Un anno e' finito, si e' concluso. Uno sguardo gettato al calendario,
quello tascabile, quello del computer o quello che abbiamo interiorizzato
nostro malgrado, ci presenta con spietatezza gli impegni cui non siamo
riusciti a far fronte, le scadenze non rispettate, le occasioni mancate.
Qualche data puo' essere rinviata all'anno appena cominciato. E il nuovo
calendario comincia a infittirsi. Siamo gia' sempre in ritardo. Il tempo
manca, e' consumato prima ancora che ci venga dato, inghiottito nella
frammentazione programmata di mesi, settimane e giorni, annientato nelle
linee sottili di una misurazione sempre piu' precisa in cui sembra non
restare nessun margine di gioco.
L'accelerazione non e' un rimedio
L'asfissia temporale, si sa, e' uno dei nostri mali. Non e' un male individuale,
per quanto possa colpire alcuni piu' di altri. E tanto meno e' un male
solo esistenziale. L'impressione vaga e generica della scarsita' di tempo
si e' andata definendo in questi ultimi anni nella certezza di una sottrazione.
Il tempo ci manca perche' non siamo noi a disporne liberamente.
Da quando la modernita' occidentale, insieme alle altre risorse della
produttivita', gestisce anche il tempo all'insegna della razionalita'
tecnica, si fa piu' chiaro il nesso su cui ha attirato l'attenzione Walter
Benjamin negli aforismi degli anni '20 intitolati Strada a senso unico:
il nesso tra tempo e potere, mediato ovviamente dal denaro. Ha potere
chi dispone di tempo, di quello proprio e di quello altrui. Industriali
e
magnati della finanza si spacciano come padroni del tempo, quelli che
battono e scandiscono il ritmo sempre piu' accelerato. Tuttavia, alla
vorticosa economia di tempo non sfugge nessuno, neppure quelli che si
definiscono come manager, che pretendono - come indica il verbo inglese
"to manage" - di dirigere, gestire, amministrare il tempo, di maneggiarlo,
manovrarlo, domarlo. Implode qui finalmente l'analogia fra tempo e denaro.
Il tempo non e' denaro. Se il denaro perduto puo' essere recuperato, non
c'e' banca che dia in prestito il tempo.
E l'accelerazione non e' un rimedio. Piu' che mai viene alla luce – come
sottolinea Lothar Baier nel libro Non c'e' tempo! - il paradosso
dell'accelerazione destinata a non raggiungere mai la propria meta: ogni
guadagno di tempo richiede un nuovo investimento, aumenta il bisogno di
tempo. Lo mostra ogni innovazione del computer dove si riflette perfettamente
la logica, molto illogica, di un risparmio che finisce per dissipare il
tempo.
Pensata come un mezzo per battere il tempo, e per guidare la storia, l'accelerazione,
complice dell'economia e della tecnica, si rivela fine a se stessa, una
forza che non si lascia piu' manovrare. "Era come se non fosse
stato un obiettivo qualsiasi a imporre la fretta del mondo, ma la fretta
stessa fosse lo scopo" - scrive Karl Kraus nel 1909 in un saggio per la
rivista "La fiaccola". E paragona il progresso a un portiere d'albergo
andato in pensione: "i piedi erano di gran lunga piu' avanti, di certo
la testa rimase indietro e il cuore si indeboli'". Quasi cento anni dopo,
nel pamphlet L'incidente del futuro, il filosofo Paul Virilio sintetizza
l'ideale illuministico del progresso totalitario: "Progredire corrisponderebbe
ad Accelerare!". Dopo il secolo dei Lumi ci sarebbe il secolo della velocita'
della luce e infine il nostro: quello della luce della velocita'. Qui
l'accelerazione non si proietta piu' verso l'utopia, ma corre verso la
"ucronia" del tempo umano. Travolti e sopraffatti dalla velocita' e dal
suo progresso, di cui tuttavia godiamo, abbiamo la sensazione di non poter
sostenere il ritmo e di finire per essere tagliati fuori. Inevitabilmente
consideriamo con ostilita' il tempo, il nemico contro cui lottiamo quotidianamente.
Nell'era della flessibilita' Nell'ultimo giorno dell'anno, guardando impotenti le lancette dell'orologio
che segnano le ore mancanti alla fine, cerchiamo con petardi e spumante
di esorcizzare il mostro che da sempre ci angustia e ci opprime. Abbiamo
paura del tempo e del suo potere; ci illudiamo di poterlo prima o poi
sconfiggere.
