Livelli essenziali di assistenza: riduzione
della spesa sanitaria e nuova emarginazione*
Mauro Perino
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Sul supplemento ordinario alla Gazzetta ufficiale n.33
dell'8 febbraio 2002 è stato pubblicato il Decreto del Presidente del Consiglio
dei Ministri 29 novembre 2001 che definisce i "livelli essenziali di assistenza".
Il decreto - emanato ai sensi dell'articolo 6 del decreto legge 18 settembre
2001 n.347, convertito in legge 16 novembre 2001, n. 405 (Gazzetta ufficiale
n.268 del 17 novembre 2001) - è stato preventivamente sottoposto all'esame della
"Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province
autonome di Trento e Bolzano" che, in data 22 novembre 2001, ha espresso parere
favorevole all'adozione del provvedimento firmato dal Presidente del Consiglio
dei Ministri, dal Ministro della salute, dal Ministro dell'economia e delle
finanze. Con il Dpcm si scaricano sui cittadini e sui Comuni oneri insopportabili,
minando alla base il principio di universalità del diritto soggettivo alla salute
e di equità di trattamento delle persone malate. Si addebitano infatti le spese
di alcune prestazioni - fondamentali per la tutela della salute - direttamente
ai cittadini in condizioni di maggiore debolezza ed in seconda istanza ai Comuni.
In particolare sono poste a carico dell'utente o del Comune nelle seguenti percentuali:
50% le "prestazioni di aiuto infermieristico e assistenza tutelare
alla persona", erogate sia nell'ambito dell'assistenza domiciliare integrata
(Adi) che dell'assistenza domiciliare programmata (Adp);
30% le "prestazioni diagnostiche, terapeutiche e socioriabilitative in regime
semiresidenziale per disabili gravi";
50% le "prestazioni terapeutiche, di recupero e mantenimento funzionale delle
abilità per non autosufficienti in regime semi residenziale, ivi compresi interventi
di sollievo";
60% le "prestazioni terapeutiche, in strutture a bassa intensità assistenziale"
a favore delle persone con problemi psichiatrici e/o delle famiglie;
30% le "prestazioni terapeutiche, in regime residenziale per disabili gravi";
60% le "prestazioni terapeutiche, in regime residenziale per disabili privi
del sostegno familiare";
50% le "prestazioni terapeutiche, di recupero e mantenimento funzionale delle
abilità per non autosufficienti in regime residenziale ivi compresi interventi
di sollievo";
30% le "prestazioni di cura e riabilitazione e trattamenti farmacologici
nella fase di lungo assistenza in regime residenziale" a favore di persone
affette da Aids.
Come a suo tempo rilevato da questa rivista "per ridurre la spesa sanitaria
c'è un sistema molto semplice e purtroppo collaudatissimo: esso consiste nel
dirottare gli utenti più deboli nel settore assistenziale. D'altra parte sono
questi utenti (soprattutto anziani cronici non autosufficienti, malati mentali,
lungodegenti) che comportano rilevanti spese" . Ed è proprio questa la logica
del decreto "Berlusconi - Sirchia - Tremonti" che, nell'allegato 1.C Area integrazione
socio sanitaria, afferma testualmente: "Nella tabella riepilogativa, per
le singole tipologie erogative di carattere socio sanitario, sono evidenziate,
accanto al richiamo alle prestazioni sanitarie, anche quelle sanitarie di rilevanza
sociale ovvero le prestazioni nelle quali la componente sanitaria e quella sociale
non risultano operativamente distinguibili e per le quali si è convenuta una
percentuale di costo non attribuibile alle risorse finanziarie destinate al
Servizio sanitario nazionale. In particolare, per ciascun livello sono individuate
le prestazioni a favore di minori, donne, famiglie, anziani, disabili, pazienti
psichiatrici, persone con dipendenza da alcool, droghe e farmaci, malati terminali,
persone con patologie da Hiv". Ancora una volta viene utilizzata l'integrazione
socio - sanitaria per violare il diritto alle cure sanitarie e per imporre obblighi
economici al solo scopo di ridurre la spesa. Se così facendo si generano processi
di nuova emarginazione poco importa! "In una situazione di libero mercato
selvaggio" - osserva Livio Pepino - "questioni simili non emergono
nemmeno. Poveri e ricchi si curano come possono, ed è evidente chi avrà le cure
migliori."
