Robin Hood e lo sceriffo di Nottingham
Possiamo immaginare due modi molto diversi, ma ugualmente sbagliati, di
concepire il rapporto volontariato-istituzioni.
Il primo è quello di chi ama stare lontano dalle istituzioni e punzecchiarle
dall'esterno, evitando di farsi coinvolgere. Lo sceriffo di Nottingham
fa le sue nefandezze - tassa rovinosamente i poveracci, li deruba, non
li protegge dalle disgrazie della vita - e Robin Hood lo punzecchia con
le sue frecce, segretamente contento di essersi ritagliato questo ruolo.
Lo sceriffo di Nottingham del resto, per definizione, non fa che corbellerie
e a ogni nuova nefandezza Robin Hood gode segretamente dentro di sé perché
sarà l'occasione per scoccare nuove frecce, sempre più avvelenate. Robin
Hood, infatti, non si sente responsabile.
Il secondo è quello di chi lungi dal contrapporsi alle istituzioni, lascia
fare. Suo compito non è certo quello di criticare, ma di occuparsi dei
bisogni della gente. <>.
Lo sceriffo di Nottingham continua con le sue nefandezze, e Robin Hood,
deposte le frecce, corre in giro per la foresta di Nottingham a curare
le ferite.
Non è mio compito occuparmi di ciò che lo sceriffo fa, mio compito è <>.
Tanto più che molte delle ferite che il prossimo manifesta, a ben guardare,
non dipendono nemmeno dalle nefandezze compiute dallo sceriffo, ma da
altre cause che possono colpire, più o meno casualmente, tutti: l'incidente,
la malattia, l'handicap, il disagio personale.
Quando lo sceriffo di Nottingham, in seguito a una improvvisa conversione,
reso finalmente consapevole delle ingiustizie compiute, come Budda colpito
dalle dimensioni del dolore umano, apre le porte del castello e chiama
Robin Hood a discutere intorno ad un tavolo come si possono affrontare
insieme i mali del mondo:
il primo tipo di volontariato correrà il rischio di continuare a starsene
fuori in attesa che lo sceriffo <>, ritorni ai suoi antichi
usi e consenta di riprendere lo sport preferito, il tiro con l'arco;
il secondo tipo di volontariato dirà che non ha tempo da perdere in vane
discussioni perché i suoi bisogni sono molti e c'è tanto da fare. Ben
venga la conversione dello sceriffo. Potremo finalmente dedicarci, senza
più essere disturbati, all'unica cosa che ci interessa: aiutare il prossimo,
possibilmente senza pensare troppo; perché se aiutare il prossimo, costa
fatica, pensare è ancora più faticoso. Del resto noi siamo <>
e non siamo molto capaci di occuparci di cose troppo complicate.
Si possono poi immaginare altre due possibilità, forse più realistiche.
La prima possibilità è quella che si determina nel caso in cui la conversione
dello sceriffo non sia stata completa. Egli si è accorto che, effettivamente,
i dolori del genere umano sono grandi ed estesi, ma pensa che molti mali
la gente se li cerca per colpa sua, e vuol metterci il meno possibile
del suo per stanarli: egli ha aperto le porte del castello, perché non
ce la fa ad affrontare tutti i bisogni sociali e ha bisogno di aiuti a
poco prezzo. Il primo tipo di volontariato, dopo un attimo di incertezza,
ne sarà felice perché potrà continuare nel suo sport preferito. Sapete
già quale esso sia.
Il secondo compiangerà lo sceriffo e tamponerà le falle con il suo lavoro
<>, trasformandosi in un <> a sostegno
di chi non vuole assumersi le responsabilità che gli gravano addosso.
La seconda possibilità suppone invece che la conversione dello sceriffo
sia stata effettivamente completa, che il volontariato collaborativo entri
di buon grado nel castello, felice di poter partecipare ai tavoli, ma
che vi entri con le brache in mano, senza aver riflettuto, senza sapere
esattamente cosa dire, oppure in ordine sparso, in competizione con se
stesso, con le idee troppo diverse al proprio interno.
Il suo apporto non servirà molto allo sceriffo, il quale si troverà a
decidere sostanzialmente da solo e subirà tutte le <> del
caso. Qualche volontario, dal canto suo, si sentirà blandito dall'idea
di potersi sedere al tavolo dove si decide, anche se la sua presenza non
incide. Le frecce ammuffiranno inesorabilmente nella faretra, diventeranno
sempre meno acuminate, e il volontariato perderà quel suo ruolo critico,
di stimolo e di denuncia, che prima svolgeva.
La morale della favola è abbastanza evidente ed è duplice.
Quando le porte del castello si aprono non si può restare fuori: si perde
un'occasione per influire su scelte importanti, di affrontare finalmente
i bisogni al livello in cui devono essere affrontati e si corre il rischio
che lo sceriffo ritorni ai suoi antichi costumi.
Quando si accede al castello non solo si deve entrare sapendo cosa si
va a fare e attrezzandosi di conseguenza, ma bisogna tenere gli occhi
ben aperti, evitare il rischio di sentirsi troppo blanditi dalla posizione
conseguita, e anche adottare un modo diverso di lavorare, che coinvolga
tutto il mondo del volontariato e non solo i membri più influenti.