Sogniamo la atemporalita'. Ci sentiamo a nostro agio nell'atmosfera atemporale
prodotta dal 24-hours-banking, dalla nuova civilta' delle ventiquattro
ore, dove tutto e' sempre aperto e disponile, nulla si chiude e
si conclude. Cosi' crediamo di vivere gia' nell'era della flessibilita'
assoluta in accordo con il tempo universale. Las Vegas, nuova Mecca dell'occidente,
e' il tempio di questa atemporalita' venduta in centri
commerciali e casino' sui cui soffitti vengono proiettati artificialmente
cieli mattutini o cieli notturni. L'obiettivo e' la perdita del senso
del tempo che per alcuni produce disorientamento, per altri diventa una
specie di cocaina. Ma non occorre andare fino a Las Vegas per godere dell'annullamento
delle differenze temporali e per essere sollevati dal peso del rapporto
con il tempo. Ovunque e' in atto un processo di sincronizzazione. E in
molti casi e' evidentemente intenzionale.
All'ombra del calendario
Al dono dell'ubiquita' il canale televisivo Cnn cerca di aggiungere quello
dell'onnipresenza, bandendo fra l'altro dai suoi studi tutti gli orologi.
Il fenomeno e' quello che il ricercatore americano James T. Fraser ha
chiamato "ingrigimento del calendario". Sognando la atemporalita' ci consoliamo
vivendo nell'ombra di un calendario che diventa sempre piu' grigio perche'
si cancellano i limiti tra le ore, i giorni, le settimane, i mesi, le
stagioni.
La risposta al grigio di questo presente che domina con prepotenza sugli
altri tempi, sul passato e sul futuro, si traduce in depressione. "Le
forme del tempo ti si confondono, confluiscono l'una nell'altra, e quella
che ti
si svela come vera forma dell'essere e' un presente senza dimensioni"
- cosi' Thomas Mann descrive la "malattia del tempo" nel suo romanzo La
montagna incantata. "Malattia" del nostro tempo che non tollera il
tempo, "malattia" che colpisce l'esperienza vissuta del tempo. Questo
la distingue dalla "malinconia" o dalla "tristezza opprimente" che i tedeschi
chiamavano e chiamano Schwermut. La depressione e' la "fatica di essere
se'" – come suggerisce il titolo del famoso studio di Alain Ehrenberg.
Chi e' depresso sembra non avere passato e non avere futuro; e' immerso
in un presente da cui non riesce a liberarsi, tanto meno per formulare
progetti. E il progetto - come ha insegnato Heidegger - e' la chiave dell'esistenza.
Esistere e' progettarsi, proiettarsi oltre se'. Se il depresso non lo
fa, non puo' farlo, se resta intorpidito nel suo andamento rallentato,
e' perche' risponde al ritmo imperativo dell'accelerazione che fa mutare
continuamente tutto sotto i suoi occhi, e' perche', seppure inconsapevolmente,
con piu' sensibilita' degli altri, protesta contro questo ingrigimento
sconcertante del tempo. Da quando il film della realta' esterna scorre
ben piu' veloce dei nostri dialoghi, la depressione dilaga e, dato che
quel film non e' molto piu' di un film, una finzione che pretende di essere
una costrizione alla realta', la sofferenza aumenta in ragione della sua
inutilita'. La "decelerazione" non e' certo un'alternativa. Chi la sostiene,
come il critico letterario tedesco Sten Nadolny, non ne vede l'ambiguita'.