L'avvio del processo di espulsione dal sistema sanitario.
La "riduzione truffaldina della spesa sanitaria" - portata avanti
con il pretesto dell'integrazione tra attività sociali e sanitarie - avviene
attraverso un lungo processo che inizia sin dai primi anni di applicazione della
legge 833/78. Le "attività di rilievo sanitario connesse con quelle assistenziali"
vengono infatti per la prima volta menzionate - come tipologia specifica - nella
legge finanziaria del 1984.
L'articolo 30 della legge 730/1983 recitava testualmente: "Per l'esercizio
delle proprie competenze nelle attività di tipo socio - assistenziale, gli Enti
locali e le Regioni possono avvalersi, in tutto o in parte, delle unità sanitarie
locali, facendosi completamente carico del relativo finanziamento. Sono a carico
del fondo sanitario nazionale gli oneri delle attività di rilievo sanitario
connesse con quelle socio - assistenziali. Le unità sanitarie locali tengono
separata contabilità per le funzioni di tipo socio assistenziale ad esse delegate".
A "definire" la nuova tipologia di attività interviene, nel 1985, il Dpcm conosciuto
come "decreto Craxi" che, all'articolo 1, recita: "Le attività di rilievo
sanitario connesse con quelle assistenziali di cui all'art.30 della legge
27 dicembre 1983, n.730 sono le attività che richiedono personale e tipologie
di intervento propri dei servizi socio - assistenziali, purchè siano dirette
immediatamente e in via prevalente alla tutela della salute del cittadino e
si estrinsechino in interventi a sostegno dell'attività sanitaria di prevenzione,
cura e/o riabilitazione fisica e psichica del medesimo, in assenza dei quali
l'attività sanitaria non può svolgersi o produrre effetti". E' così che
quella che era una modalità di lavoro dei servizi - l'esercizio integrato
di attività professionali, sanitarie ed assistenziali, afferenti o meno allo
stesso comparto - diviene prima una tipologia di attività a sé stante
e, successivamente, un vero e proprio "comparto" inserito all'interno del settore
dei servizi sociali. Se le attività socio - assistenziali dirette immediatamente
e in via prevalente alla tutela della salute del cittadino vengono fatte
gravare sul fondo sanitario nazionale "non rientrano tra le attività di rilievo
sanitario connesse con quelle socio-assistenziali, le attività direttamente
ed esclusivamente socio-assistenziali, comunque estrinsecantisi, anche se indirettamente
finalizzate alla tutela della salute del cittadino" . Il Dpcm del 1985 si
configura come "atto di indirizzo e coordinamento" alle Regioni alle quali è
affidato il compito di definire in maniera più puntuale quando un'attività socio
assistenziale è diretta immediatamente e in via prevalente alla tutela della
salute del cittadino e quando invece è direttamente ed esclusivamente
socio-assistenziale anche se indirettamente finalizzate alla tutela della salute
del cittadino.
Grazie al decreto viene avviato il trasferimento degli anziani cronici non autosufficienti,
dei malati di Alzheimer e dei pazienti psichiatrici dal settore sanitario a
quello dei servizi sociali. A spingere in modo sempre più accelerato in questa
direzione sono - dalle seconda metà degli anni 80 e per tutti gli anni 90 -
le Regioni. Dall'individuazione di una competenza professionale socio assistenziale
nell'esercizio di attività sanitarie, si fa conseguire una competenza di
spesa per i Comuni (titolari delle funzioni socio assistenziali) nel finanziamento
di tutte le attività, non strettamente sanitarie, rivolte alle tipologie d'utenza
individuate dalle normative regionali applicative del "decreto Craxi". Si realizza
in tal modo una tripartizione della spesa per gli interventi: una quota sanitaria,
una quota a carico dell'utente e, nella quasi generalità dei casi, un'integrazione
a carico dei servizi sociali comunali a beneficio, per tutti gli anni successivi,
del bilancio sanitario.
