LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA,
Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino", Direttore responsabile:
Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532,
e-mail: nbawac@tin.it Numero 45 del 30 ottobre 2005
Elena Lotta. Seguendo la via del proprio smarrimento: il coraggio di osare
un mutamento radicale
[Ringraziamo Elena Liotta (per contatti: e_liotta@yahoo.it) per averci
messo a disposizione il testo della sua relazione sul tema "Seguendo la
via del proprio smarrimento: il coraggio di osare un mutamento radicale",
tenuta all'incontro su "Katastrophe'. Nuovo inizio", svoltosi a Misano
Adriatico il 14 ottobre 2005. Elena Liotta, nata a Buenos Aires il 25
settembre 1950, risiede a Orvieto, in Umbria; e' psicoterapeuta e psicologa
analista, membro dell'Ordine degli Psicologi dell'Umbria, membro dell'Aipa
(Associazione Italiana di Psicologia Analitica), dell'Iaap (International
Association Analytical Psychology), dell'Apa (American Psychological Association),
socia fondatrice del Pari Center for New Learning; oltre all'attivita'
psicoterapica, svolta prevalentemente con pazienti adulti, in setting
individuale, di coppia e di gruppo, ha svolto e svolge altre attivita'
culturali e organizzative sempre nel campo della psicologia e della psicoanalisi;
tra le sue esperienze didattiche: professoressa di Psicologia presso la
"American University of Rome"; docente in corsi di formazione, e coordinatrice-organizzatrice
di corsi di formazione a carattere psicologico, per servizi pubblici e
istituzioni pubbliche e private; didatta presso l'Aipa, societa' analitica
accreditata come scuola di specializzazione post-laurea, per la formazione
in psicoterapia e per la formazione di psicologi analisti; tra le altre
esperienze parallele alla professione psicoterapica e didattica: attualmente
svolge il ruolo di Coordinatrice psicopedagogica e consulente dei servizi
sociali per il Comune di Orvieto, e di Coordinatrice tecnico-organizzativa
di ambito territoriale per la Regione Umbria nell'Ambito n. 12 di Orvieto
(dodici Comuni), per la ex- Legge 285, sul sostegno all'infanzia e adolescenza
e alle famiglie, occupandosi anche della formazione e monitoraggio dei
nuovi servizi; e' stata assessore alle politiche sociali presso il Comune
di Orvieto; dopo la prima laurea ha anche lavorato per alcuni anni in
campo editoriale, redazionale e bibliografico-biblioteconomico (per "L'Espresso",
"Reporter", Treccani, Istituti di ricerca e biblioteche). Autrice anche
di molti saggi apparsi in riviste specializzate e in volumi collettanei,
tra le opere di Elena Liotta segnaliamo particolarmente Educare al Se',
Edizioni Scientifiche Magi, Roma 2001; Le solitudini nella societa' globale,
La Piccola Editrice, Celleno (VT) 2003; con L. Dottarelli e L. Sebastiani,
Le ragioni della speranza in tempi di caos, La Piccola Editrice, Celleno
(VT) 2004; Su Anima e Terra. Il valore psichico del luogo, Edizioni Scientifiche
Magi, Roma 2005]
La storia di Fatima la filatrice e la tenda, racconto sufi
Figlia di un ricco filatore, un giorno Fatima parti' con il padre per
un viaggio. Mentre veleggiavano verso Creta si alzo' una tempesta e la
nave naufrago'. Fatima si ritrovo' svenuta su una spiaggia, non lontano
da Alessandria. Suo padre era morto e lei era rimasta completamente priva
di tutto. Mentre vagava sulla spiaggia incontro' una famiglia di tessitori,
gente povera, che la condusse a casa loro e le insegnarono i rudimenti
del mestiere.
Cosi' Fatima inizio' una seconda vita e, nel giro di un anno o due, si
senti' felice e riconciliata con la sua sorte
Un giorno pero', mentre stava passeggiando sulla spiaggia, sbarcarono
dei trafficanti di schiavi e la portarono via insieme ad altre giovani
prigioniere, per venderle al mercato di Istanbul. Ora, quel giorno c'erano
pochi compratori, tra cui un uomo che cercava schiavi per il suo cantiere
di alberi per navi. Vedendo la tristezza della povera Fatima decise di
comprarla, pensando di offrirle una vita migliore di quella che avrebbe
avuto con un altro padrone. L'avrebbe data a sua moglie come domestica.
Ma quando arrivo' a casa scopri' che i pirati avevano depredato tutti
i suoi averi e, non potendo piu' permettersi degli operai, lui, la moglie
e Fatima dovettero mettersi da soli a lavorare alla costruzione degli
alberi. Avendo operato bene, anche per riconoscenza, Fatima fu affrancata
e divenne una fidata collaboratrice della famiglia. La sua vita conobbe
di nuovo una relativa felicita'.
Essendo cosi' capace, il suo salvatore la invio' fino a Giava come agente
per vendere un carico di alberi. Mentre si trovava al largo della costa
cinese, Fatima si imbatte' in un tifone e naufrago'. Si ritrovo' di nuovo
buttata sulla spiaggia di una terra straniera, di nuovo pianse amaramente
al pensiero che nella vita nulla si svolge secondo le aspettative. Ogni
volta che le cose sembravano andare bene, succedeva qualcosa che distruggeva
tutte le sue speranze. Pe la terza volta grido': "Come mai ogni volta
che cerco di fare qualcosa finisce male? Perche' sono sempre perseguitata
dalla sfortuna?". Ma non ottenne risposta. Si rialzo' e si diresse verso
l'interno.
Ora, in Cina, nessuno aveva mai sentito parlare di Fatima e delle sue
disgrazie, ma esisteva una leggenda secondo la quale un giorno sarebbe
arrivata una straniera che sarebbe stata in grado di costruire una tenda
per l'imperatore, cosa che nessuna altro sapeva fare. Per essere sicuri
di non perdere questo arrivo, periodicamente venivano inviati araldi in
tutte le citta' per condurre a corte le donne straniere. Lo stesso giorno
che giungeva l'araldo, Fatima entro' nella citta' e, una volta a corte,
alla domanda se sapesse fabbricare una tenda, ella rispose: "Penso di
si'".
Chiese delle corde, ma non ce n'erano. Allora si ricordo' del tempo che
era stata filatrice. Poi chiese un telo resistente, ma i cinesi non avevano
il tipo che serviva. Attingendo all'esperienza di tessitura fatta ad Alessandria
fece il telo da tenda. Aveva poi bisogno di pali adatti, ma di nuovo non
c'erano quelli giusti. Fatima si ricordo' di cio' che aveva imparato dal
costruttore di alberi e li realizzo'. Quando furono pronti frugo' nella
sua memoria per ricordarsi di tutte le tende che aveva visto nei suoi
viaggi: e fu cosi' che una tenda venne alla luce. Quando questa meraviglia
venne presentata all'imperatore egli si offri' di esaudire qualsiasi desiderio
Fatima volesse esprimere. Fatima scelse di stabilirsi in Cina dover sposo'
un bel principe e visse felice circondata dai suoi figli, fino alla fine
dei suoi giorni.