Un Welfare in profonda trasformazione L'idea che sia sbagliato stare alle porte è motivata
anche dal fatto che siamo, da tempo ormai, entrati in una fase di profonda
trasformazione dello stato sociale.
Tutti i paesi europei stanno vivendo un periodo di gravi difficoltà dei
loro sistemi di protezione sociale; difficoltà che sono causate da fenomeni
di grande portata: l'invecchiamento della popolazione, le modificazioni
nei modi di produzione (l'eclissi del fordismo), le trasformazioni della
famiglia e nei rapporti tra i generi, la crescita rallentata dell'economi,
la perdita di centralità dello stato nazione (globalizzazione e integrazione
europea da un lato, spinte autonomistiche e localistiche dall'altro).
Oltre a ciò lo stato sociale viene messo in discussione più dall'interno.
Si assiste cioè a una sua crescente crisi di legittimazione, perché appare
troppo costoso (basti pensare al dissesto finanziario dei sistemi previdenziali);
perché la logica prevalente nelle politiche sociali è ancora molto risarcitoria
e poco promozionale; perché in campo sanitario continua a prevalere l'assistenza
ospedaliera <>, di tipo più curativo che preventivo, un tipo
di assistenza che appare non in grado di affrontare adeguatamente i problemi
posti dalla cronicità, perché vi è uno scarto crescente tra i bisogni
associati a rischi non tradizionali e non protetti, uno scarto che è anche
tra gruppi sovraprotetti e gruppi esclusi.
Ma lo stato sociale è messo in discussione anche perché - è doveroso dirlo
oggi come mai la <> rialza la testa e può permettersi di ritornare
a incolpare la <> del suo essere tale. Da parecchio tempo cioè
operano concezioni, interpretazioni, ideologie che rifiutano di vedere
la povertà come un prodotto sociale, che attribuiscono a fattori meramente
personali le origini dell'emarginazione, che negano l'esistenza di tendenze
strutturali a emarginare, con ciò assolvendo pregiudizialmente la comunità
dalle sue responsabilità.
Un riordino a spesa invariata Dobbiamo essere perciò consapevoli che i tavoli di concertazione
cui anche il volontariato è chiamato si aprono in un contesto che, per
motivi diversi, è di ristrutturazione della protezione sociale e che tale
<> avverrà a spesa che, nella migliore delle ipotesi, rimarrà
invariata. Vi dovranno essere perciò scelte di tipo esplicitamente redistributivo
(tolgo ad A per dare a B) oppure di tipo sottrattivo (tolgo ad
A per il bene collettivo) (Ferrera M., 1999). E queste ovviamente suscitano
reazioni pesanti. La più evidente oggi forse è quella in base a cui ogni
area territoriale tende a pensare solo a se stessa, soprattutto se può
permettersi di farlo perché ne ha i mezzi.
C'è da aggiungere che il welfare italiano si è consolidato molto
tempo dopo quello di altri paesi europei.
Lo stato sociale comincia in Europa a dare segni di crisi nella seconda
metà dgli anni Settanta (dopo il primo shock petrolifero), mentre il primo
assetto di tipo universalistico viene impostato in Italia con la <>del
1978 (costituzione del Servizio Sanitario Nazionale). Lo stato sociale
fa, almeno sulla carta, il suo ingresso in forma compiuta nel settore
dell'assistenza solamente nel 2000, con la legge quadro (legge 328/2000)
che <> la legge Crispi (17 luglio 1890), quando ormai da
tempo i vincoli di convergenza europea e la necessità di contenere il
debito pubblico accumulato hanno drasticamente tagliato le risorse disponibili.
Il welfare italiano e il suo bisogno di una riforma più profonda Oltre a ciò il sistema di protezione italiano presenta alcune
peculiarità che inducono a pensare da una parte a una esigenza di riforma
che agisca sempre più in profondità, e dall'altra all'esistenza di bisogni
che sono stati troppo a lungo trascurati.
La spesa totale, contrariamente a quanti molti credono, non è molto alta;
anzi è inferiore alla media UE (nel 2000 rappresenta il 24,9% del Pil
contro il 27,1% della media europea). Ma l'incidenza della spesa previdenziale
è senza confronti con qualsiasi altro paese europeo (71,4% della spesa
totale contro il 53,5 della media UE). Mentre le quote di spesa rivolte
a tutelare la disoccupazione e le famiglie sono incurabilmente più basse
(disoccupazione 1,9 contro 7,6 medio; famiglie 3,5 contro 8,4) (rapporto
Istat 2000, elaborazioni su dati Eurostat).
La spesa sanitaria complessiva pro-capite, dal canto suo, non è in Italia
né alta, né bassa. Appare piuttosto perfettamente in linea con il livello
di reddito. Ma la spesa privata è passata in 18 anni dal 19,5 al 32% (dal
1980 al 1998) (fonte Ocse, Health Data, luglio 2000).
Quasi una lira ogni tre, pardon, quasi un euro ogni tre, esce direttamente
dalle tasche dei cittadini, dato che nel nostro paese non c'è un sistema
sviluppato di assicurazioni private.
