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      Serve rispetto, serve solidarietà 
         
      di Andrea Vianello, Unità Operativa di Fisiopatologia 
        Respiratoria, Azienda Ospedaliera di Padova. Presidente dal 1999 al 2006 
        della Commissione Medico-Scientifica Nazionale UILDM, Unione Italiana 
        Lotta alla Distrofia muscolare 
      (torna all'indice informazioni) 
      Nel corso di questi anni mi sono occupato di terapia intensiva 
        respiratoria e ho presieduto la Commissione 
        Medico-Scientifica della UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare). 
        In conseguenza di ciò, sono venuto a contatto con molti malati 
        di distrofia muscolare che si trovano in condizioni del tutto simili a 
        quelle di Piergiorgio Welby, pazienti cioè gravemente disabili, 
        tracheostomizzati e sottoposti a ventilazione meccanica. È questa 
        esperienza che mi induce ad intervenire con alcune riflessioni nella complessa 
        e dolorosa discussione suscitata dal caso Welby, pur senza voler entrare 
        direttamente nel dibattito sulla moralità del comportamento dei 
        diversi protagonisti di questa vicenda. 
      Prima considerazione: la discussione sembra prendere avvio da uno scontato 
        punto di partenza e cioè che la qualità della vita dei portatori 
        di distrofia sottoposti a ventilazione meccanica sia assolutamente inaccettabile, 
        tanto da rendere "naturalmente" necessarie delle norme che consentano 
        di interrompere le cure. 
        Non condivido questa premessa: la maggior parte dei pazienti che ho conosciuto 
        è costituita infatti da persone attive e partecipi, che si ritengono 
        soddisfatte della propria vita, molto più di quanto non si aspetterebbero 
        le persone "normali" che le assistono, familiari e amici, medici 
        e infermieri. 
        L'impossibilità di raggiungere obiettivi irrinunciabili per la 
        persona "normale" non incide sul giudizio 
        positivo che questi malati esprimono nei confronti della propria esistenza. 
        Il ventilatore meccanico, così 
        detestato da Welby, in tantissimi casi non solo ha aggiunto anni (molti) 
        alla vita dei pazienti, ma ha anche assicurato che sopravvivessero passioni, 
        impegno, emozioni. 
        Mi pare quindi fuorviante concentrare il dibattito esclusivamente sul 
        modo in cui possa essere assicurata una 
        fine dignitosa all'"inaccettabile" vita dei malati ventilati 
        a lungo termine; mi sembra che così facendo si 
        imbocchi una scorciatoia attraverso cui altri problemi vengono evitati. 
      E mi riferisco innanzitutto alla necessità di assicurare ai malati 
        una migliore informazione: infatti, casi simili a quello di Welby nascono 
        soprattutto quando pazienti e familiari non siano stati adeguatamente 
        informati sul decorso della malattia, sulle possibilità terapeutiche 
        e sulle loro conseguenze. Capita così che i malati 
        affrontino intubazione e tracheostomia senza aver potuto riflettere in 
        anticipo sull'opportunità per se stessi di 
        queste procedure, senza aver espresso un consenso veramente informato. 
        L'effetto che ne deriva è drammatico: i pazienti che non hanno 
        condiviso consapevolmente il trattamento, ma piuttosto lo hanno "subìto", 
        sono quelli che male lo sopportano, che dichiarano che se potessero scegliere 
        di nuovo lo rifiuterebbero. È quindi indispensabile che i medici 
        trasmettano ai pazienti e alle loro famiglie un'informazione tempestiva 
        ed esauriente, che li renda realmente partecipi delle scelte terapeutiche; 
        è un problema da affrontare e risolvere al più presto. 
      Accanto poi alla necessità di garantire una scelta informata, 
        vi è l'urgenza di assicurare ai malati ventilati a lungo termine 
        un'assistenza dignitosa. Non è ammissibile, infatti, che, dopo 
        aver deciso di sottoporsi 
        alla tracheostomia e alla ventilazione meccanica, la maggior parte dei 
        malati possa contare solamente sull'aiuto di familiari e amici. Non è 
        accettabile che genitori, mogli e mariti debbano provvedere da soli, ogni 
        giorno, alla ventilazione, alla bronco aspirazione, alla nutrizione, alla 
        medicazione e all'igiene personale dei loro cari, tutto questo per 365 
        giorni all'anno. 
        I programmi di assistenza domiciliare devono essere potenziati e integrati 
        ed è indispensabile che vengano 
        create residenze protette cui affidare i pazienti nei momenti in cui la 
        famiglia non sia in grado di sostenerne la cura. Sforziamoci insomma di 
        offrire ai pazienti anche un'assistenza e non soltanto una morte dignitosa! 
      In conclusione, ho la speranza che il caso Welby sia l'occasione non 
        per accantonare, ma piuttosto per 
        affrontare e risolvere i problemi di tanti malati che non richiedono commiserazione, 
        ma rispetto e solidarietà. 
       
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