Fu grazie a tutte quelle avventure che Fatima capi' finalmente che cio'
che al momento le era sembrata una dolorosa esperienza aveva invece giocato
un ruolo essenziale nell'edificazione della sua felicita' definitiva
La storia di Fatima riassume in forma narrativa tutto cio' che il titolo
del mio intervento vorrebbe comunicare: Fatima si smarrisce, segue la
via del proprio smarrimento e affronta con coraggio ogni nuovo inizio
della sua vita.
Il mio compito diventa ora contestualizzare il senso della storia nel
nostro scenario contemporaneo e all'interno del tema scelto per questa
iniziativa che e' "Katastrophe', nuovo inizio", ed entrambi rispetto alla
mia esperienza professionale di psicoterapeuta che ascolta chi si e' smarrito
e lo aiuta a ritrovarsi e riprendere la sua strada. Infatti: seguire la
via dello smarrimento individuale e' stato per me anche un modo per giungere
alla radice del malessere collettivo. Il coraggio necessario per il mutamento,
inoltre, e' lo stesso che serve sia all'individuo nella sua esistenza,
sia alla societa' per la sua evoluzione psicologica collettiva. Direbbe
addirittura Jung, che se la presa di coscienza non ha luogo a livello
individuale, cio' che viene imposto o proposto da pochi e dall'alto, non
diventera' mai efficace. Il mutamento che viene dal basso, dal piccolo,
dai molti, equivale a cambiare il mondo senza dover per forza prendere
il potere, come dice il titolo di un libro (di J. Holloway) e senza fare
guerre, che necessarie non dovrebbero essere mai. Io vedo e testimonio
che a livello di individui e piccoli gruppi ci si puo' riprendere dallo
smarrimento e si possono operare trasformazioni da cui non si torna indietro,
e se questa sorta di teorema ha un briciolo di senso, forse anche a livello
collettivo prima o poi ci si potra' arrivare. Intanto ogni generazione
puo' fare un passo in tale direzione. Ci vuole un'immensa pazienza, in
una visione di speranza, di ottimismo nonostante tutto.
Catastrofi e psicoanalisti Un primo argomento. Da sempre esistono figure che accompagnano gli
esseri umani durante le loro difficolta', nel culmine delle crisi, verso
la guarigione, se di malattia si tratta, o verso il recupero delle forze
per continuare a vivere, se altre catastrofi hanno colpito la loro esistenza.
Non e' sfuggito, neanche nell'antichita', che queste figure di sostegno
possono intervenire in modo efficace e alcune volte anche risolutivo,
proprio perche', a loro volta, hanno conosciuto in prima persona il dramma
della perdita e soprattutto hanno poi vissuto anche la possibilita' e
la gioia del ritrovamento (la figura del guaritore ferito).
Dice Jung: quale che sia l'itinerario del paziente e la sua meta, lo psicoterapeuta
non potra' condurlo piu' in la' di dove egli stesso e' arrivato. Il senso
di queste parole e' sottolineare l'importanza della preparazione e dell'evoluzione
interiore del terapeuta, anche se, aggiungerei, molte volte si percorrono
insieme nuovi territori e il terapeuta impara e si evolve insieme al paziente.
Io ringrazio sempre i miei pazienti per tutto quello che attraverso di
loro ho imparato, non solo professionalmente ma per la mia vita stessa.
La "neutralita'" attribuita alla figura dello psicoanalista, quella distanza
che in tutte le vignette lo descrive appollaiato sulla sedia, col taccuino
in mano, mentre il paziente sul divanetto si perde nelle proprie fantasie,
e' uno stereotipo molto distante dalla vera relazione terapeutica. Nel
viaggio avventuroso della psicoterapia emerge la centralita' della relazione
- anche se esistono nuclei irraggiungibili e incomunicabili di solitudine,
come sostiene D. W. Winnicott. Cio' che conta e' che lo smarrimento viene
vissuto in presenza di qualcuno che lo testimonia, estraendolo dal caos
delle emozioni senza nome.
In questo senso anche la psicoterapia puo' essere vista come una pratica
di katastrophe', cioe' un continuo capovolgimento della propria visione
della vita e di se stessi che apre a ripetuti nuovi inizi.
Catastrofi di altro genere - seguendo il senso piu' conosciuto della parola
- affiorano comunque nelle storie individuali: memoria di tragedie accadute
in passato, alla propria famiglia o gruppo di appartenenza, impressioni
profonde delle tragedie che continuano ad accadere nel presente e a minacciare
il nostro pianeta (vedi ad esempio Psiche e guerra, raccolta di
saggi di psicoanalisti dopo l'11 settembre, Manifestolibri), ad
opera della natura e per mano dell'uomo, grandi eventi distruttivi trasmessi
nelle fantasie, nei sogni e nelle visioni delle singole persone e delle
loro comunita', e nelle loro produzioni culturali (mito, religione, arte,
filosofia).
C'e' qualcosa di innegabilmente affascinante per la mente umana, nell'idea
di distruggere per poi ricostruire. Lo vediamo nelle forme estreme e deliranti
della malattia mentale, nella paranoia, nella maniacalita', nella depressione
grave e catatonica. Lo vediamo nelle forme piu' blande di alcune nevrosi,
che tendono comunque a drammatizzare la perdita e il ritrovamento, nel
gioco dei bambini, nei giochi degli adulti, fino a comportamenti che esprimono
il bisogno imperioso di cambiare disfacendosi del vecchio, pur se ancora
funzionale, per far entrare il nuovo. Lo si fa con gli oggetti, con le
persone, con le attivita'.
La promessa del nuovo, darsi una nuova possibilita', un'altra occasione,
rimuove l'angoscia di cio' che appare compiuto, finito, definitivo, quindi
noioso, inerte, forse morto. La fantasia della novita' ci mantiene nel
regno del Puer, del futuro ancora tutto da vivere, del progetto da realizzare,
dell'amore da espandere, costringendoci a continue catastrofi - destrutturazioni
- di tutto cio' che comincia invece a organizzarsi con stabilita', ad
approfondirsi, ad acquisire spessore con le ombre. Non lo dimostrano forse
con chiarezza i rapporti amorosi? Il terrore profondo della vera intima
vicinanza che supera addirittura l'angoscia della perdita? Anche dopo
le grandi catastrofi collettive la prima risposta ricostruttiva e' potente,
entusiasta, solidale, ma poi, come procede nel tempo? Quante ricostruzioni
interrotte, abbandonate, quante provvisorieta' che diventano routine?
Mi sembra utile demistificare alcuni aspetti del tema che stiamo trattando
per illuminarne quelli piu' autentici. C'e' un catastrofismo teatrale
e pretestuoso (molto funzionale alla societa' dello spettacolo e dei consumi)
- distruggere tutto e rinnovarsi senza cambiare nulla di sostanziale -
e c'e' una katastrophe' che apre a un vero nuovo inizio, trasformativo
dal punto di vista interiore, con attraversamenti dolorosi, vissuti di
perdita e tempi lunghi di elaborazione.