La particolare situazione delle famiglie con figli minori in Italia A ciò si possono aggiungere, perché meno spesso rilevate, due
altre osservazioni viste da un angolo visuale particolare, quello delle
famiglie con figli minori (cfr. tabella 1).
Il nostro paese è quello in cui il reddito familiare dipende maggiormente
dall'impegno lavorativo delle famiglie. La differenza con la Svezia è
di quasi 27 punti percentuali. Le entrate derivanti da sicurezza sociale
sono le più basse in assoluto, circa 175 di una famiglia svedese. Al loro
interno più di due terzi sono derivanti da pensioni.
Questo spiega sufficientemente perché in Italia il tasso di povertà familiare
cresce al crescere del numero dei figli (dal 10% delle famiglie con un
solo figlio minore al 27% delle famiglie con tre o più figli minori) e
perché ad essere poveri siano più spesso i minori.
Queste rapide annotazioni sul welfare italiano suggeriscono che,
con ogni probabilità, la concertazione nei tavoli locali avverrà all'interno
di un quadro generale in forte movimento. L'esigenza di por mano al welfare
era stata del resto sottolineata con forza dalla Commissione Onofri, al
tempo della presidenza Prodi.
Tab. 1 - Formazione del reddito disponibile per le famiglie con minori
aeseDa lavoroDa capitaleDa sicurezza socialeDi cui da pensioni pubbliche*Da pensioni
privateAltri redditi Svezia 61,8 3,3 32,1 3,5 0,5 2,3 Norvegia
77.6 4,6 15,6 13,8 0,3 1,9 Finlandia 69,0 4,0 24,1 5,0 1,3 1,6 Germania
85,3 3,1 10,6 12,2 0 1,0 Belgio 76,5 5,2 17,5 8,2 0 0,8 Francia 80,1 3,3
15,7 9,3 0 0,9 Italia88,53,86,671,50,11,0 Olanda 78,1 2,2 18,2 4,7 0,2 1,3 Regno U. 77,3 2,3
17,7 2,9 0,8 1,9 *Sono compresi: indennità di malattia, invalidità, pensioni,
assegni al nucleo familiare, disoccupazione, maternità e altri benefici.
Fonte Isae su dati Lis
Esse permettono inoltre di rilevare che un cambiamento è da tempo auspicabile
e necessario, nei limiti in cui vi sono bisogni scoperti che vanno tutelati,
e infine, ma fondamentale da comprendere per il volontariato, che ben
difficilmente si riuscirà a rispondere positivamente ai bisogni della
popolazione - e soprattutto a quelli dei soggetti più deboli - semplicemente
<>. Questo <> di
quanto la nuova maggioranza parlamentare deciderà.
Il nuovo contesto istituzionale Il quadro è in movimento anche a seguito di una serie di provvedimenti
legislativi di grande rilievo che modificano la distribuzione dei poteri
e configurano un diverso ruolo del settore pubblico, oltre che prevedere
nuovi spazi - decisamente di maggiore responsabilità - per il volontariato
e per il terzo sistema nel suo insieme. La riforma del Titolo V della
Costituzione introdurrà ulteriori elementi di forte innovazione. I provvedimenti
si riferiscono a:
la riforma Bassanini (legge 59/97 e d.lgs n.112/98), cui vanno aggiunti
quelli che saranno gli effetti della norma di riforma costituzionale sul
federalismo approvata con referendum dall'elettorato e le future, ancora
incerte devolution;
la legge di modifica (legge 265/99) dell'ordinamento delle autonomie locali
(legge 142/90);
la riforma ter della sanità (d.lgs n. 229/99);
la legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi
e servizi sociali (legge 328/2000);
I punti rilevanti in sintesi Una analisi di questi singoli provvedimenti sarebbe ovviamente
troppo lunga. Sottolineo i punti che mi paiono centrali per il nostro
tema:
il ruolo centrale assegnato ai comuni nel campo delle politiche sociali;
l'attuazione del principio di sissidiarietà nelle sue due versioni, verticale
e orizzontale, con tutte le potenzialità ma anche con i rischi che esso
comporta;
la distinzione tra livelli essenziali e uniformi di protezione sociale-sanitaria
e livelli ulteriori (o integrativi) di protezione da finanziare per altra
via;
il concetto di sistema integrato e servizi sociali;
la nuova configurazione e la crescente importanza dei piani di zona all'interno
di un sistema che si avvia ad essere di welfare municipale o comunitario;
il nuovo ruolo assegnato al volontariato e al terzo settore nel suo insieme.
Vediamo di delineare un quadro di sintesi di tutto ciò che questo comporta.
La centralità del comune L'applicazione del principio di sussidiarietà in senso verticale
ha condotto a privilegiare i livelli dell'amministrazione pubblica più
vicini al territorio e più vicini ai cittadini nella gestione delle politiche
sociali, in base alla regola spetta al comune tutto quanto non è espressamente
riservato alla regione e allo stato.
E' il singolo comune il nuovo protagonista? No, sono i comuni associati
in ambiti territoriali, che consentano politiche efficaci, basate su economie
di scala adeguate, ma anche sull'esistenza di una comunità connotata in
modo unitario (o relativamente tale) per ragioni storiche, economiche,
culturali, sociali. Di norma ciò avviene a livello, distrettuale.