La rincorsa finale: dal decreto "Amato - Turco - Veronesi" al decreto
"Berlusconi - Sirchia - Tremonti"
Ad accelerare il processo di espulsone dal sistema sanitario della persone
in condizioni di maggior debolezza è intervenuto - successivamente all'approvazione
della legge 328/2000 - il preannunciato Dpcm 14.02.2001 "Atto di indirizzo e
coordinamento in materia di prestazioni socio - sanitarie".
Con il decreto "Amato - Turco - Veronesi" si prosegue nella direzione, a suo
tempo avviata dal "decreto Craxi" , ridefinendo i confini delle prestazioni
socio - sanitarie ed introducendo nuovi criteri di ripartizione della spesa
tra Asl e Comuni. Si "transitano" inoltre le competenze sulle "categorie" di
cittadini risparmiate dal decreto del 1985, dal comparto sanitario a
quello socio - sanitario (con conseguente accollo degli oneri di intervento
relativi alle attività ritenute non strettamente sanitarie ai Comuni). All'utenza
già individuata dalle Regioni in applicazione del precedente atto di indirizzo
si aggiungono: le persone non autosufficienti con patologie
cronico degenerative; i soggetti dipendenti da alcool e da droga; gli
affetti da patologie psichiatriche; gli affetti da Hiv. Il Servizio
sanitario mantiene a completo carico solamente le "prestazioni e trattamenti
palliativi in regime ambulatoriale domiciliare, semiresidenziale, residenziale"
dei pazienti terminali.
Anche il nuovo decreto chiama in causa la Regione che "nell'ambito della
programmazione degli interventi socio - sanitari determina gli
obiettivi, le funzioni, i criteri di erogazione delle prestazioni socio
- sanitarie, ivi compresi i criteri di finanziamento" - tenendo conto delle
percentuali di addebito dei costi dettagliati nella tabella allegata al decreto.
Ma il decreto coinvolge in maniera molto cogente anche i Comuni che,
per quanto attiene alle prestazioni socio - sanitarie e alle prestazioni
ad elevata integrazione sanitaria, "adottano sul piano territoriale gli
assetti più funzionali alla gestione, alla spesa ed al rapporto con i cittadini
per consentirne l'esercizio del diritto soggettivo a beneficiare delle suddette
prestazioni" .
E' significativo che a fronte di una legge di riforma dell'assistenza che non
fissa alcun diritto soggettivo a beneficiare delle prestazioni sociali (ad esclusione
delle pensioni ed assegni sociali che già lo prevedevano) ci si premuri di fissare
l'obbligo dei Comuni ad assicurare quelle prestazioni che sino
ad oggi gravavano, per intero, sulla spesa sanitaria ed erano quindi, come tali,
già effettivamente esigibili dal cittadino . In tal modo, da un lato
si proclama il diritto del cittadino alle prestazioni e, dall'altro,
si realizza l'obiettivo di sgravare ulteriormente la spesa sanitaria accollandone
una parte ai cittadini ed ai Comuni che - con le maggiori risorse messe in campo
dalla legge 328/2000 (a questo punto ipotecate) ma soprattutto con risorse proprie
- dovranno assicurare (?) ai propri cittadini l'accesso alle prestazioni
socio sanitarie.
Va osservato a questo proposito che l'articolo 15 della legge 328/2000 - relativo
al sostegno domiciliare delle persone anziane non autosufficienti - al comma
1, recita testualmente: "ferme restando le competenze del Servizio sanitario
nazionale in materia di prevenzione, cura e riabilitazione, per le patologie
acute e croniche, particolarmente per i soggetti non autosufficienti,
nell'ambito del Fondo nazionale per le politiche sociali il Ministro per
la solidarietà sociale, con proprio decreto, emanato di concerto con i Ministri
della sanità e per le pari opportunità, sentita la Conferenza unificata di cui
all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n.281, determina annualmente
la quota da riservare ai servizi a favore delle persone anziane non autosufficienti,
per favorirne l'autonomia e sostenere il nucleo familiare nell'assistenza domiciliare
alle persone anziane che ne fanno richiesta."