Riecheggiano allora frasi del tipo: bisogna perdersi per ritrovarsi, per
rinascere bisogna prima morire a se stessi, deve prima morire una parte
di se' (e il problema diventa spesso: ma quale?), oppure che la parte
vecchia deve lasciare posto alla nuova (anche qui: ma quale?), che bisogna
lasciare andare gli attaccamenti, i condizionamenti, separarsi internamente,
e altro ancora. Tutte ingiunzioni un po' rigide, inquietanti, misteriose,
che a loro volta richiedono di essere deletteralizzate e ridimensionate
rispetto alla seduzione delle esperienze forti, radicali e risolutive,
le quali danno origine non di rado a comportamenti impulsivi, rischiosi,
e ad altre catastrofi, che non avranno mai nuovi inizi (le inspiegabili
vicende umane dietro a certe tossicodipendenze letali e certi giochi d'azzardo
dei giovani).
Con queste mie osservazioni vorrei ridimensionare una visione psicologica
dell'esistenza modellata su tappe ricalcate dalle vicende archetipiche
degli eroi che si perdono, e poi incontrano prove drammatiche e sovrumane,
draghi da sconfiggere, principesse da liberare, e infine conquistano tesori
che vittoriosi riporteranno a casa, dove ancora combatteranno per affermarsi
e regnare si spera finalmente in pace.
Mi piace la storia di Fatima, per lo stile umano e sobrio che propone
nell'affrontare le katastrophe' dell'esistenza, per la qualita' simbolica
che offre legata piu' al come che non al cosa, per la forma del movimento
che suggerisce, non lineare-accrescitivo, ma circolare-spirale e sintetico.
Infatti, l'aspetto della catastrofe-mutamento puo' essere avvicinato anche
attraverso le vicende di una vita "comune" apparentemente senza drammi
grandiosi e senza mito, di persone che sono ciascuna unica e irripetibile,
pur trovandosi in una societa' di massa, iscritta in un periodo storico
e incisa dalle contraddizioni, un periodo complesso, come il nostro. Io
rimarro' quindi vicinissima a queste persone comuni, alle vite normali
e a cio' che rilevo quotidianamente dalle mie comunicazioni interpersonali
negli scambi sia professionali sia amichevoli e piu' informali.
Lamentazioni collettive
Un secondo capitoletto. Il fatto reale da cui parto per condividerlo con
voi, e' il coro unanime sulla crisi generale in cui ci troviamo - che
ormai va di pari passo con l'argomento di conversazione piu' comune, cioe'
il tempo meteorologico. Appena smarcati i convenevoli, i primi argomenti
che vengono trattati, con toni accesi ed espressioni preoccupate, sono
le notizie piu' gravi di cronaca e di attualita', l'aggiornamento sul
carovita, i prezzi, le leggi, ecc. A volte ascolto soltanto i dialoghi
altrui, in un negozio, per strada, persone anziane che compiono analisi
brevi e lapidarie, commenti intelligenti e acuti, previsioni lungimiranti
di cui gli esperti che si pronunciano in lungo e in largo sembrano diventati
incapaci. La cosiddetta societa' civile appare indubbiamente piu' avanti,
sul piano umano e psicologico, di quanto non siano le compagini politiche
e amministrative.
Puntualmente si verificano anno dopo anno, le "previsioni di strada",
le chiamerei cosi', anche su argomenti difficili, come le guerre, l'economia,
i fenomeni sociali, le questioni sanitarie e scolastiche, la ricerca scientifica,
l'ambiente, i rifiuti e tutto il resto.
La catastrofe, anche senza il clamore dell'evento grandioso, e' gia' in
atto, nella vita di molte famiglie, nei fallimenti di piccoli esercizi
commerciali, nell'impossibilita' naturale a procedere di tanti giovani,
sul piano del lavoro e della costruzione di una famiglia, nella preoccupazione
di molti anziani rispetto alla salute e una fine dignitosa della vita,
nella fatica mostruosa delle donne e delle famiglie, poco o per nulla
sostenute nella realta', checche' ne dicano le politiche ufficiali.
Nelle citta', ma purtroppo anche nella provincia e nelle campagne, lo
stesso stile di vita metropolitano avvinghia ormai le persone, tra l'automobile,
gli orari impossibili, il tempo che manca sempre, il costo alto di servizi
e beni di consumo per mantenere un certo tenore di vita e di abitudini,
insomma si riesce a sentire con forza la crisi del sistema anche laddove
potrebbe risultare meno pesante. E la lamentazione, il tam tam delle parole
scambiate tra le persone, e' un segno avanzato del patimento collettivo
Affermava Jung gia' negli anni '20 che la nevrosi e' un tentativo malriuscito
dell'individuo di risolvere un problema collettivo, generale.
Dovremmo concludere che gli individui di oggi si stanno molto impegnando!
Ho dettagliato altrove questi argomenti, per esempio raccontando delle
solitudini nella societa' globale, della speranza nei tempi di caos, del
rapporto tra gli esseri umani e l'ambiente, della migrazione e dell'esilio,
delle sofferenze che il nostro sistema sta oggi spargendo a piene mani,
sofferenze forse nuove nella forma e nelle occasioni, rispetto a quelle
del passato, ma di certo non meno drammatiche. E mi riferisco solo alla
qualita' psicologica della vita collettiva, non alla psicopatologia.
Diventa facile sostenere a questo punto che il progresso solo economico
e tecnologico non porta ne' gli individui ne' le societa' a miglioramenti
sul piano psicologico e morale.
Per Fatima e' stato piu' semplice. A ogni catastrofe del suo mondo faticosamente
costruito e poi perduto, la vita si e' potuta rinnovare. Il mondo di Fatima
era grande e sconosciuto, poteva essere legittimo aspettarsi qualcosa
dietro l'angolo, anche un'opportunita' positiva. Ma oggi e' ancora cosi'?
C'e' dunque aria di catastrofe, c'e' poco da stare allegri nell'attesa
del nuovo inizio e c'e' anche preoccupazione per come si risolvera' la
crisi. Katastrophe', parola tratta dal vocabolario teatrale antico, e'
il momento dello scioglimento dell'intreccio nella tragedia, quello finale
del crollo, del rovesciamento (letteralmente "voltare giu'", detto anche
dei coltivi), e' l'emersione del segreto, la resa dei conti. Se comparato
o accostato ad "apocalisse" (svelare) spesso usato come sinonimo, il termine
catastrofe ha un senso di forte movimento, rumoroso, rispetto al valore
profetico di cambiamento di piano, verso una nuova vita, vita dello spirito,
simbolica, eterna.
Religioni, laicità e psicologia del profondo
Solo una notazione. La Bibbia e' uno dei libri sacri piu' ricchi di esempi
sia catastrofici sia apocalittici, una vera miniera. Dal punto di vista
psicologico, la storia, e non solo la religione, dell'Occidente, sono
influenzate da una visione sostanzialmente pessimista, oltre che eroica,
una visione che ruota intorno alla sopravvivenza tra perdite, esilii e
sofferenze varie, tra conquiste e riconquiste territoriali, con alleanze
e punizioni nel rapporto tormentato con Dio. Questo aspetto belligerante
rappresenta senz'altro una parte della natura umana, ma non tutta. Sicuramente
e storicamente piu' maschile che femminile. Il peso delle dinamiche di
potere e' qui notevole (katastrophe', in greco ha anche il significato
di sottomettere, mettere sotto, assoggettare) insieme alla passione per
le sfide.