Di fronte al ritmo incalzante la lentezza sembra la difesa piu' comoda
e tranquillizzante; ma e' anche vero che lascia tutto cosi' com'e', che
non cambia quella discordanza tra agire e comprendere che ciascuno sperimenta
ogni giorno. La lentezza conserva. A ben guardare non e' che l'altra faccia
della velocita': un modo di controllare il tempo. E a nulla servono neppure
i piccoli boicottaggi o le rivolte private, di solito pagate a caro prezzo
- come quella dell'agente di borsa che, allontanatosi un attimo per mangiare
un taco in un bar, perde parecchie migliaia di dollari. D'altronde dobbiamo
ammettere che poiche' non siamo quasi piu'
abituati ad avere tempo quando ce l'abbiamo lo dissipiamo, cosi' come
consumiamo le merci. "Terrorizzati dall'horror vacui - osserva Guenther
Anders ne L'uomo e' antiquato - ci sentiamo obbligati a frazionare
questo vacuum in un gran numero di attivita' che richiedono tempo, ovvero
a saturare il vuoto con attivita' divoratrici di tempo". Ci sostengono
in questa dissipazione nuovi siti web e nuovi canali - anche se ovviamente
ne usciamo piu' informati. Ma quale forma ha assunto la nostra lotta contro
il tempo nell'eta' della mondializzazione dove tutto si svolge secondo
un ritmo e un battito sconosciuti forse in altre epoche? I risultati di
questo processo accelerato sono gia' sotto i nostri occhi: la devastazione
programmata della terra, la manipolazione politica e micropolitica del
modo di pensare e di quello di vivere, lo smarrimento nell'ebbrezza tecnologica.
Nel regno della memoria illimitata
Certo l'eta' della mondializzazione appare votata all'illimitato. In un
mondo concentrato ed accentrato da una interdipendenza terrestre e da
una universalita' cosmologica, l'illimitato spaziale e temporale sembra
l'aspirazione ultima. Se la parte piu' lontana del mondo e' gia' quasi
qui, fosse pure attraverso uno schermo, se il presente e' recepito e memorizzato,
in una memoria illimitata, come passato di quel che e' gia' futuro, il
sogno dell'onnipresenza, dell'onniscienza, dell'onnipotenza sembra a un
passo. Piuttosto che dubitarne, avanziamo riserve nei confronti di quei
limiti che restano ancora e che diventano tanto piu' insopportabili, tanto
piu' incomprensibili. L'illusione dell'illimitato aumenta la delusione
per il limite. La tecnica stessa - minaccia e chance insieme - dislocando
e differendo da un limite all'altro, non fa che moltiplicare le zone d'urto.
Presi in questo vortice, destinati all'illimitato, non possiamo piu' accettare
di essere noi stessi un limite.
L'incongruenza fra il tempo della nostra vita e il tempo del mondo ci
sembra assurda. Davvero la nostra vita non sara' alla fine che un episodio
nella vita del mondo? Non a caso Adolf Hitler, mai preoccupato per il
futuro del suo regime, fu invece ossessionato dall'idea di far coincidere
la durata della sua esistenza con la storia del mondo. "La sua unica esistenza
- commenta Hans Blumenberg - pretendeva di essere qualcosa dopo la quale
non avrebbe dovuto esserci null'altro". Questa pretesa narcisistica caratterizza,
anche se tacitamente, la nuova prospettiva temporale che si impone nella
seconda meta' del '900. Ma gia' nel saggio Malinconia di sinistra
del 1930 Benjamin descriveva i nuovi idolatri di se', "agenti senza figli,
venuti su dal nulla, che a differenza dei magnati della finanza non prendevano
disposizioni per decenni e per la loro famiglia, ma solo per se stessi,
e per un periodo di tempo che superava a malapena la stagione". E' forse
questo allora il nostro male: non poter piu' oltrepassare l'orizzonte
temporale in direzione del passato o del futuro, non poter pensare se
non la propria vita individuale, e solo per una stagione, non riuscire
piu' a
immaginare qualcosa in comune con gli altri.
Questione di alta velocita'
La politica non fa che riflettere questa economia del tempo. Il treno
e' stato ed e' metafora del rapporto tra programma e velocita'. La costruzione
di una ferrovia, e non l'apertura di un nuovo spazio aereo, ha fatto
esplodere la protesta e sollevato la questione della "alta velocita'".
Le prime ferrovie hanno rappresentato la transizione verso una nuova epoca:
le rotaie superavano non solo fiumi e gole, ma anche l'abisso del tempo,
e
aprivano una via ben tracciata al progresso. L'immagine del "treno della
storia", che avanza portando con se' le masse degli sfruttati e degli
oppressi si e' profondamente radicata.