<> il sistema locale dei servizi Compito primario dei comuni è programmare, progettare, realizzare
il sistema (integrato) locale dei servizi sociali. Prima di tutto, dunque,
pensare, immaginare un complesso logico di risorse, di attori, di prestazioni,
di servizi e di modalità regolative. Poi programmarne la realizzazione,
definirne le modalità di funzionamento, individuare i soggetti erogatori
e la parte giocata direttamente dall'Ente locale nell'erogazione; verificare
le condizioni perché altri soggetti possano diventare soggetti erogatori
(autorizzazione e accreditamento), vigilare infine sul funzionamento del
sistema, sulla qualità delle prestazioni offerte, sul grado di accessibilità
e di equità negli accessi, in particolare dei soggetti più deboli.
Gli aspetti da definire Cerchiamo di capire meglio di che cosa si tratti. Il sistema
locale non è semplicemente una somma di servizi e di prestazioni, ma un
sistema, un complesso organico, un piano regolatore dei servizi se è detto
anche (Vecchiato T., 2000) che dovrà prevedere le condizioni di accesso
(chi?), i criteri in base a cui individuare le priorità nell'accesso (chi
per primo?), dei punti chiaramente delineati attraverso cui dovrà avvenire
l'accesso in caso di bisogno (dove?), un sistema di offerta (servizi+interventi)
reso noto a tutti i cittadini, i quali devono essere messi in condizioni
di sapere che cosa si possono aspettare, a titolo gratuito o eventualmente
con la loro compartecipazione (quando, cosa e con quale apporto monetario?).
In questo senso è la realizzazione del sistema locale dei servizi che
definisce in concreto l'esigibilità dei diritti, che da <>,
ed è in questo senso che esso si configura come la base di quella che
possiamo chiamare la <>.
Quali sono i contenuti del sistema? I contenuti del sistema si dispongono
a due livelli, il primo dei quali necessario, il secondo opzionale, ma
non per questo poco importante.
Il primo livello è formato dai livelli essenziali e uniformi di protezione
sociale assicurati ai cittadini. In regime di risorse scarse è necessario
distinguere quelli che vanno ritenuti come livelli non essenziali di assistenza
da quelli che devono essere considerati come livelli essenziali, e che
vanno individuati in base a criteri di (Foglietta. E altri 2001 - I
livelli essenziali di assistenza in un sistema di welfare universalistico
e solidaristico, in Studi Zancan, n.1):
- efficacia, intesa come la capacità di conseguire un effettivo
miglioramento dello stato di salute e di benessere dell'utente; - appropriatezza, intesa con il grado in cui un trattamento assistenziale
risponde con piena efficacia e qualità, in condizioni di efficienza ottimali,
ai bisogni espressi dalla persona; - essenzialità, intesa come il grado in cui i risultati di un trattamento
assistenziale appropriato rispondono all'esigenza di massimizzare l'equità
distributiva delle risorse tutelando le condizioni di bisogno più acute
e/o socialmente rilevanti; - integrazione, intesa come il grado in cui i servizi e gli operatori
appartenenti all'area sanitaria e sociale programmano unitariamente e
realizzano in modo coordinato gli interventi che richiedono una pluralità
di soggetti e di professionalità, permettendo per questa via di conseguire
i risultati migliori, con il minimo dispendio di risorse e il minor disagio
per la persona in stato di bisogno.
Le prestazioni non comprese nei livelli essenziali I livelli essenziali vengono delineati a livello nazionale (in parte
già dalla legge 328 nel caso del sociale, in parte attraverso i piani
nazionali, sociali e sanitari), in modo da tendere all'uniformità su tutto
il territorio nazionale, ma diventano reali, nel senso di concreti ed
esigibili - torno a dire - a livello locale.
Il secondo livello è quello delle prestazioni non essenziali volte a soddisfare
bisogni ulteriori oltre a quelli da considerarsi essenziali.
Non essenziali non vuol dire non necessari. Concretizzati i livelli essenziali,
che cosa intende offrire una comunità ai suoi cittadini, ed eventualmente
con quale loro apporto? Penso qui in particolare alla tutela delle condizioni
di cronicità e non autosufficienza e alle necessità di assistenza derivanti
che non sempre possono essere accollate alle famiglie.
Si tratta, di nuovo, di immaginare delle prestazioni, degli interventi,
dei servizi che corrispondano a bisogni socialmente diffusi e profondamente
sentiti dalla popolazione.
Non è detto che l'accesso a questo secondo livello debba necessariamente
significare un impegno finanziario diretto a carico di ciascun singolo
utente ogni-qualvolta egli si trovi ad avere bisogno di una prestazione
peraltro non <>, ma per lui <> (Foglietta F. e
altri, 2001).
I fondi integrativi La riforma ter della sanità prima (art.9 d.lgs n.229/99)
e la legge 328/2000 poi prevedono la possibilità di istituire fondi integrativi
(accantonamenti di risorse in forma mutualistica) <>.
La promozione di fondi mirati alla costruzione di varie forme di assistenza
integrativa rappresenta la modalità attraverso la quale si possono accendere
nuovi sistemi collettivi di finanziamento.