Ad eccezione della mistica, che mostra numerose affinita' in tutte le
religioni, e' difficile trovare spunto nella letteratura sacra dell'Occidente
per un discorso psicologico sulla catastrofe e il nuovo inizio. Abramo,
Mose', Giobbe, hanno tutti una fede incrollabile, che non si smarrisce
mai, forse tentenna, si arrabbia, ma rimane ferma sul suo cardine interiore.
Le catastrofi accadono, ma loro resistono.
Sarebbe troppo lungo, per il contesto di questa conferenza, argomentare
meglio il rapporto tra psicologia del profondo e religione intorno al
tema della catastrofe, anche se Jung ha molto esplorato l'argomento, trattando
di morte e rinascita nel mito e nella religione, delle vicende dell'eroe
in quanto archetipo del viaggiatore e del cercatore interiore, della figura
del Cristo assunta come immagine del percorso interiore individuativo
che culmina nel Se' trascendente.
Ho voluto scegliere un'altra strada, con la storia di Fatima tratta dalla
tradizione sufi. Non solo per i motivi gia' detti, ma anche in quanto
storia di donna anonima e laica. Questo mi permette di mantenermi su un
gradino psicologico di base, quello del saper sopravvivere e vivere. Non
basso, non semplicistico, ma basilare.
Come spesso dico ai miei pazienti o amici credenti, per loro le catastrofi
e gli smarrimenti dovrebbero essere tutta un'altra cosa rispetto a chi
non ha il sostegno della fede. Eppure non sembra essere cosi'. Fatima
e' diventata quindi una figura simbolica adatta per una posizione laica
che non mette limiti a nessuna fede.
I rivolgimenti e le ricostruzioni che si seguono durante una vita, qualora
non ci fosse il dono della fede che spinge e contiene, possono solo acquisire
senso nel tempo, come frutto dell'esplorazione psicologica che discrimina
la componente interna e personale dagli eventi esterni, misurando la loro
commistione ed estraendone un valore altamente individualizzato, cioe'
la propria storia, quella del soggetto, che si snoda nella comunita',
nella dimensione collettiva, sempre a cavallo tra i due mondi. Cio' che
chiamiamo memoria o memoria collettiva.
Lasciando ora Fatima, rilevo soltanto un ultimo elemento che la caratterizza
come protagonista di una storia "orientale" (ci sono storie cinesi molto
simili) e che possiamo riprendere per il nostro discorso
Il fatto che ogni passaggio della narrazione rimette in discussione -
stravolge, rivolta - quello precedente. In questo senso la sua e' una
storia catastrofica che finisce bene. Cioe' nel momento positivo, l'ultimo
che ci e' dato di conoscere. Non si puo' dire se cio' che accade e appare
essere come "un male", una disgrazia, e' in realta' la premessa di "un
bene" maggiore di quello perduto o di uno comunque nuovo, e viceversa
La fine della storia rappresenta un culmine di integrazione, una sintesi
che il coraggio della protagonista riesce a realizzare, un valore estratto
dall'esperienza di una vita piena di luci e di ombre, tutte vissute fino
in fondo.
Qualcosa di possibile a chiunque, con la specificita' delle proprie vicende
e con i personaggi, i luoghi, gli scenari della propria vita, piu' o meno
eclatanti che siano. Provate a raccontarvela anche voi, la vostra storia,
tra catastrofi e nuovi inizi. Questo punto, puo' diventare una proposta
metodologica che dice: non prendere tutto cio' che di negativo accade
come se fosse l'ultimo passo di tutta la vita. Mentre si attraversa l'evento,
cosi' come si puo', cercare sempre di lasciare aperto uno spiraglio, un
dubbio sul dopo, poiche' cio' che noi facciamo dell'evento, come lo interpretiamo,
se gli permettiamo di agire dentro di noi, di circolare nelle nostre relazioni,
il come lo registriamo nella memoria, tutto questo pesera' sulla nostra
storia quasi altrettanto dell'evento stesso.
Occorre lasciare spazio, intorno agli eventi, lasciare che riecheggino,
che affondino nella storia dell'umanita', che guardino avanti, intorno,
dentro, nel cuore degli altri, e quindi permettere che anche i piu' atroci
dei dolori possano continuare a respirare insieme a noi.
Wilfred Bion, uno psicoanalista inglese nato e vissuto durante l'infanzia
in India, ha usato espressioni come "apprendere dall'esperienza" e affrontare
il "cambiamento catastrofico", a livelli molto profondi dell'esperienza
psicologica, raccomandando un ascolto e un sapere nei confronti dell'anima,
raggiungibili "senza desiderio, ne' memoria, ne' conoscenza (del gia'
conosciuto)". Una modalita' che potremmo definire piu' contemplativa che
interpretativa, una parola trasfigurata, piu' poetica che non lineare-razionale,
piu' vicina ai paradossi e alla complessita' della psiche umana.
Smarrimento, resistenze e coraggio
Inoltrandomi nella direzione suggerita dal mio titolo, quella di seguire
la via del proprio smarrimento, cerchero' ora di spiegare piu' in dettaglio
in che cosa consiste e quale e' il coraggio necessario.
Per smarrimento io intendo, con diverse tonalita' conseguenti all'evento,
quel vissuto tra l'attonito, lo spaventato, il depresso, il vuoto, lo
sprofondato, il non saper piu' nulla, che e' la catastrofe interiore,
quando tutto e' gia' accaduto. Break down ("rottura giu'", collasso, cedimento,
scomposizione, decomposizione e altro). Cosi lo definiva Winnicott, intendendo
lo stato d'animo annichilito che sopravvive nella memoria emotiva, impronta
di traumi infantili che una ragione immatura non ha potuto elaborare,
catastrofe ri-proiettata in avanti, come un imprinting che si catapulta
sulla realta' attuale.
Ogni vita puo' avere i suoi piccoli o grandi traumi, accaduti nell'infanzia
o nell'eta' adulta, e la differenza nel poterne sopportare il peso dipendera'
dalla capacita' dell'Io, piu' o meno maturata, e anche dal contesto di
sostegno, prima familiare e poi sociale. Se queste tre componenti - capacita'
dell'Io, famiglia, comunita' - latitano o risultano insufficienti, la
catastrofe non riesce a far spazio a un nuovo inizio. Il che spiegherebbe
l'angoscia di vivere e la dimensione di panico e di ansia costante di
alcune odierne sindromi psicologiche e psicosomatiche di ampia diffusione,
che hanno la cosiddetta depressione ansiosa quale matrice comune.
A livello individuale, per far fronte a tutto cio' che ha un impatto traumatico,
la psiche mette in moto delle difese vitali e spontanee, vere e proprie
resistenze strategiche, come la negazione del fatto doloroso o frustrante
(non e' mai accaduto), la scissione (non accade a me, non sono io), la
svalutazione (non e' successo niente di grave), la proiezione (e' un problema,
una colpa, oppure un difetto degli altri, non mio), la formazione reattiva
(adesso prendiamo la cosa in mano e risolviamo tutto), la costruzione
di un falso se' (nessuno lo deve sapere, mi nascondero', anche a me stesso),
e altre che non sto a dettagliare.
Insomma, nonostante il sistema psicofisico umano sia predisposto a sopportare
la sofferenza, gli esseri umani cercano in tutti i modi di soffrire il
meno possibile. Ma non ci si riesce mai del tutto, se non in apparenza
o per breve periodo. Oppure ci si riesce, ma la vita che ne risulta e'
dimezzata, coartata, a mezzo respiro, quando non cronicamente ammalata.