Nonostante i dubbi su quel progresso, la locomotiva resta per noi tutti
il simbolo della rivoluzione. Ma il simbolo e la rivoluzione dovrebbero
essere reinterpretati. "Marx dice che le rivoluzioni sono la locomotiva
della storia universale. Ma forse non e' cosi'. Forse le rivoluzioni sono
il freno d'emergenza azionato dal genere umano in viaggio" - cosi' scrive
Benjamin nel 1940. Oggi nel treno ad alta velocita' il freno d'emergenza
non c'e' piu' e il suo posto e' stato preso dal sensore ottico dell'apertura
automatica delle porte. Ma vale piu' che mai l'indicazione di Benjamin
e quel gesto rivoluzionario di azionare il freno - al momento giusto,
nella "Jetztzeit". La rivoluzione e' una fenditura nella storia, e' una
interruzione nella continuita' del destino truccato da progresso, e' l'istante
in cui il tempo si arresta e si apre un varco messianico.
I colpi di stato hanno a che fare con il controllo del tempo - "un ultimo
sguardo all'orologio... e il Cile fu irriconoscibile", ricorda lo storico
Wolfgang Pohrt. All'opposto, le rivoluzioni riuscite irrompono al momento
giusto e interrompono il tempo - nel 1830 a Parigi i rivoluzionari sparavano
contro gli orologi delle torri. In una societa' che vive e costringe a
vivere secondo il motto "il tempo e' denaro' e' sempre piu' ridotto lo
spazio per il momento giusto. E il senso del tempo, che dovrebbe riconoscerlo,
si esercita solo nella verifica ossessiva delle ore e dei minuti che passano.
La nostra quotidiana esperienza del tempo e' quella del
tempo di cui disponiamo, che abbiamo o crediamo di avere, e' quella del
tempo vuoto che puo' essere colmato dall'affaccendamento o restare svuotato
nella noia. Cosi' finiamo per dimenticare che questo tempo puo' essere
interrotto da cio' che viene a suo tempo e scandisce un altro tempo che
non si lascia calcolare ne' riempire. E' il tempo pieno che ferma il tempo
del calcolo, che invita a indugiare, a intrattenersi, a partecipare, e'
il tempo della festa che c'e' quando e' celebrata, e' la celebrazione
stessa del tempo. Il che e' possibile solo quando si raccoglie una comunita',
e la comunita' e' tale grazie alla festa - in un presente dove ricorre
il passato e che resta aperto al varco di cio' che e' a venire.
L'agire inoperoso
Al suo libro La comunita' che viene Giorgio Agamben ha aggiunto
una postilla intitolata Tiqqun de la noche. La parola ebraica tiqqun significa
riparazione, redenzione, e costituisce "cio' che e' in questione nel libro".
Non e' il risultato di un'opera, ma al contrario l'inoperosita' e la de-creazione
dello Shabbat, del sabato. Questa inoperosita', che non e' inerzia, ma
un modo di agire dove e' importante il come e non il che, e'
indicato come il paradigma della politica che viene e che si scandisce
con un altro tempo, quello di una "specie particolare di vacanza sabbatica".
Scheda. Da leggere senza fretta. Per un quadro sociologico complessivo
sulla questione del tempo nel mondo contemporaneo si puo' leggere il volume
di Lothar Baier, Non c'e' tempo! Diciotto tesi sull'accelerazione,
Bollati Boringhieri, Torino 2004, che tuttavia e' deludente sotto il profilo
filosofico. Resta invece un punto di riferimento indispensabile Walter
Benjamin, in particolare con i seguenti saggi: Strada a senso unico,
in Opere complete, a cura di E. Ganni, vol. 2, Scritti 1930-1931,
Einaudi, Torino 2001; Malinconia di sinistra, in Opere complete
cit., vol. 4. Scritti 1930-1931 cit.; Sul concetto di storia, a
cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1997.
Riscoperto solo da alcuni anni e' il filosofo Guenther Anders del quale
vale la pena segnalare almeno L'uomo e' antiquato, vol. 2, Sulla
distruzione della vita nell'epoca della terza rivoluzione industriale,
Bollati
Boringhieri, Torino 2003. Poco tradotto in italiano e' purtroppo Karl
Kraus. Affrontano temi strettamente connessi con la questione del tempo
Giorgio Agamben, La comunita' che viene, Bollati Boringhieri, Torino
2001; Alain Ehrenberg, La fatica di essere se stessi. Depressione
e societa', Einaudi, Torino 1999; Paul Virilio, L'incidente del
futuro, Raffaello Cortina Editore, Milano 2002.