Se le parole hanno ancora un senso: 1) viene ribadita la competenza sanitaria
in materia di prevenzione, cura e riabilitazione di tutti i soggetti non
autosufficienti perché malati (acuti o cronici); 2) si destinano
annualmente dei fondi - quantificati con decreto - per il sostegno delle
famiglie degli anziani non autosufficienti che assistono a domicilio i propri
congiunti. La distinzione delle "competenze" tra sanità ed assistenza viene
dunque sufficientemente evidenziata e si può pertanto affermare che il Dpcm
"Amato - Turco - Veronesi" si pone in contrasto con stessa la legge di riforma,
dalla quale dovrebbe discendere che tutte le prestazioni a elevata integrazione
sanitaria, in tutte le loro fasi, devono essere assicurate dalle aziende
sanitarie e quindi comprese nei livelli essenziali di assistenza sanitaria
(con relativi oneri a carico del Servizio sanitario).
Purtroppo con il Dpcm del 29 novembre 2001 ("decreto Berlusconi - Sirchia -
Tremonti") - che si situa coerentemente nel disegno espresso dal precedente
"decreto Amato - Turco - Veronesi" - si persevera nella direzione intrapresa
nel 1985. Con l'applicazione del decreto sui livelli essenziali di assistenza
si è ormai al di fuori delle attività non considerate "a rilievo sanitario"
(e quindi poste a carico dei Comuni) in quanto "direttamente ed esclusivamente
socio - assistenziali, comunque estrinsecantisi, anche se indirettamente finalizzate
alla tutela della salute del cittadino" . Il decreto "Berlusconi - Sirchia
- Tremonti" accolla infatti direttamente ai cittadini ed in seconda istanza
ai comuni, le spese per prestazioni sanitarie che vengono considerate
"accessorie" rispetto ai "livelli essenziali di assistenza sanitaria".
E' bene sottolineare, a tale proposito, che in base all'articolo 32 della Costituzione,
"la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse
della collettività", mentre in base all'articolo 38, "ogni cittadino inabile
al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento
e all'assistenza sociale". La differenza è stata chiarita dalla Corte di Cassazione,
Sezione 1^, nella sentenza n.10150 del 20 novembre 1996, nella quale è stato
affermato che "le prestazioni sanitarie, al pari di quelle a rilievo sanitario,
sono oggetto di un diritto soggettivo, a differenza di quelle socio - assistenziali,
alle quali l'utente ha solo un interesse legittimo". La ratio della legge 30
novembre 1998 n. 419 - con la quale veniva conferita la delega al Governo per
la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale - e dell'articolo 3 del
decreto legislativo 19 giugno 1999 n.229 - legge delegata - è da rinvenirsi
nella necessità, in conformità al diritto costituzionalmente garantito alla
salute, di imporre in modo chiaro il principio secondo il quale il malato cronico
deve essere curato e ciò implica la sostituzione della categoria delle attività
"di rilievo sanitario connesse con quelle socio-assistenziali" (di cui al "decreto
Craxi") con la categoria delle prestazioni sociosanitarie ad alta integrazione
sanitaria poste a carico del Servizio sanitario nazionale. Tale condivisibile
logica è stata totalmente stravolta dai due ultimi decreti che, attraverso le
tabelle allegate, hanno posto a carico degli utenti e dei Comuni tutta una serie
di prestazioni che devono invece venire assicurate dalle aziende sanitarie e
comprese nei "livelli essenziali di assistenza sanitaria" con oneri a carico
del Servizio sanitario nazionale proprio perché prestazioni di carattere
sanitario e non già socio -assistenziale.
Verso la tutela giudiziaria del diritto alla salute?