I soggetti che possono realizzare questi fondi sono diversi. Tra questi
un ruolo fondamentale potrebbe/dovrebbe essere giocato dai comuni (ma
anche dalle regioni e dalle province) promovendo e partecipando alla costruzione
di fondi integrativi. Ciò consentirebbe di raggiungere un duplice risultato:
garantire a tutti i cittadini la fruizione dei servizi sociali che si
collocano al di fuori delle prestazioni essenziali senza che il loro onere
ricada sulle disponibilità dei singoli utenti;
mantenere attivi i servizi sociali e sanitari, già presenti sul territorio,
posti (dalla normativa e dalla programmazione nazionale e regionale) al
di fuori dei livelli essenziali, ma che i comuni ritengono di dover comunque
rendere disponibili.
Gli strumenti programmatori con cui è possibile delineare il sistema integrato
di assistenza sono il Piano di Zona (legge n.328/00) e il Piano delle
attività territoriali (d.lgs n.229/99).
Il Piano di Zona finora, nelle regioni dove lo si è introdotto, è stato
prevalentemente orientato a delineare le modalità dell'integrazione sociosanitaria
e a definire alcuni progetti specifici da realizzare nel periodo di vigenza.
Da ora in avanti esso dovrà essere lo strumento attraverso cui si delineano
le caratteristiche di quello che possiamo chiamare welfare comunitario.
La sua progettazione deve perciò diventare non un fatto burocratico, ma
uno dei momenti forti della vita comunitaria, oggetto di comunicazione
e di discussione pubblica, più che una questione tecnica da assegnare
esclusivamente ai tecnici.
Gli attori Inteso in questo senso il sistema locale di assistenza, delineato
attraverso il Piano di Zona, ha bisogno di attivare tutte le risorse presenti
in una comunità, di metterle in rete nello sforzo di soddisfare i bisogni
che essa manifesta, ma nel contempo ha bisogno, per essere realizzato,
che esso si fondi su una sorta di patto che assuma il senso di un vero
e proprio <>, e che perciò veda quanti più soggetti possibile
coinvolti nella sua ideazione, programmazione, realizzazione e controllo.
In questa logica va inteso quanto previsto dalla legge 328 all'art. 1
(comma 4), dove si dice che gli enti locali, le regioni e lo stato riconoscono
e agevolano il ruolo delle Onlus, della cooperazione sociale, dell'associazionismo
prosociale, delle organizzazioni di volontariato ecc. nella programmazione,
nell'organizzazione della gestione del sistema integrato di interventi
e di servizi sociali, e (comma 5) dove si dice che alla gestione e all'offerta
dei servizi provvedono soggetti pubblici, nonché in qualità di soggetti
attivi nella progettazione e nella realizzazione concertata degli interventi,
Onlus, organismi della cooperazione, volontariato associazioni, fondazioni,
enti di patronato e altri soggetti privati.
Un ruolo diverso dell'ente locale Queste formulazioni da un lato individuano un ruolo partecipativo
inteso in senso forte di tutti questi soggetti, dall'altro, unite a quanto
previsto in materia di accreditamento e nella legge n.265/99 di riforma
della n.142/90, dove si dice <>
(art.2, comma 1), configurano un ruolo diverso dell'ente locale che possiamo
delineare come segue (Meloni G. 2000, Il governo locale del welfare
comunitario, in Studi Zancan, n. 1 Padova).
Un nuovo modello amministrativo I comuni conservano, anzi assumono, un ruolo centrale nel campo
del welfare locale. Si configura però un nuovo modello amministrativo:
dalla gestione diretta e dall'esclusiva pubblica dei servizi a rete pubblico/privati
(for profit o non profit che siano). In un sistema di protezione
sociale che appare fortemente ancorato alla dimensione comunitaria, locale,
dei bisogni, delle risorse e delle risposte, il comune appare dunque collocato
al centro, come snodo tra bisogni e risposte, ma cede parte almeno della
gestione diretta in favore di soggetti privati. E' l'applicazione del
principio di sussidiarietà orizzontale.
Apertura ai privati nell'esercizio di funzioni pubbliche Non si tratta solo di affidamento a privati dell'erogazione, ma
dell'apertura a privati nell'esercizio di funzioni pubbliche: non solo
attività imprenditoriali a scopo di remunerazione, ma partecipazione alla
programmazione e alla valutazione.
I comuni sviluppano compiti di governo del welfare comunitario
più che esercitando un ruolo autoritativo (di government), secondo
uno schema che prevede la supremazia sul pubblico nei confronti dei cittadini,
sviluppando un ruolo regolativi nel quale l'autorità si esercita attraverso
la programmazione e la progettazione concertata, e tale ruolo viene rafforzato
dalla capacità di associare i soggetti sociali nella definizione delle
politiche da realizzare (governance).
Si configura, in sostanza, il passaggio da un'amministrazione di attività
a una di relazione, che si manifesta nella capacità di interagire, indirizzare,
nel ricevere elementi conoscitivi e apporti decisionali, nel canalizzare
risorse e per la vicinanza dei bisogni. Qui di nuovo c'è un ruolo fondamentale
per il volontariato.