Alcuni chiamano genericamente questo stato d'animo turbato, teso: angoscia
di vivere, inquietudine esistenziale, sete di assoluto. Poeti, letterati,
artisti e filosofi in generale ci portano testimonianze di questo stato
di perenne insoddisfazione degli esseri umani. Sembra quasi che non si
rendano conto - oppure se ne rendono conto disperatamente - della finitezza
della vita.
La consapevolezza di se', della vita e della morte
La catastrofe finale dell'io, cosciente, o meno, di esistere, e' infatti
inevitabilmente la propria morte.
Sotto il titolo angoscia di morte si potrebbero raggruppare dalle malattie
mentali gravi ai comportamenti nevrotici, a tutta una serie di pensieri
e azioni che gli esseri umani mettono in moto, fino alla produzione della
stessa civilta' e della cultura (Freud). Il discorso intorno alla morte,
tratta di un fatto cosi' ovvio, reale, inevitabile e ineludibile, che
per contrasto dovrebbe evocare, e con molta prepotenza, il valore prezioso
e irrinunciabile della vita, in qualsiasi condizione, anche la peggiore,
spingendo a salvarne ogni briciola finche' siamo vivi. Tanto si puo' dire
con ironia, avremo tutto il tempo per essere morti! Ma questo passaggio
di pensiero e di atteggiamento per molti non e' ne' immediato ne' facile.
C'e' un diffuso accanimento a volere che le cose siano altre da quelle
che sono, anche se nessuno puo' farci nulla. Tante volte mi sono trovata
dinanzi a questo impaccio risultando chiarissimo quanto l'angoscia di
morte diventi invece proprio l'alibi, la difesa piu' massiccia, di fronte
alla vita da vivere nel presente, l'unica realmente vivibile.
Prendo come esempio maggiore - per tanti altri eventi minori - quello
del lutto - cioe' la catastrofe interiore per la morte altrui - dal quale
risulta bene quanto la perdita sia sempre mescolata, prima in modo confuso
e poi piu' integrato, con il nuovo inizio.
Chi, ormai adulto, non ha dovuto attraversare qualche lutto? Chi puo'
dire di non essere cambiato dopo la morte di un genitore, di un partner,
di un caro amico o di una figura comunque significativa? E ora passiamo
al coraggio, che ho messo nel mio titolo, il coraggio di osare un mutamento
radicale. Non possiamo parlare di vero e proprio coraggio quando siamo,
volenti o nolenti, dinanzi a fatti irreparabili. E' cosi', il fatto e'
quello e basta, dobbiamo rassegnarci, accettare, adeguarci. Queste sono
casomai le parole.
Coraggio e' un'altra cosa, e' lasciare che si faccia strada una forza
dirompente, e' sentire la presenza del rischio e, conseguentemente, la
chiamata a una scelta. Ha a che vedere con la liberta'.
Domandiamoci, ad esempio se serve piu' coraggio per sopportare il dolore
di una perdita o per fare spazio a cio' che la perdita ha prodotto dentro
e intorno a noi. Se serve piu' coraggio ad andare avanti sul vecchio solco
o a lasciare che l'autenticita' messa in moto dal dolore, sconvolga le
aspettative personali e i piani collettivi.
Da quello che vedo nella mia esperienza di lavoro e' piu' spesso la seconda
situazione a causare pena e difficolta' alle persone. Come perdita non
esiste solo il lutto, naturalmente. Ci sono molte altre separazioni e
mancanze, qualsiasi evento che sconvolge, smuove internamente, frantuma
assetti precedenti, crea spazio per il nuovo (la fine di un rapporto amoroso
o amicale, la perdita dei luoghi, della propria terra, l'esilio, la migrazione,
un fallimento nel lavoro, altro). Non accogliere il nuovo, diventa una
sorta di offesa alla vita, spesso dovuta all'incagliarsi negli orgogli
onnipotenti - questo non doveva succedere, non a me! - nell'attaccamento
mortifero a cio' che non esiste piu', invece che coltivare il ricordo
affettuoso di cio' che e' stato, nel bene o nel male, cioe' una parte
importante della nostra vita.
Ma come si fa la strada del coraggio? Torniamo al lutto. Sono stata spesso
consultata da uomini e donne che chiedevano sostegno per la katastrophe'
personale determinata dal lutto. Stavano male, soffrivano troppo. Cosi'
dicevano, confondendo il dolore per la perdita con il crollo psicologico
personale, che non sono la stessa cosa.
Volendo liberarsene al piu' presto, del confuso malessere, gettando via
anche se stessi. Tutte persone intelligenti, mentalmente sane, socialmente
adattate. Mi sono spesso sorpresa nel constatare che il loro lutto era
a volte recentissimo - una settimana, un mese, qualche mese, e ho pensato:
ma come possono solo immaginare di stare "bene", di "superare il lutto"
cosi' in fretta? Forse con qualche esercizio particolare fornito dal dottore?
Quella "tecnica" che a volte richiedono quando affermano: dottoressa,
questo l'ho capito, adesso pero' mi dica cosa devo fare! Fare, fare, efficienza,
efficacia, superamento, sfida, soluzioni... tutte parole che sconfinano
improntate nell'onnipotenza volontaristica, nell'orgoglio egoico, tutte
da cancellare dal dizionario della maturazione psicologica.
In questi casi, rivedo le giacche con il nastro del lutto o i bottoni
neri di un recente passato, la vita ritirata di chi era "a lutto" e che
tutti rispettavano, periodi che duravano anni. A volte ho risposto ai
miei pazienti, e non provocatoriamente, che per certe elaborazioni interiori,
vere trasformazioni, ci puo' volere anche un decennio
Lo smarrimento va tollerato e attraversato, per giungere da qualche parte
che all'inizio non si sa. Non bastano le pasticche per trasformare il
dolore. Esse cambiano li' per li' l'umore, che non e' poco - e qualche
volta ho dovuto io stessa suggerirne l'uso - ma non risolvono ne' i problemi
irreversibili ne' cambiano le personalita', tantomeno trovano i partner
mancanti o i lavori desiderati, ne' offrono vie di realizzazione o altro.
E' bene saperlo e ricordarlo.
Quale sostegno dunque puo' offrire la psicoterapia durante un lutto, se
non stare accanto nello smarrimento, per insegnare a viverlo, a volte
per la prima volta, per far si' che il paziente rimanga sveglio a se stesso
e alla vita che intanto comunque lo conduce avanti, giorno dopo giorno?
Per potergli suggerire un giorno di voltarsi e accorgersi che ha fatto
un pezzo di strada, mentre soffriva cosi' tanto, per scoprire che "tener
duro" non era quello che pensava, ma un altro modo con un altro fine:
rimanere o diventare finalmente fedele a se stesso. Un varco, una possibilita'
per l'autenticita' soffocata.
Coraggio, individuo e societa' Il discorso sul coraggio e la radicalita' - che, continuo a ribadirlo,
non e' eroismo o altro di simile, ma adesione a un proprio progetto esistenziale
- va oltre l'esperienza individuale e interiore per confrontarsi, spesso
in modo conflittuale, con la vita della societa' e della propria comunita'
piu' vicina.