"il primo garante del diritto alla salute" - ricorda Livio Pepino
- "non può che essere il potere politico (legislativo e amministrativo),
cui spetta il compito di approntare un sistema sanitario adeguato sotto il profilo
della prevenzione, della cura, del reinserimento sociale. Non ci sono scorciatoie:
il motore della realizzazione di una società giusta è la politica, non la tecnica
e neppure la giustizia. Con l'ovvio corollario che la politica ha vincoli solo
di risultato, non di modalità. Dunque la politica è libera nella scelta dei
mezzi per garantire in maniera diffusa il diritto alla salute ….ma è vincolata
nell'obiettivo" .
Il problema delle risorse - che sta alla base del "trasferimento" dei disabili,
degli anziani cronici, delle persone non autosufficienti con patologie
cronico degenerative, dei soggetti dipendenti da alcool e da droga,
degli affetti da patologie psichiatriche o da Hiv. dal comparto sanitario a
quello assistenziale - è reale, ma viene malamente risolto. La tutela del diritto
alla salute (ed all'assistenza) impone di agire sulla dislocazione delle
risorse che, per il livello essenziale di ogni intervento costituzionalmente
previsto, deve essere necessariamente vincolata. In questo senso non dovrebbe
esser prevista alcuna discrezionalità politica.
Spetta dunque alla "Repubblica" ed agli "organi e istituti predisposti o integrati
dallo Stato" provvedere in tal senso, secondo il "principio della sussidiarietà"
recentemente introdotto. E se la politica è inadempiente? E' qui che si pone
- secondo Livio Pepino - l'intervento giudiziario: uno strumento - da utilizzare
con prudenza, attenzione e lungimiranza - che si attaglia ad azioni di gruppo
più che di singoli e che va praticato "non per sostituire la via giudiziaria
a quella politica, ma per rimediare alle inerzie e omissioni dell'amministrazione
e per richiamarla (ferma la discrezionalità che le compete) ai vincoli che la
Costituzione le impone" . Un significativo esempio di ricorso alla tutela
giudiziaria del diritto alla salute viene da "Medicina Democratica" e dall'Associazione
"Senza Limiti" - Coordinamento interassociativo per la cura e riabilitazione
senza limiti di durata degli anziani cronici non autosufficienti - che, nel
mese di settembre 2001, hanno richiesto al Tar del Lazio l'annullamento del
Dpcm "Amato - Turco - Veronesi" e "di tutti gli atti connessi precedenti e conseguenti".
L'iniziativa intrapresa dalle due associazioni di tutela degli utenti è importante
sia sul piano del merito (la difesa di un diritto fondamentale) che su
quello del metodo.
Con l'azione in sede giudiziaria si dà infatti concretezza al concetto
- espresso all'articolo 1, comma 6, della legge 328/2000 - di partecipazione
attiva "per il raggiungimento dei fini istituzionali di cui al comma
1" della legge, nel quale viene assunto l'impegno (da parte della
Repubblica nel suo insieme) a promuovere interventi per garantire "non discriminazione
e diritti di cittadinanza". Ma sono in primo luogo i Comuni - ai quali il
decreto del 29 novembre 2001 conferisce nuove e gravose funzioni, senza disporre
i necessari finanziamenti per le conseguenti spese di investimento e di gestione
- che dovrebbero cogliere il suggerimento agendo, in prima persona, con ricorsi
alla Corte Costituzionale ed all'autorità giudiziaria fondati sulla violazione
delle leggi vigenti . E' infatti indispensabile che la sussidiarietà
- sulla base della quale gli Enti Locali vengono chiamati sempre più frequentemente
in causa - non venga intesa come il prevalere della beneficenza su un diritto
fondamentale, quale quello alla salute, che può essere efficacemente tutelato
solo con l'assunzione diretta, da parte della sanità, di tutte le valenze umane,
relazionali e sociali degli interventi di prevenzione, cura e riabilitazione.
* In "Prospettive assistenziali", n. 137/2002, p. 4.
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