Il manifesto 2 giugno 2007
La scuola è di Franti. O no?
Domenico Starnone
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I giornali negli ultimi tempi ci hanno raccontato le scuole
di ogni ordine e grado a forza di bulli, sesso in aula filmati col telefonino,
droga, arrivo prossimo venturo dei Nas. Ma la crisi dell'istruzione pubblica
è lì? Non credo. In teoria la scuola potrebbe essere sanissima,
malgrado quegli episodi. O malatissima, pur in assenza di quegli episodi.
E' il suo trantran che ci dice quale scuola abbiamo, non il caso straordinario
che finisce sui giornali.
Dubito che la crisi della scuola sia recente. Dubito che sia causata semplicemente
dal cattivo lavoro degli insegnanti o da qualche orrenda mutazione antropologica
che ha investito gli studenti. Escludo anche - i giornali insistono molto
su questo punto - che derivi dagli effetti
corruttivi della Lettera a una professoressa, dal '68 o, per andare più
indietro, dall'introduzione della scuola media unica.
Sono invece convinto che la scuola di oggi sia per molti aspetti migliore
di quella che ho conosciuto da studente negli anni '50. Anzi, per dirla
tutta, penso che la sua crisi - qui da noi come altrove - sia diventata
più visibile proprio grazie a un generale miglioramento
dell'istituzione scolastica a partire dagli anni '60 del secolo scorso.
Cerco di chiarire ciò che voglio dire. Tutto il Novecento è
attraversato da un lato dall'idea che l'istruzione di massa sia una necessità
ormai improrogabile, dall'altro lato dall'idea che la scuola di massa
comporterà la dequalificazione degli studi. Le odierne argomentazioni
polemiche contro la scuola che non funziona non sono affatto nuove, ma
vecchie di cento anni e più. Gli insegnanti - si scriveva già
un secolo fa - sono ignoranti e incapaci, per di più abbrutiti
dai bassi stipendi.
I giovani - si scriveva già un secolo fa - sono inebetiti dalla
lettura corruttiva dei romanzi, dai fumetti, persino dalla penna a sfera
che distruggerà la bella pensosa grafia, senza la quale diventerà
impossibile accedere a un impiego. Qual è allora il fatto veramente
nuovo?
Io direi così: negli ultimi quarant'anni, tra mille ostacoli, tra
mille mediazioni, si è cercato di fare una scuola per tutti, una
scuola rivolta a limitare gli effetti delle disuguaglianze di partenza.
Questo tentativo generoso ha portato allo scoperto tutti i problemi dell'istruzione
di massa senza risolverne nessuno. Come insegnare bene a tutti? Cosa insegnare?
Come rimuovere gli ostacoli di partenza? Come imparare a non confondere
la diligenza con l'intelligenza? Istruire tutti significa necessariamente
il trionfo della semplificazione? Dare a
tutti gli strumenti per accedere alla complessità è impossibile?
A fine anni '70 gli insegnanti protagonisti di quel tentativo erano già
finiti nell'ingorgo delle loro stesse buone intenzioni e cominciava il
declino del docente innovatore pre e post sessantottesco, declino che
dura fino
a oggi.
Qui è inutile scavare nelle ragioni extrascolastiche di quel fallimento:
economia, politica, cultura di quegli anni. Restiamo a scuola e vediamo
di capirci. Se sono un insegnante volenteroso, vado in classe tutte le
mattine per fornire educazione e istruzione di qualità a tutti
i miei studenti. Ma mi accorgo presto che primo, nessuno mi sostiene veramente
in questo mio sforzo, tra l'altro mal remunerato, di non perdere nessuno
dei miei studenti; secondo, che io stesso non sono stato formato, non
ho gli strumenti - forse bisognerebbe dire non ho la testa - per perseguire
un obiettivo così alto; terzo, che l'istituzione dentro cui lavoro
non è stata pensata per questo, ma solo per prendere atto delle
disuguaglianze così come si manifestano attraverso incapacità
e demerito; quarto, che lo stesso sistema è incapace di assorbire
intelligenza di massa, tant'è vero che i miei alunni - ormai laureati
- riappaiono di tanto in tanto a scuola per dirmi che o sono disoccupati,
o fanno lavori precari lontanissimi dalla loro specializzazione o tentano
la fuga all'estero.
Butto insomma le mie energie inseguendo un obiettivo che, anno scolastico
dietro anno scolastico, riesco sempre meno a raggiungere. Mi trovo chiuso
tra scuola di ratifica delle disuguaglianze e scuola facile o, peggio,
faccio una scuola facile e insieme di ratifica delle
disuguaglianze.
Questo è l'ingorgo, ed era già visibile all'inizio degli
anni '80. La scuola come l'abbiamo ereditata dall'Ottocento non sa, non
può funzionare come scuola volta a istruire tutti. La funzione
originaria degli insegnanti, lo strumentario «storico» (scansione
del tempo
scolastico, lezioni frontali, compiti a casa, interrogazioni, voti, scrutini)
sono pensati per prendere atto delle disuguaglianze, non per colmarle.