Oltre alle difese psicologiche individuali cui ho accennato sopra, pesano
sulla vita delle persone anche le difese collettive, ritualizzate in comportamenti
e culture specifiche. Penso a quelle dell'attuale societa' avanzata, che
ha orrore della vecchiaia, della malattia e della morte, ma continua a
usare la morte come spettacolo, depotenziandola attraverso la sua continua
presentazione, nelle immagini di guerra, di carestia e poverta', di catastrofi
naturali e/o provocate dall'uomo, e anche mediante le trame cinematografiche
che ossessivamente proiettano scenari apocalittici e catastrofici. Trame
mortifere intorno a bombe, virus, serial killer, delinquenze, passioni
diaboliche e omicide e altro di simile.
Uno dei tanti paradossi che la psicoanalisi spiega come ritorno del rimosso:
cio' che da un lato viene esorcizzato, riemerge prepotentemente da un
altro lato.
Cosi', il povero individuo del nostro tempo riceve induzioni contrastanti
fra loro: - sorvolare sui lati in ombra della psiche personale, nascondere
dolori e fallimenti attraverso compensazioni materiali o uso consumistico
anche delle risorse culturali e spirituali (un altro mercato); - "curarsi"
da malattie socialmente prodotte, prendendo antidepressivi o cocaina,
perche' non e' piu' possibile tenere certi ritmi di vita e di lavoro con
le proprie energie naturali; - e al tempo stesso imbottirsi di immagini
di morte e perversione della vita, per intrattenimento e divertimento
(?!).
Tutto va bene, tutto va male. La facciata sorridente, il ghigno fisso
e stereotipato di certi leader politici e il dietro/dentro marcio, svuotato,
perso. Penso alla tematica de Il ritratto di Doran Gray, alla serie
televisiva "Casalinghe disperate", che come i film di Robert Altman, o
di Quentin Tarantino e di altri registi, fotografa in profondita' il malessere
della societa' americana che e' diventato anche il nostro. Ci vuole quindi
coraggio per togliere, almeno con se stessi, la maschera grottesca e cominciare
a svelare alcune verita'. La catastrofe ha aperto un varco, noi siamo
smarriti e brancoliamo senza difese seguendo questa sensazione/emozione
di smarrimento, un po' di paura e un po' di liberta', una cosa nuova,
per noi abituati a controllare tutto, ad avere tecniche e risposte per
tutto.
Riusciremo a rinunciare ai riempimenti e alle consolazioni materiali,
alla suggestione dei falsi maestri? Non che si tratti necessariamente
di imbrogli, ma potrebbero esserlo o diventarlo, e ci toglierebbero con
le loro certezze ingenue ma efficaci per l'anima stanca, proprio quello
smarrimento che stiamo coltivando. Ora serve casomai il coraggio di guardarci
dentro, a quel varco che si e' aperto, e non richiuderlo subito.
Pseudocambiamenti, consapevolezza e radicalita'
Un altro ostacolo o rallentamento sofferto, puo' essere quello di di riorientare
il nuovo inizio su parametri vecchi. Cioe' si diventa pronti per il cambiamento,
ma non si sfrutta l'onda positiva, ricadendo su modalita' e atteggiamenti
interiori ed esterni condizionati dal passato, dal conformismo sociale,
da bisogni non autentici. Riprende cosi' vigore quell'approccio di controllo
e organizzazione della realta' che sacrifica subito lo spazio del dubbio,
dell'attesa, della speranza senza oggetto preciso, insomma della possibile
liberta' nello smarrimento. Quante volte si sente incoraggiare la persona
soffferente, alternativamente con frasi del tipo: devi distrarti, non
pensarci, ecc., oppure: devi riorganizzarti, e darti nuovi obiettivi.
Come se non ci fosse null'altro in mezzo. Questa fissazione del controllo
che a volte si incarna nel dover prevedere tutto - eccetto proprio la
catastrofe, che anche preannunciata appare sempre improvvisa - merita
una riflessione ulteriore
La mente umana ha per costituzione la possibilita' di anticipare, di guardare
avanti, una funzione basata sia sull'intuizione sia sull'esperienza del
passato. Dalla profetica universale alle odierne tecniche di previsione
fino alla prudenza e alla previdenza come virtu' del singolo, e' evidente
che questa idea di poter controllare il futuro affascina e impegna molto
l'intelligenza collettiva. Purtroppo, come gia' sostenevano molti saggi
del passato - da Epitteto a Schopenhauer - ci sono cose che possiamo controllare,
prevedere, sulle quali possiamo intervenire, e altre cose che invece sfuggono
al nostro controllo, anche totalmente.
Al tempo stesso, pero', su altri piani, esiste la responsabilita', il
dovere di prevedere lo sviluppo di cio' che viene messo in moto, di valutare
l'impatto delle azioni e delle scelte, di evitare quindi le catastrofi
prodotte dall'uomo e proteggersi da quelle naturali. Dov'e' dunque la
misura? Sono l'onnipotenza e l'orgoglio degli esseri umani a confondere
cio' che e' possibile prevedere e controllare e cosa no. Molti errori
e guai del nostro attuale sistema sociale nascono da sopravvalutazioni,
da superficialita', da mancati approfondimenti per i quali ci vorrebbe
tempo e studio. Molti drammi sono causati dalla megalomania ed dall'egocentrismo
incarnato in alcuni poteri che travisano abilmente la realta' a proprio
favore. Anche con l'imbroglio, se necessario.
Le catastrofi diventano cosi' i momenti di verita', le conseguenze esplicitate
che trascinano con se' anche le persone innocenti. La caduta degli dei,
il crollo dei colossi dai piedi di argilla, il volare alto e presuntuoso
di Icaro, il castigo di Dio, il karma e altre immagini e parole ci ricordano
l'ineluttabilita' della katastrophe', del capovolgimento, quando si e'
troppo ecceduto sul polo opposto. Questo vale per gli individui e per
i macrosistemi, come se fosse una delle leggi non scritte, ma iscritte
nel mondo.
La mia proposta all'individuo, di seguire la via del proprio smarrimento,
significa andare avanti passo passo, senza cercare di spianarsi sempre
la strada, rinunciando alla seduzione delle indicazioni chiare e forti,
senza porsi una meta rigidamente prestabilita. Significa accettare di
perdersi per un po', ritornando costantemente a se stessi provando a darsi
fiducia, a resistere nello stravolgimento, senza appigliarsi dovunque
capita. E non ci sono scorciatoie, non ci si illuda. Tutto quello che
si lascia indietro prima o poi si ripresenta.
Tornando al nostro esemplare paziente in lutto, o in crisi di altro genere,
ecco manifestarsi durante il suo sopravvivere quotidiano, una serie di
vissuti per cosi' dire minori, rispetto alla disperazione iniziale. Nei
suoi alti e bassi di umore, nel senso di vuoto che ogni tanto lo attanaglia,
di fronte ad alcuni pensieri sull'inutilita' di cio' che lo circonda oppure
sulla qualita' dei suoi rapporti sociali, egli potra' reagire anche inconsciamente
esprimendo il dolore attraverso sintomi, eccessi alimentari, uso di droghe
e altro, senza essere in grado di rinunciare alla solita vita di impegni,
intrattenimenti, apparenza. Qualcuno gli dice, anzi, che deve mantenerla
a tutti i costi perche' questo gli fara' bene. A volte, in questa confusione,
si possono verificare sbandamenti, tentativi di uscita dall'incertezza
mediante comportamenti impulsivi: la vita di coppia entra in subbuglio
o precipita, si cerca altrove e con altri il varco, il nuovo inizio, si
immaginano cambiamenti di lavoro o casa, pensando che le cose migliorino.
