debolezza.

3. Dunque, mi pare che pazienza significhi almeno: sopportare, subire, attendere. Sop-portare e' sinonimo di sos-tenere: sor-reggere da sotto, dal basso, qualcosa di pesante; sol-levare, farsi carico; e' la tolleranza attiva, non sdegnosa, ma rispettosa e creativa, perche' tollere vuol dire anzitutto sollevare. E' una forza benefica, che conserva e salva. Sub-ire significa mettersi sotto: e' azione simile ma inversa del sopportare; e' sotto-mettersi, abbassarsi senza sollevare nessuno, ma accettando la superiorita' di chi infligge offesa, rispettandone la violenza. E' azione passiva, vile e ingiusta verso se stessi e verso chiunque potra' trovarsi in questa situazione. Ma puo' essere anche saggia accettazione della necessita': per esempio rassegnarsi alla vecchiaia, non essere un ridicolo e stupido vieux garcon: con questa sottomissione si torna nel positivo sopportare.
Attendere, cioe' ad-tendere. Questo significato della pazienza riguarda un modo di stare nel tempo senza forzarlo, senza strappare la pianta per farla crescere in fretta, senza precipitare l'azione prima della sua maturazione. Non e' l'attendismo tattico e cinico, ma e' rispetto delle cose e dei ritmi di processi e persone, e' disciplina del nostro agire. Questo e' il significato di pazienza proposto da Giuliano Pontara nella pagina che vi dedica ne La personalita' nonviolenta (Ega, 1996, p. 67). Non siamo noi che facciamo tutto, che imponiamo tempi e regole, ma siamo attivi dentro azioni piu' grandi, dentro movimenti di altri, dentro una realta' che ci ricomprende. Questa pazienza e' una virtu' religiosa verso la vita: saper lavorare per altri che verranno, piantare alberi che non vedremo per figli e posteri. Quando verra' la pace? Tra secoli? Non me lo chiedo. Faccio ora il lavoro che tocca a me. Come scriveva Aldo Capitini: "Io non dico: fra poco o
molto tempo avremo una societa' perfettamente nonviolenta. A me importa fondamentalmente l'impiego di questa mia modestissima vita, di queste ore o di questi pochi giorni; e mettere sulla bilancia intima della storia il peso della mia persuasione" (Elementi di un'esperienza religiosa, Laterza, 1937, p. 111; pp. 115-116 della riedizione Cappelli 1990).

4. Per Gandhi la sofferenza liberamente accettata come prezzo della lotta giusta e' "l'arma umana", e' un mezzo propriamente degno dell'uomo: "Nell'applicazione del satyagraha ho scoperto fin dai primi momenti che la ricerca della verita' non ammette l'uso della violenza contro l'avversario, ma che questo deve essere distolto dall'errore con la pazienza e la comprensione. Infatti, cio' che sembra la verita' ad uno puo' sembrare un errore ad un altro. E pazienza significa disposizione a soffrire. Dunque il senso della dottrina e' la difesa della verita' attuata non infliggendo sofferenze all'avversario ma a se stessi" (Gandhi, Teoria e pratica della
nonviolenza
, Einaudi 1996, p. 15). "La dottrina della violenza riguarda solo l'offesa arrecata da una persona
ai danni di un'altra. Soffrire l'offesa nella propria persona, al contrario, fa parte dell'essenza della nonviolenza e costituisce l'alternativa alla violenza contro il prossimo" (ivi, p. 6). Il satyagraha e' dunque alternativo alla lotta armata, ma anche alla resistenza passiva: questa cerca di "molestare la parte avversa sopportando le sofferenze che ne conseguono". Invece, nella lotta satyagraha "non vi e' la piu' lontana idea di arrecare danno all'avversario. Il satyagraha postula la conquista dell'avversario attraverso la sofferenza nella propria persona" (ivi, p. 18). "Sono andato sempre piu' convincendomi che la ragione non e' sufficiente ad assicurare cose di fondamentale importanza per gli uomini, che devono essere conquistate attraverso la sofferenza. La sofferenza e' la legge dell'umanita', cosi' come la guerra e' la legge della giungla. Ma la sofferenza e' infinitamente piu' potente della legge della giungla, ed e' in grado di convertire l'avversario e di aprire le sue orecchie, altrimenti chiuse, alla voce della ragione. (...) L'appello della ragione e' rivolto al cervello, ma il cuore si raggiunge solo attraverso la sofferenza. Essa dischiude la comprensione interiore dell'uomo. La sofferenza, e non la spada, e' il simbolo della razza umana" (ivi, p. 6).
Potrebbero sorgere perplessita' e critiche, e ne sono sorte, riguardo a questi pensieri di Gandhi, come rappresentativi di un'etica sacrificale, sempre pericolosa perche' puo' condurre a pensare che anche l'altro, e non solo io, puo' e deve, in certi casi, essere sacrificato. Provando ad affrontare queste critiche, ho creduto di poter concludere che l'idea di sacrificio in Gandhi e' l'amore altruistico piu' che non l'automacerazione
(vedi su questo punto il mio Esperimenti con la verita'. Saggezza e politica di Gandhi, Pazzini editore, 2005, pp. 62-63). La sofferenza usata da Gandhi non e' un ricatto, che egli condanna come violenza, ma e' re-sistenza, fermezza, tutto il contrario della sottomissione all'ingiustizia o della fuga per debolezza. Per Tommaso d'Aquino il resistere fermi nei pericoli, il sostenere, e' il piu' grande atto di forza, piu' dell'aggredire: "Principalior actus est fortitudinis sustinere, idest immobiliter sistere in periculis, quam aggredi" e lo dimostra nel seguito del testo (Summa Theologica, II, II, q. 123, art. 6).