L'istruzione di tutti presuppone il contrario: presuppone che si lavori
a colmare le disuguaglianze; presuppone la centralità dell'insegnamento
e dell'apprendimento; presuppone che la registrazione di gerarchie intervenga
solo dopo la reale istruzione di tutti. Dunque bisognerebbe inventare
una scuola nuova. Ma questo non accade.
Così oggi siamo fermi qui. Pretendiamo dagli insegnanti cose contraddittorie:
gli chiediamo di dare a ciascun allievo una buona istruzione; ma lo mettiamo
dentro un'istituzione che funziona solo se espelle coloro che non sa o
non può integrare. Poiché non si capisce come fare bene
la prima cosa e nessuno si sente di sposare fino in fondo una selezione
rigorosa, l'intera macchina gira sempre più faticosamete e disperatamente
a vuoto.
La crisi dell'istruzione oggi è né più né
meno che la crisi dell'istruzione di massa, la crisi del diritto di tutti
allo studio. Ma nessuno lo dice con chiarezza politica. E questo non è
bene, perché i protagonisti della scuola - studenti e insegnanti
- hanno urgentissimo bisogno di un'idea chiara di scuola. Che si venga,
dunque, allo scoperto senza peli sulla lingua.
Per esempio: in che direzione vanno le politiche neoliberiste decollate,
nella scuola, proprio in coincidenza con l'ingorgo a cui si è accennato?
Vogliono l'istruzione come capitale umano che accresca la produttività
del lavoro e quindi i profitti? Vogliono una scuola rigorosamente
selettiva, rimossi o no che siano gli ostacoli di partenza? Vogliono che
la sola scuola di base sia scuola pubblica per tutti e poi chi ha filo
tesserà? Vogliono mettere sul mercato la scuola superiore e l'università?
Vogliono privatizzare tutta l'istruzione pubblica? Vogliono porre in concorrenza
le scuole tra loro, vogliono creare un libero mercato degli insegnanti?
Perché non dicono a chiare lettere che la privatizzazione della
scuola pubblica, totale o parziale che sia, è l'unica soluzione
per ottenere una scuola che torni a selezionare i capaci e i meritevoli
senza perdere tempo con tutti gli altri? Perché non dicono che
vogliono tornare a una scuola con canalizzazioni precoci ed esplicitamente
concepita per individiduare gli eccellenti?
Un discorso diretto, dati alla mano, non sarebbe più proficuo?
Un vecchio serio discorso tipo: i genitori che possono assicurino ai loro
figli le scuole migliori e quelli che non possono si arrangino, non sarebbe
meglio che dichiarazioni da tartufo?
Altrettanta chiarezza, per un dibattito politico proficuo, va chiesta
a chi difende la scuola pubblica fino al punto di negarne la crisi. Tutto
funziona per il meglio? Forniamo già istruzione di elevata qualità
a tutti, dalle elementari all'università? Lavoriamo già
efficacemente a
limitare gli effetti delle disuguaglianze? Se la scuola deve restare rigorosamente
pubblica, perché si flirta con le tesi neoliberiste? Se la scuola
pubblica va sostenuta fino in fondo come un bene essenziale, perché
le tagliamo i fondi? Se l'istruzione di massa deve essere di
qualità elevata (e deve esserlo, altrimenti a che serve?), perché
si bara, perché si semplifica, perché si fa una scuola facile
che frustra gli insegnanti e annoia gli studenti, non li appassiona? E'
urgente, insomma, riconoscere la crisi, analizzarla nella sua prassi quotidiana,
nel rito degli atti dovuti. Temo invece che oggi si spari ogni giorno
su falsi bersagli puntando in segreto a bersagli veri. Non giova. Va individuato
come e dove e perché s'è arenata la grande esperienza di
rinnovamento cominciata a fine anni '50.
Intanto bisogna uscire da categorie generiche. Per esempio, non esistono
i professori, non esistono gli studenti, non esiste la scuola. Ci sono
solo realtà specifiche che andrebbero studiate per capire il da
farsi. Per esempio, ci sono professori che lavorano bene, professori che
lavorano male ma in condizioni diverse potrebbero lavorare bene, e professori
che non lavorano affatto; studenti che studiano bene e benissimo pur essendo
stati allevati nell'era dell'elettronica, altri che darebbero molta soddisfazione
se le cose funzionassero diversamente, altri che si perdono; ci sono scuole
ben organizzate e scuole dove regna il caos; c'è la scuola elementare,
quella media, quella superiore, l'università e c'è un generale
invecchiamento dell'età degli insegnanti, cosa che è sicuramente
un male. Basterebbe un controllo serio sulle scuole peggio gestite. Basterebbe
non lasciare soli gli insegnanti e gli studenti nelle situazioni più
degradate o più a rischio. E già funzionerebbe un po' meglio
il comune trantran.
Ma funzionare un po' meglio dovrebbe servire solo a tirare il fiato, a
riorganizzare l'esistente. Poi bisognerebbe andare al cuore dei problemi.
Il cuore è questa domanda: quale scuola vogliamo? Una scuola di
qualità per Franti, l'infame del Cuore, o una scuola di qualità
per i
soli capaci e i soli meritevoli? Una scuola di qualità che sia
tale perché espelle i Franti o una scuola di qualità capace
di trasformare Franti in capace e meritevole?
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