La realta' psichica e' che si e' disperati, ma non si vede con trasparenza
la connessione tra emozioni - perdite - riassestamenti, mentre si cercano
uscite veloci e concrete al malessere, alibi, giustificazioni per non
prendere la via del nuovo inizio. Un pasticcio. Per questo ci vuole coraggio
e radicalita', per mantenersi vicini alla verita', non certo per precipitarsi
nel proprio caos (il lasciarsi andare patologico) onde non vederlo, oppure
precipitarsi fuori di se', per fuggire dalla desolazione in cui ci si
trova. Non spavalderia, ne' azioni di forza. Coraggio e onesta' per guardarsi
allo specchio.
Il nuovo inizio
Il nuovo inizio non e' cosa ne' immediata ne' semplice, ne' indenne da
falsificazioni. Siamo nella luce dell'alba, la sensibilita' e' aurorale,
trasparente, quella che si coglie solo nella vigile contemplazione interiore.
Non si dovrebbero azzardare movimenti violenti, con un coraggio che sa
di incoscienza e inconscieta', che nasce da stati della mente confusi
e produce azioni catastrofiche a ripetizione, in alcuni casi fino alla
morte (quei suicidi mascherati da incidenti).
La psicoterapia, un dialogo in amicizia, un consigliere spirituale, altri
contesti, possono aiutare a conseguire la chiarezza necessaria. Da soli,
pur non essendo impresa impossibile, e' di sicuro piu' rischiosa: ci si
puo' autoingannare.
Questa fase di acquisizione di consapevolezza durante lo stato di crisi
aperta, e' la piu' difficile e pericolosa da gestire perche' le forze
emotive liberate possono prendere qualsiasi via e il dolore pulsante tende
alla scarica caotica. Diventa quindi indispensabile un richiamo all'attenzione,
alla pausa, al silenzio, per poter vedere, ascoltare, capire dentro di
se' le nuove esigenze che si affacciano - anche quella di essere accolti
inermi e disperati. "Non voglio vivere cosi' tutta la mia vita! Voglio
cambiare qualcosa! Vorrei che tutto fosse diverso! Non ne posso piu'!":
queste possono essere le prime grida di aiuto che contengono in nuce il
possibile giro di boa. Riconoscere la disperazione e volerne uscire cambiati,
non solo liberati dal dolore
Ma come ricominciare? Come psicoterapeuta e consulente in altri contesti,
ho da anni la sensazione che la mia funzione piu' importante, oltre all'ascolto
e all'empatia, sia quella di stare con il freno continuamente pigiato,
o le briglie tirate, come preferite. Dal voler cambiare tutto e subito,
bisogna subito scalare marcia, cercando di cambiare qualcosa, altrimenti
la spinta iniziale verra' subito delusa dall'impossibilita' che sta dietro
al "tutto e subito".
Alcune ipotesi di riflessione e di pratica
Mi ritrovo cosi' a proporre alle persone alcune ipotesi di riflessione
e di pratica: - Il fare, l'agire concreto, ha successo quando c'e' autenticita',
onesta' e trasparenza, almeno parziale, almeno della propria parte in
gioco. Rispetto ai propri limiti, alle proprie paure, incluso il non sentirsi
pronti per cambiare, cosa che va tollerata e non colpevolizzata.
- Pensare, sentire, immaginare, sognare (attivita' psichiche) non sono
necessariamente collegate all'agire concreto - sia nel bene sia nel male
- e quindi conviene aspettare che venga il momento giusto dell'azione,
piuttosto che precipitarsi confusamente. Imparare a godere della vera
liberta' del pensiero, senza spaventarsi, discernendo i livelli della
fantasia da quelli della realta', e' un'acquisizione della maturita',
salvo rare eccezioni. La frase "Guardi che pensare non e' fare!" la dico
spesso ai miei pazienti e allievi, per tranquillizzarli, permettendo loro
di creare piu' liberamente nuovi scenari mentali. Quel pezzetto di pensiero
- possibilmente anche condiviso - messo tra l'impulso e l'azione, puo'
essere tutto, dalla salvezza alla premessa per il nuovo inizio.
- La mente va osservata criticamente: nella sua mutevolezza impressionante.
Come possiamo fidarci di essa come base per l'azione? (Quante volte nella
stessa giornata, nella stessa ora, ci accorgiamo di amare e detestare
la medesima persona? Di volerle stare accanto o lontano. Che accadrebbe
se ogni volta mettessimo in atto questa volubilita'?) Nel gioco del dubbio,
a cui va data la possibilita' di tra-scorrere, esaurirsi, per lasciar
intravedere cosa c'e' dietro, il barlume di una scelta (si veda il mio
saggio sulla speranza). Tenendo a bada la mente volubile e mistificante,
bisogna renderlo prima pensabile il nuovo inizio
- E' necessaria molta pazienza che oggi invece scarseggia, cosi' come
la prudenza e l'umilta'. La faciloneria, l'improvvisazione, la presunzione
sono infatti diffusissime e non solo tra bambini e ragazzi. Occorre imparare
ad attendere il cambiamento anche in cio' che non ci appartiene e anche
dove ancora non lo vediamo apparire. Forse questo e' un tipo di fede aspecifica
che compare con la pratica della continuita' della pazienza.
- Nel frattempo suggerisco: parliamo intanto, di questo cambiamento, come
la vorremmo vivere questa vita diversa, cosa ci fa pensare che sarebbe
diversa, quale potra' essere il vero segreto della futura diversita'?
Quale potrebbe essere il progetto concreto e il programma del suo sviluppo?
Prendiamoci tutto il tempo per far maturare il coraggio del nuovo inizio,
il vero coraggio di una scelta che possa essere sostenibile nel tempo
e di fronte alle opposizioni che non mancano mai. Perche' poi - non dimentichiamolo
- all'inizio, oltre alla paura c'e' anche l'entusiasmo, ma nel tempo le
difficolta' ritornano e la nuova vita, dopo il nuovo inizio, richiede
nuova intelligenza e nuovi sentimenti, come abbiamo gia' accennato.
- Con il coraggio di pensare liberamente e poi valutare realisticamente,
cresce intanto quello di osare sempre di piu' nel mantenere la via scelta,
nel mostrare determinazione di fronte ai ricatti messi in moto per incrinarla.
Questo coraggio non e' piu' quello della disperazione, ma quello dell'azione
che trasforma la realta' anche esterna, l'impegno nella vita.
- Cambiare qualcosa, anche di piccolo, di minimo, diventa un nuovo modello
per cambiamenti ulteriori e piu' grandi. Ciascuno potra' trovare i suoi
esempi sia delle difficolta' sia delle piccole cose che si possono intanto
cambiare. Cerchiamo sempre il margine reale del cambiamento possibile
(i "no sempre piu' sorridenti", la sobrieta' delle scelte dirette e semplici,
le rinunce che alleggeriscono, l'evitamento delle seduzioni manipolative...).