5. Allora, l'impazienza e' un vizio? Si' e no. E' negativa se, come abbiamo visto, forza i tempi; se e' accanimento nella cura, nella correzione, nell'educazione, esigendo frutti fuori tempo o impossibili; se diventa l'ossessione della fretta, dell'alta velocita', ben giustificata per un'ambulanza, ma non per sistematicamente comprimere la vita e le esperienze, non per creare una nuova discriminazione sociale tra chi puo' correre senza aspettare gli altri e chi deve andare lento; non e' giustificata se non lascia mai assimilare incontri, percorsi, luoghi, se sfrutta sempre il tempo come rapire denaro, invece di viverlo. Ricordiamo l'ammonimento anti-velocistico di Alex Langer: "Lentius, profundius, suavius", piu' lentamente, piu' profondamente, piu' dolcemente. Ma l'impazienza puo' essere positiva, nel senso detto da Aldo Capitini:
"Accanto ad una societa' che usa la guerra come via alla pace, la violenza come via all'amore, la dittatura come via alla liberta', la religione mi porta ad anticipare di colpo il fine nel mezzo; e ad attuare comunque, qui e subito, pace, amore, liberta'. La religione e' impazienza dell'attendere il fine; e oggi che l'universo, il tempo, lo spazio non sono sentiti in dualismo stabile con l'infinito e l'eterno, porremo noi questo dualismo
nella societa' tra il mezzo e il fine?" (Aldo Capitini, da Il problema religioso attuale, Guanda, Parma 1948, citato in Teoria della nonviolenza, a cura del Movimento Nonviolento, Perugia, 1980, pp. 4-15. Questo brano e' a p. 14). E' l'impazienza religiosa, della speranza attiva, della non-rassegnazione.
Per questo motivo, Norberto Bobbio presenta Capitini non come il maestro tradizionale, il cui compito e' quello di "colmare il dislivello tra le generazioni adulte e le adolescenti", ma come il "maestro profeta, il quale, anziche' comunicare il sapere raggiunto, si pone in aperta polemica con la realta' circostante e annuncia una realta' nuova". "Ma il profeta non e' l'utopista. La differenza sta in cio': mentre l'utopista disegna una stupenda struttura di societa' ideale, ma ne rinvia l'attuazione a tempi migliori, il profeta comincia subito, qui ed ora" (Norberto Bobbio, Introduzione a Aldo Capitini, Il potere di tutti, cit., nota 54, p. 17 e p. 31). E' l'impazienza della fedelta' puntuale al proprio dovere, che annuncia e porta qui il tempo nuovo atteso.

6. Questa urgenza (im-pazienza virtuosa) e la virtuosa pazienza possono andare insieme? L'urgenza e' nella parola d'ordine di una campagna di solidarieta': "I poveri non possono aspettare". Ed e' scritta sulla facciata
dell'opera del Cottolengo, nella mia citta', nata per accogliere i piu' infelici e scartati: "Charitas Christi urget nos", la carita' di Cristo ci sospinge, ci fa fretta. Urgenza e pazienza sono nel messaggio della
Bhagavadgita: agire con distacco dal risultato. Il dovere di agire e' l'urgenza, il distacco dal successo e' la pazienza. Cosi' il precetto evangelico: "Date senza sperare restituzione" (Luca 6, 35), dove dare e' l'urgenza, non aspettarsi un ritorno e' pazienza. In questo binomio vitale, bisognera' premere ora sull'urgenza, ora sulla pazienza. La legge dell'azione - dice Merleau-Ponty - non e' il successo rapido (il risultato urgente), ma la fecondita' (l'effetto paziente, futuro).

