In qualità di professionisti e dirigenti sanitari operanti a
vario titolo nel Servizio Sanitario Nazionale (SSN) o di docenti universitari
impegnati in attività scientifica sulle problematiche della salute
e dei servizi sanitari sentiamo il dovere morale, oltre che politico,
in vista delle elezioni del 9-10 aprile, di lanciare il presente appello
al prossimo governo per una pronta azione in difesa e per il rilancio
del SSN.
Due sono i segnali sempre più preoccupanti di una inequivocabile
linea di tendenza. Il primo è l’evidente aggravarsi delle
disparità geografiche e sociali in tutte le dimensioni di salute,
di disagio e di malattia. Tutti gli indicatori mostrano, a partire dagli
anni ’90, che le disuguaglianze sociali di salute risultano in Italia
sempre più evidenti, crescendo anzi con sistematicità. Ciò
in controtendenza con quanto avvenuto a partire dall’istituzione
del SSN. Il che solleva la questione di un accesso sempre meno equo alla
prevenzione e alle cure, in particolare per quanto riguarda i gruppi più
deboli e vulnerabili come gli anziani, le famiglie al di sotto della soglia
di povertà, gli immigrati, e, comunque, i gruppi sociali meno scolarizzati.
Si tratta di una tendenza evidentemente connessa alle trasformazioni del
sistema sanitario italiano in senso federalista che, anziché valorizzare
l’autonomia degli enti locali secondo i principi della sussidiarietà
indicati dalla riforma del Titolo V della Costituzione, sembra scaricare
su di essi i risultati della cattiva gestione dei conti pubblici nazionali,
con il risultato di aggravare, anziché risolvere, le attuali disuguaglianze
di salute, e anzi creandone di nuove.
Ciò è il riflesso anche dei modelli sempre più differenziati
e segmentati sperimentati dai diversi sistemi sanitari regionali: una
pluralità di architetture fondate su opzioni politiche diverse
in relazione agli assetti istituzionali ed organizzativi delle unità
di erogazione dei servizi, alle conseguenze sul funzionamento del meccanismo
tariffario, alle modalità di finanziamento delle aziende territoriali,
alla natura e all’assetto del sistema di regolazione, ai meccanismi
di programmazione e di controllo, alla quota dei servizi gestiti privatamente
ancorché convenzionati o accreditati. Le scelte si differenziano
in maniera sempre più evidente anche dal lato della domanda, con
riflessi preoccupanti non soltanto per l’equità, ma anche
per l’appropriatezza e l’efficacia delle prestazioni e delle
prescrizioni, nonché per la sostenibilità dei costi da parte
del cittadino e dello stato. Il processo di devolution in ambito sanitario
determina quindi gravi rischi di iniquità sociale, conseguenti
all’emergere di sistemi sanitari regionali sempre più polimorfi,
dai quali discende un impatto molto diverso sullo stato di salute delle
rispettive popolazioni.
Il risultato finale è che ci ritroveremo con 21 sistemi sanitari
regionali molto diversi tra loro, con forti disparità di risorse
e un diverso ruolo svolto dal pubblico e dal privato: a quel punto sarà
naturale chiedersi che senso abbia parlare ancora di “Servizio Sanitario
Nazionale”. La strada per un sistema affidato al mercato e il ritorno
delle mutue (sempre più caldeggiate) sarà spalancata.
In assenza di provvedimenti di riequilibrio compensativo, la comparsa
di Servizi Sanitari Regionali di qualità assai differente, oltre
che accentuare ulteriormente anche il fenomeno della mobilità passiva
interregionale a danno delle Regioni più deboli (il cui recente
blocco per legge non può che favorire un ulteriore ricorso al privato),
opera a tutto svantaggio dell’equità delle prestazioni, come
evidenzia anche la vicenda dei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza ovvero
prestazioni assistenziali legate a specifiche priorità sanitarie).
I provvedimenti legislativi che li hanno dapprima introdotti e poi ridefiniti
hanno di fatto sancito il principio secondo il quale i LEA non potranno
mai essere uguali su tutto il territorio nazionale, dal momento che è
stato fissato un elenco di prestazioni alle quali il cittadino può
accedere in forma diretta solo se la Regione di appartenenza è
in grado di sostenerne economicamente il costo. La prestazione assistenziale
viene così considerata come ‘essenziale’ non in base
ad elementi epidemiologici o a criteri di reale rilevanza clinico-sanitaria,
ma solo se la Regione riesce a trovare i soldi per renderla tale.
Noi crediamo che il principio del diritto alla salute dei cittadini non
possa variare in funzione delle diverse risorse disponibili, altrimenti
ad essere rimesso in discussione sarebbe lo stesso patto di cittadinanza
e di solidarietà tra i cittadini, con conseguenze politiche assai
gravi per la stessa unità nazionale. Lo Stato centrale deve mantenersi
garante dell’equità territoriale dei servizi sanitari erogati
e dell’uguaglianza sostanziale nell’esercizio del diritto
alla salute di tutti i cittadini.
Per tutte queste ragioni chiediamo che la scelta federalista, pur considerata
sostanzialmente valida, debba essere riconsiderata nelle modalità
di concreta applicazione al Sistema Sanitario Nazionale. È tempo
dunque di rilanciare con forza l’iniziativa politica per un federalismo
solidale che, se non vuole restare una vuota enunciazione, deve riempirsi
di contenuti concreti. Anche per questo crediamo che l’istituzione
di un Osservatorio Nazionale sulle Disuguaglianze di Salute potrà
costituire il banco di prova della sensibilità con cui il futuro
governo saprà coniugare il mantenimento dell’unitarietà
del SSN con una prospettiva federalista attenta al perseguimento dell’equità
sociale.