Pratichiamo i piccoli cambiamenti, quelli che ci fanno sentire piu' liberi
e leggeri, per farci i muscoli per i cambiamenti piu' importanti. Vi sentite,
a questo punto, meno smarriti, meno privi di risorse? Lo spero.
Concludendo Il nuovo inizio non e' in cio' che si fa, ma in come lo si fa, perche'
chi deve cambiare siamo noi, non la realta' che va anche come vuole e
che ci si impone a volte senza pieta'.
La diversita' sara' nel nostro atteggiamento, nel coraggio di spostare
gli assetti psicologici, aprire alcune porte chiuderne altre, una vera
"ristrutturazione di interni". E' possibile, perche' non dobbiamo scomodare
altri che noi stessi. Un ruolo importante lo avra' il temenos, il contenitore,
l'incubatore del nuovo inizio, il luogo sacro, cinto, protetto, per la
trasformazione e per i passaggi delicati. Una relazione, un libro, un
luogo fisico, un contesto speciale, una tecnica meditativa, una psicoterapia,
qualcosa che crei raccoglimento per i processi alchemici che stanno avvenendo.
E il tempo. I percorsi psicologici sono alternativamente lenti o veloci,
a seconda delle persone, dei momenti, delle fasi della vita. Quando mi
sembrava che alcuni pazienti proprio non riuscissero a cogliere il segreto
del loro mutamento, ecco che invece esso si e' manifestato, altre volte
che sembrava tutto facile e chiaro, ecco invece le ricadute.
L'analista sa attendere e ha fiducia, piu' che aspettative, e questo,
nel tempo, potra' essere anche trasmesso. Perche' l'attesa di cui parliamo
e' vigile e consapevole, quindi interessante, suuccedono tante cose di
cui ci si puo' occupare, che si possono apprendere su se stessi e sugli
altri. In questo contesto, prima o poi qualcosa dentro si muove - posso
dirlo oggi dopo piu' di un ventennio di pratica clinica - o prende un
ritmo stabile. E poi, questo davvero non so come altro dirlo, lo dico
con pudore, sottovoce, si muove verso il bene. Oppure verso il giusto
e il vero. Quali che siano le apparenze e le condizioni esterne.
Se siamo in grado di cogliere la sottigliezza di certi passaggi, a volte
inavvertibili, possiamo rinforzare la nuova direzione. Se aspettiamo fatti
concreti ed eclatanti possiamo sbagliare inizio. E' difficile coltivare
l'attenzione se c'e' subbuglio interno o se c'e' caos esterno. Allora
prima si deve riportare almeno una parvenza di calma.
Per avere un nuovo inizio la chiave e' il pianissimo e creare le precondizioni
necessarie, come per la piantina che dal seme deve arrivare alla superficie
e poi uscire alla luce per crescere fino al punto di diventare quel che
e', fiore, arbusto, albero. Oltre al piano di sviluppo contenuto nel seme,
l'ambiente esterno fornira' le componenti realizzative della nuova forma.
Gli esseri umani sono in grado di modificare a proprio favore anche le
condizioni esterne, ma sono piu' confusi delle piante riguardo al piano
interiore.
Le catastrofi ci riportano alla nostra vulnerabilita' di esseri viventi
che hanno bisogno di condizioni adatte per poter fiorire e dare frutto,
ciascuno il suo. Se di questi momenti non facciamo un uso intelligente,
ridimensionando e modificando cio' che abbiamo noi stessi prodotto e che
rischia di intossicarci o distruggerci, allora vuol dire che una perversa
volonta' sta spingendo verso la catastrofe finale dell'autoeliminazione.
C'e' chi pensa amaramente che il pianeta Terra si riprendera' solo quando
l'uomo, strano accidente dell'evoluzione della vita, si sara' estinto,
autoestinto, per l'impossibilita' di andare oltre se stesso. Quali che
siano gli scenari catastrofici e apocalittici nell'immaginazione umana,
io continuo a rimanere aderente alla vita, visto che ancora ci siamo e
ancora sono possibili nuovi inizi.
Sto ormai parlando al plurale, non solo pensando agli individui ma all'umanita'
tutta, che mai come oggi ha bisogno di imparare di nuovo la bellezza dei
limiti, la forza dell'anima, la pace della contemplazione e la giustizia
della solidarieta'.
Una postilla politico-culturale
E' nato un recente movimento d'opinione che utilizza la parola "decrescita".
Esiste un sito www.decrescita.it, ci sono stati gia' convegni, seminari
tecnici, ci sono scambi di idee tra persone, idee che io condivido, e
una visione comune sull'odierna situazione della societa' e dell'economia
mondiale. Ritengo, personalmente, che la psicologia degli individui e
dei gruppi possa contribuire alla comprensione del quadro generale, sia
nella parte critica sia in quella relativa al cambiamento, di cui ho trattato
finora. La decrescita afferma che la sostenibilita' non basta piu'. Perche'
occorre un cambiamento piu' radicale. La loro katastrophe' si chiama appunto
decrescita, smettere di gonfiarci, di crescere patologicamente (nella
produzione, nei consumi, nello sfruttamento delle risorse naturali e umane,
nel degrado dell'ambiente e tutto il resto). Sappiamo che i governi e
molti politici guardano invece con orrore e preoccupazione ai fenomeni
di crisi in corso, denominati come crescita zero, arresto dello sviluppo,
Pil che cala, ecc. Loro vogliono andare avanti... Ma dove? Ci puo' anche
essere perplessita' di fronte a nuove idee oppure a idee riformulate con
parole e in contesti nuovi - alcune di queste facevano gia' parte della
controcultura degli anni '70 -, perplessita' e confusione purtroppo alimentate
da paradossali polemiche politiche. A proposito di decrescita, si e' discusso
recentemente, all'interno della sinistra, sulla seguente questione: se
l'idea sia di destra o di sinistra! Non so se sorridere o preoccuparmi.
Come la catastrofe/rivolgimento che ormai e' chiaramente in corso nella
societa' occidentale, la decrescita e' un fatto non solo auspicabile,
come il salutare riassorbimento di un'infiammazione, ma e' gia' un fatto
reale, reso tale dal fallimento o dalla deriva, di un sistema socio-economico
che e' diventato precario e a tratti ingovernabile.
Accade gia' che si consumi di meno, non per scelta, ma per mancanza di
denaro, accade gia' che si produca di meno qui, perche' altri producono
di piu' la' e il mercato e' saturo, l'ambiente ci fa da tempo capire,
con i suoi inequivocabili messaggi, quanto non sopporti piu' i nostri
abusi, le persone a tutte le eta' stanno cosi' male che non si puo' evitare
di riflettere sull'epidemia della depressione, dell'ansia e delle dipendenze
tossiche.
Occorre un ripensamento che a guardar bene non puo' che partire dalla
crisi reale e generale, non dalle ricette facili dell'ultimo momento e
dell'ultimo giocoliere.
Sul sito della decrescita si alternano frasi significative, tra le quali
riporto quella di Edgar Morin: "Non abbiamo bisogno di continuare, ma
di un nuovo inizio". Cioe' una katastrophe' e poi l'orizzonte di una nuova
economia: equa, pacifica, conviviale.
E questo ha senso solo nella connessione vitale tra individuo, societa'
e pianeta Terra.