I rischi della sussidiarietà orizzontale Tutto questo apre possibilità molto vaste alla società civile di nuovo
protagonismo, e di fatto configura un rapporto maggiormente paritario
tra ente pubblico e le espressioni della società civile. Queste ultime
ben difficilmente potranno stare alla finestra. Se lo facessero rischierebbero
di lasciare campo libero solo alle organizzazioni for profit. Naturalmente nasconde dei rischi. Lasciando perdere in questa sede
il rischio che la sussidiarietà (verticale9 conduca a un'eccessiva differenziazione
territoriale dei sistemi di cittadinanza sociale, essi possono essere
così riassunti (molte delle considerazioni che seguono sono ampiamente
sviluppate in De Stefani P. e Piazza S. - 2000 -"I servizi alla persona
davanti alla sfida della solidarietà", in Studi Zancan, n.2 Padova):
il rischio che soggetti privati della più varia natura operanti nel campo
dei servizi privati si sentano legittimati a far considerare i propri
interessi come interessi di natura pubblica, mentre al contrario essi
possono essere nient'altro che interessi a massimizzare il proprio tornaconto;
il rischio che l'interesse preminente dei destinatari dei servizi alla
persona passi in secondo piano rispetto ad altri interessi pur legittimi;
il rischio che un'eccessiva frantumazione di servizi alla persona che,
essendo offerti da una molteplicità di soggetti, richiedono inevitabilmente
uno sforzo maggiore per favorire l'integrazione degli interventi in modo
che il sistema <> sia veramente tale;
il rischio che non vengano esercitati adeguati controlli sulla qualità
dei servizi resi, fatto che sarebbe particolarmente grave in quel genere
di servizi che, per il loro elevato contenuto tecnico, non possono essere
adeguatamente valutati dall'utente (qui c'è un campo fondamentale per
il volontariato);
il rischio - ed è quello che più preoccupa - che un'evoluzione delle sensibilità
politiche e culturali pregiudizialmente e ideologicamente contrarie al
ruolo del settore pubblico e altrettanto pregiudizialmente favorevoli
al privato trasformino in buona sostanza il sistema dei servizi in un
mercato dei servizi, cosa che renderebbe ben arduo parlare ancora di cittadinanza
sociale, e anche ben difficile il perseguimento di obiettivi di equità
sociale e di tutela dei soggetti deboli.
La natura sociale del bisogno A quest'ultima possibilità si può obiettare, sul piano si può
obiettare, sul piano teorico, che i servizi sociali corrispondono a un
modello sostanzialmente diverso dal modello puramente imprenditoriale
privatistico, proprio per il ruolo decisivo degli interventi operati dall'ente
pubblico al fine di creare diritti sociali e di rappresentare interessi
collettivi, dando così la possibilità al bene comune di affermarsi. Questo
ruolo dell'ente pubblico si fonde sulla natura sostanzialmente sociale
che, in qualsiasi società, riveste la cura del bisogno, dato che essa
è sempre e prima di tutto il prodotto delle reti informali comunitarie
e familiari, le quali, lungi dall'essere bisognose di assistenza, sono
in primo luogo coproduttrici di assistenza, e dunque meritano di diventare
codecisori nell'allocazione delle risorse assistenziali.
Compiti di vigilanza Ma, naturalmente, le considerazioni di ordine teorico non basteranno.
Se questi rischi, da cui neppure il terzo settore è del tutto esente,
occorre sviluppare un ruolo attento di vigilanza orientato:
a far sì che non si oscuri nella coscienza collettiva l'idea, riaffermata
anche recentemente (legge n. 328/00 art.1, comma 3), che la responsabilità
di garantire i diritti dei cittadini in stato di bisogno è compito della
comunità organizzata nelle sue istruzioni pubbliche e che questo compito
non è delegabile;
a evitare che, anche involontariamente, il pericolo di sovrastimare l'importanza
del terzo settore nelle sue varie espressioni contribuisca ad oscurare
questo punto centrale; le tentazioni saranno molte, temo, nei prossimi
anni, ma si deve ricordare, come ama dire mons. Nervo, che "il terzo settore
è un fenomeno spontaneo e volontaristico, e perciò precario nella presenza:
c'è se c'è, quando c'è, se può, quando può, se vuole" (Nervo G. ; 2000);
a verificare in sede di progettazione prima, in sede di controllo poi,
come viene delineato il sistema dei servizi alla persona; questo a livello
locale, mentre a livello nazionale occorre non perdere d'occhio le decisioni
che verranno prese in materia di riforma del welfare per assicurare
una sua deriva in senso assistenzialistico e smodatamente privatistico.
Suggerimenti per una partecipazione attiva del volontariato alla programmazione
territoriale Tornando a Robin Hood…. La tentazione maggiore, oggi, per Robin Hood
penso sia quella di ritenere che suo compito è solo quello di darsi da
fare per cui ha bisogno in forma diretta e che per tutto il resto sia
una perdita di tempo.
Mentre tutto sta cambiando nel sistema di welfare, dal livello
europeo a quello locale, l'utilità sociale del volontariato non si misura
solo dal numero di interventi assistenziali che riesce a sviluppare, ma
dalla capacità di stare dentro questi cambiamenti facendo sentire alta
la sua voce, che non può essere quella di chi si trova in condizioni di
bisogno.