7. Per tutto questo faccio un "elogio cauto" della virtu' della pazienza: cauto e vigilante, perche' sotto le vesti della virtu' non si insinui il vizio, come don Milani diceva dell'obbedienza. La pazienza e' da elogiare
quando e' una forza, quando e' la calma, virtu' dei forti. Ma e' da smascherare quando e' usata per fermare, per rinviare, per sottomettere, per fare accettare l'inaccettabile. E' da smascherare quando viene proposta da
una religione che aliena dalla responsabilita' del mondo, al contrario dell'impazienza religiosa che abbiamo sentito in Capitini. E' proverbiale la pazienza di Giobbe. Ma se leggiamo quel libro biblico vediamo che Giobbe accetta la sventura, ma anche contesta Dio: il male non e' tutto effetto dei suoi peccati, come dice la semplicistica religione tradizionale, rappresentata dai suoi saccenti amici. Giobbe accetta i suoi limiti, ma
mette in crisi quella religione, che non rispetta tutta la dignita' umana e tutto il mistero della sofferenza: c'e' soprattutto una impazienza di Giobbe.
La pazienza e' una virtu' se e' quel patire attivo capace di assorbire e spegnere in se' la violenza; se abbraccia gli opposti dell'urgenza senza forzatura e del patire senza subire; se e' passione e amore. Il linguaggio manda piccole luci: passione dice patire e dice anche amare. Infatti, non c'e amore senza dolore: non solo il dolore della mancata corrispondenza o del tradimento, rischio insito nell'amare, ma il dolore del condividere le inevitabili pene. Sim-patia dice in greco la stessa cosa che dice in latino com-passione: sentire insieme, e dunque anche patire insieme le fatiche altrui in aggiunta alle proprie. Chi non ama nessuno soffre soltanto le proprie pene, le soffre da solo, le soffre male. E' necessario dire ai giovani che amare e' condividere gioie e piaceri, ed anche i dolori della vita. Inganna i giovani e li tradisce ogni immagine dell'amore facile e leggero, senza prezzo.
Non c'e' amore senza pazienza. Il frequente fallimento dell'amore di coppia (senza fare paragoni con epoche passate, quando la durata dell'unione non era sempre amore) non significhera' forse carenza di pazienza, illusione stolta che nell'amore tutto sia facile e garantito, ignoranza della legge vitale per cui l'amore va sempre curato e costruito, attraverso le circostanze difficili e i limiti personali di tutti? La pazienza nell'amare
deve essere reciproca, non unilaterale (che sarebbe disuguaglianza, inammissibile nell'amore), ma l'offerta deve essere reciprocamente unilaterale, va da ciascuno suscitata nell'altro donando per primo, non va
aspettata dall'altro come condizione per muoversi. La pazienza e' intelligenza costruttiva della relazione personale profonda.

8. Altri rami di questo tentativo di riflessione potrebbero essere sviluppati. Alcuni si trovano nell'articolo di Mao Valpiana in "Azione nonviolenta", dicembre 2005, pp. 18-19 (www.nonviolenti.org).
C'e' il difficile tema della sofferenza altrui: si puo' avere pazienza della sofferenza altrui? Abbiamo gia' sentito che essa impone un'urgenza. Susan Sontag scrive Davanti al dolore degli altri (Mondadori, 2003): il vedere fa sentire il dolore degli altri? Oggi si televede in abbondanza il dolore umano, e si oscilla tra com-passione, com-pazienza buona e attiva, e - piu' facilmente - assuefazione, rassegnazione, de-pazienza cattiva. Ma il Samaritano sente "nelle viscere" (esplanknisthe, Luca 10, 33) - a differenza del sacerdote e del levita, che ne hanno pazienza, lui no - il dolore dell'uomo lasciato mezzo morto sulla via dai briganti, e non puo'
sopportarlo. Infatti Mencio, filosofo cinese del IV-III secolo a. C., definisce "il sentimento dell'umanita'" come il "non poter sopportare le sofferenze altrui" senza agire in soccorso (citazioni in Esperimenti con la
verita'
, citato sopra, pp. 68-69).
Mi limito a riportare, per finire, una definizione della nonviolenza data da Antonio Vigilante: "Nonviolenza e' guardare il mondo dal punto di vista del debole, dello svantaggiato, dell'escluso, dello sconfitto. E' assumere quello stesso sguardo, quella stessa sofferenza come propria. E' rifiutare strenuamente qualsiasi giustificazione che possa essere addotta per la realta' della sofferenza umana. Dell'etica nonviolenta fa parte un'euristica della sofferenza" (Il pensiero nonviolento. Una introduzione, Edizioni del Rosone, Foggia 2004, p. 89). Chi la ignora, crede che la nonviolenza sia una eccessiva colpevole pazienza. Essa e' soprattutto una forte, delicata, esigente impazienza.