Ciò vuol dire considerare la presenza nel castello (i <>) importante
almeno tanto quanto il radicamento nella foresta di Sherwood (i quartieri
e le corsie). E attrezzarsi per essere all'altezza del compito. Propongo
qui alcuni suggerimenti che possono risultare utili in questo senso.
Approfondire l'analisi dei bisogni sociali C'è oggi un bisogno assoluto di condurre un'analisi approfondita
dei bisogni sociali. Di solito questo aspetto viene trascurato nell'elaborazione
dei piani. Per lo più non si fa e quando viene realizzato si fa con troppa
fretta. Il volontariato può dire molto in questo campo. Ma deve anche
convincere le istituzioni che questa analisi non si può fare solo quando
se ne ha il tempo e in modo episodico. Deve essere un processo permanente
che si realizza raccogliendo opinioni degli attori, ma anche dotandosi
di strutture adeguate.
Costruire indicatori di salute Allo stesso modo c'è bisogno che il costituendo sistema locale
dei servizi si doti della capacità di costruire indicatori di salute,
benessere/malessere, che ci consentano di gettare uno sguardo un po' più
rigoroso sui risultati delle azioni intraprese e dei progetti realizzati.
Non riusciremo a definire livelli essenziali se non saremo capaci di identificare
le azioni efficaci, perché essenziale non è solo ciò che è più necessario,
ma anche la dotazione di strumenti e strutture di tipo tecnico.
La necessità di strutture per la pianificazione In sostanza non si dà pianificazione territoriale senza strutture
permanenti di pianificazione, che devono essere create (qui il rapporto
tra comuni associati e Asl è fondamentale) e produrre informazioni pubbliche
utili alla progettazione e alla valutazione del sistema.
Dalla cura alla prevenzione
L'analisi e la riflessione sui problemi e sui disagi sociali è la condizione
essenziale per poter spostare l'attenzione dalla cura alla prevenzione,
dove con questo termine non si deve intendere solo la diagnosi precoce,
ma l'intervento sulle determinanti della malattia e del disagio (prevenzione
primaria). E' opinione condivisa oggi che, in tutti i paesi a sistemi
sanitari avanzati, un miliardo in più speso nella prospettiva delle cura
non produca alcun miglioramento nei livelli di salute (Se si legge <<Il
rapporto mondiale sulla salute>> curato dall'Organizzazione mondiale
della Sanità, non si nota un rapporto diretto tra livello di spesa e livello
di salute:De Sandre G.e Bertinato L.- 2000 - "Il rapporto mondiale
sulla salute", in Studi Zancan, n. 6, Padova) e che miglioramenti
effettivi potranno intervenire solo da una azione decisa sulle determinanti
della malattia (alimentazione, stili di vita, incidenti ecc.). Sul piano
sociale la nostra società deve cominciare a chiedersi non (solo) come
si può curare il disagio, ma che cosa lo produce. Prima di chiedere alla
scuola, ad esempio, che cosa fa per prevenire il disagio dobbiamo chiederle
se non sia il caso di smettere di crearlo. Oltretutto costerebbe molto
meno.
Dare il necessario rilievo al lavoro culturale Agire sulle determinanti del disagio vuol dire, in un contesto
di ricchezza diffusa come il nostro, dare il necessario rilievo al lavoro
culturale.Il disagio ha sempre più spesso origini di tipo socioculturale
e i processi di emarginazione sociale sono di natura eminentemente culturale,
hanno a che fare con le immagini e le rappresentazioni che la comunità
si fa di un problema sociale. Impiegare tempo ed energie per modificare
queste rappresentazioni non è <> rispetto al quotidiano impegno
nell'assistenza alle persone. Produrre rappresentazioni corrette, realistiche
e condivise dei problemi sociali è un compito importante, che potrebbe
venire grandemente rafforzato se assunto congiuntamente da servizi e volontariato.
Oltre ai tavoli politici, deve discutere di programmazione dei servizi,
c'è cioè un compito più propriamente culturale, che potrebbe trovare grande
giovamento dalla creazione di tavoli in cui i servizi, volontariato, famiglie
e cittadini confrontano le loro definizioni del bisogno, delle sue origini,
dei modi più corretti per affrontarlo, e per questa via provano a immaginare
soluzioni nuove.
Le tematiche della quarta età Nel discutere nel merito dei problemi che le nostre comunità dovranno
affrontare, sappiamo tutti che un posto di primo piano verrà assunto dalle
tematiche dell'età anziana, in particolare della quarta età con problemi
di perdita di autonomia. E' abbastanza ovvio che sia così e certamente
le risorse di cui disponiamo oggi per affrontare questo problema risulteranno
largamente inadeguate. Non c'è stato un dibattito esplicito sufficiente
nel nostro paese su questo problema, come invece si è avuto in altri.
Ad esempio in Germania, dove ha condotto a forme di assicurazione obbligatoria
contro la non autosufficienza e anche alla rinuncia di una giornata di
ferie da parte dei lavoratori per finanziare i fondi costituiti.
Spostare risorse verso giovani generazioni E tuttavia penso che si debba evitare il rischio, tipico delle
società che invecchiano, di dimenticare le fasce di età più giovani. La
nostra società ha bisogno che si spostino risorse in favore delle giovani
generazioni e delle famiglie con figli minori. La legge n.328, all'art.16
(Castegnaro A., 2001), dedicato alla valorizzazione e al sostegno delle
responsabilità familiari, offre numerose indicazioni in questo senso,
ma questa parte della legge, più di altre, corre il rischio di rimanere
inapplicata. La definizione del sistema locale dei servizi deve prevedere
invece una parte importante dedicata a questa linea di azione, volta a
delineare programmi per il sostegno alle responsabilità familiari.
La valutazione dei servizi Un apporto fondamentale del volontariato dovrà essere sviluppato
nella valutazione dei servizi, nel controllo del funzionamento del sistema
e della qualità delle prestazioni erogate. Questo compito sarà tanto più
importante quanto più si andrà verso un sistema pubblico-privato di welfare
comunitario. Si deve chiedere agli organismi responsabili - comuni e aziende
ASL - che investano risorse in questo senso, per il controllo della qualità
e per sorvegliare l'accesso ai servizi in modo che questo non sia troppo
influenzato dalle disuguaglianze esistenti nella società. Si deve in particolare
rivendicare che vengano predisposti sistemi per ascoltare punti di vista
dell'utenza. Sistemi seri, perché per lo più quelli usati non lo sono.
Il volontariato potrebbe dare il suo contributo alla realizzazione di
indagini in questo senso, come già si sta facendo in qualche caso.
Contenere il distacco tra chi partecipa ai tavoli e chi fa assistenza Ma il volontariato può esercitare un ruolo diretto di grande rilievo
nella valutazione dei servizi. I volontari che fanno assistenza dovrebbero
assumere un atteggiamento che li conduca a esercitare un'attenzione continua
rispetto a ciò che succede loro attorno, a come i bisogni vengono affrontati
dai servizi, alla qualità delle risposte e alle mancate risposte. Per
questo c'è bisogno di fare formazione, per poter sviluppare un'attenzione
competente e rendere i volontari <> in grado di
cogliere ciò che cambia nei servizi. E le associazioni dovrebbero strutturarsi
come dei collettori delle osservazioni raccolte operando sintesi valutative
da riproporre agli interlocutori pubblici che hanno la responsabilità
del sistema. Questo è anche il modo di contenere il possibile distacco
tra chi partecipa ai tavoli e chi si dà da fare nelle corsie e nelle abitazioni.
Le carte dei servizi sociali La legge 328 all'art.13 prevede la redazione in tutti i servizi
di una carta dei servizi sociali, come già avvenuto nel settore sanitario.
Essa costituirà condizione per l'accreditamento. E' un altro campo di
azione interessante per il volontariato, che da un lato può contribuire
alla sua redazione, dall'altro potrà trovare in essa la base da cui muovere
per svolgere quel ruolo di controllo che ho appena richiamato. Occorre
evitare che l'adozione di queste carte avvenga in modo burocratico, ed
essere consapevoli che le carte dei servizi esercitano tre funzioni potenzialmente
molto importanti (De Ambrogio U., -2000): di tutela, attraverso azioni
informative, di conoscenza dei diritti e delle opportunità di rimborso;
di sviluppo della partecipazione, attraverso forme di coinvolgimento dei
cittadini utenti nella valutazione; di miglioramento della qualità delle
prestazioni, attraverso la realizzazione periodica e documentata di valutazione
della qualità e attraverso la dichiarazione di obiettivi periodici di
miglioramento.
Un cenno infine a due condizioni necessarie per una partecipazione corretta
e non subalterna ai tavoli della concertazione.
Contenere la competizione all'interno del terzo sistema La prima è rafforzare il coordinamento tra le associazioni di
volontariato e contenere la competizione all'interno del terzo sistema,
so che è un tema difficile, ma penso anche che le volontà di operare in
questo senso sono state finora un po’ troppo tiepide. Come chiediamo ai
servizi un maggiore grado di integrazione, così deve essere per il terzo
settore o, almeno, per il volontariato. I protagonismi di associazioni
o personali non servono, serve collaborazione.
Garantirsi condizioni di autonomia La seconda è garantirsi condizioni di autonomia rispetto alle
istituzioni con cui si interloquisce. E' una questione ancora più delicata.
Sotto il profilo strutturale essa richiede da un lato che si sviluppi
un settore dell'economia sociale non troppo dipendente dalla spesa pubblica
(Giordano M., 2000) (qui lo sviluppo di fondi integrativi potrebbe essere
di grande aiuto) e dall'altro una capacità di competere con le imprese
lucrative senza peraltro che la ricerca di economicità porti all'abbandono
dei settori più deboli. Probabilmente occorre anche pensare a una più
chiara demarcazione dei ruoli tra volontariato e cooperazione sociale.
Il primo ha, da questo punto di vista, meno problemi e può essere più
libero nei confronti della pubblica amministrazione, perché è per l'appunto
<>, e può ritrovare proprio nella sua specificità originaria
le motivazioni per riscoprire le sue ragioni essenziali: cogliere nuovi
bisogni, offrire prime risposte, non sostituirsi a servizi professionalmente
più attrezzati, ma semmai denunciarne l'assenza, operare perché si affermino
logiche di prevenzione primaria, salvaguardare i diritti dei cittadini
in modo particolare di quelli più deboli.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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n.2, Padova
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