Guardando il grafico elaborato da Nigel Young, ci rendiamo
facilmente conto che, in una prospettiva storica, il pacifismo e' sempre
stato vivo e morto al tempo stesso. [Segue un grafico sui livelli di partecipazione
nei movimenti per la pace di massa dal 1815 al 1979, che qui non possiamo
riprodurre, che raffigura l'alternarsi tra elevata e scarsa mobilitazione;
al grafico fa seguito la seguente nota dell'autore: "(Tratto da: G. Salio,
Il potere della nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1995, p.138.
Il grafico si ferma alla fine degli anni '70, ma cio' che e' avvenuto
dopo e' sostanzialmente identico, anche se il picco del 15 febbraio 2003
e' il piu' alto in assoluto)"]
Le grandi mobilitazioni contro le guerre, incipienti o in corso, non sono
quasi mai riuscite a impedirle. Di certo non hanno impedito le piu' disastrose,
anche se esistono alcuni esempi di interposizione, soprattutto di gruppi
di donne, che hanno evitato scontri violenti tra fazioni opposte. Al piu',
come in Vietnam, ne hanno accelerato la fine, dopo che il prezzo pagato
in termini di vite umane, risorse distrutte e danni economici ha raggiunto
livelli non piu' sostenibili. Secondo alcuni commentatori, la protesta
contro la guerra in Vietnam ha avuto successo quando "Wall Street e' scesa
in piazza". Siamo tutti pacifisti e "passifiste" come dicono i francesi,
cioe' passivi. Tutti vorremmo una pace che non richiede impegno, che viene
da se', vorremmo essere "lasciati in pace"
E' un'aspirazione comprensibile e persino condivisibile, ma purtroppo
il mondo non e' cosi'. Bastano piccole minoranze al potere e piccole minoranze
armate, per mettere a ferro e a fuoco intere regioni e in prospettiva
il mondo intero. Queste minoranze, questi bulli, hanno una ideologia militarista
che li sprona, sono determinati, hanno un'agenda politica precisa, che
intendono realizzare costi quel che costi. Di fronte a simili avversari
il puro e semplice pacifismo non basta. E tanto meno la retorica della
pace e le mobilitazioni su larga scala, da "seconda potenza mondiale",
che si limitano a fare il primo passo dell'azione, quella della protesta
generica di massa
L'azione nonviolenta Come dovrebbe essere ormai
ben noto, il XX secolo non e' stato solo il piu' violento della storia,
ma anche quello nel corso del quale si sono sviluppate grandiose lotte
nonviolente coronate da successo. Il progetto A force more powerful,
curato dal centro di ricerca che fa capo a Gene Sharp e' un utilissimo
strumento per far conoscere questa storia spesso dimenticata e occultata
e per trarne la debita lezione, che si applica anche ai giorni nostri
(si vedano i numeri di "Azione nonviolenta", da gennaio a luglio 2006).
Per sintetizzare, come sostiene Michael Nagler: "la guerra talvolta funziona,
ma non e' mai efficace. La nonviolenza talvolta funziona, ma e' sempre
efficace". (Michael Nagler, Per un futuro nonviolento, Ponte alle
grazie, Firenze 2005). E' di qui che dobbiamo iniziare, se non vogliamo
cadere nelle faticose e spesso inconcludenti polemiche che hanno caratterizzato
il dibattito sul voto pro o contro l'intervento in Afghanistan e la questione
dello stato di salute del movimento per la pace. La lezione che si puo'
trarre dalle lotte nonviolente guidate dai grandi maestri (Gandhi, King,
Mandela, Capitini) e' che "ci sono alternative". Ma queste alternative
vanno preparate per tempo, non si possono improvvisare, richiedono impegno,
determinazione, chiarezza di obiettivi, risorse
Una politica dell'azione nonviolenta Paradossalmente,
e' stato meno difficile, storicamente, "abbattere un dittatore" con una
lotta nonviolenta che far cambiare politica economica e militare a un
governo eletto democraticamente (si veda a tale proposito il documentario
Bringing Down A Dictator, che completa la serie di video del progetto
A force more Powerful, sull'azione del movimento Otpor che ha portato
alla caduta del governo Milosevic in Jugoslavia: questione complessa e
controversa, per le accuse di sostegno se non di connivenza con gruppi
Usa finanziati non solo da Soros ma anche dalla Cia, ma che merita comunque
attenzione). Nel primo caso l'obiettivo e' chiaro, ben individuato, l'oppressione
colpisce direttamente larghi settori della popolazione e pertanto favorisce
la crescita di un ampio movimento di opposizione, come e' avvenuto nelle
lotte contro l'apartheid in Sudafrica e negli Usa, o per la liberazione
dell'India dal dominio inglese
Per cambiare una politica economica o militare bisogna invece procedere
per singoli obiettivi, che possono apparire minimi e non sempre raccolgono
un grande consenso. Nel corso della lotta, pochi sono disposti a passare
alla disobbedienza civile, pagando il prezzo che essa comporta, carcere
compreso
Le bombe che cadono in Afghanistan, in Palestina, in Iraq o in Libano
sono lontane da noi. Ne siamo colpiti moralmente ma non materialmente.
La nostra indignazione non basta: possiamo andare tranquillamente al mare
e l'azione di generica protesta verra' posticipata a dopo le vacanze
Ben vengano comunque le grandi manifestazioni di milioni di persone (Roma,
15 febbraio 2003), purche' poi non ci si limiti a congratularsi e ad andare
"tutti a casa". E non basta neppure esporre la bandiera della pace da
tutti i balconi. Occorre alzare il livello della lotta, passando, se necessario,
alla disobbedienza civile. Se i tifosi di quello squallido mercato sportivo
chiamato calcio sono capaci di bloccare le linee ferroviarie in cinquantamila,
senza pagare alcun prezzo e impedendo di fatto qualsiasi intervento della
polizia, perche' mai il movimento per la pace non e' stato capace di attivarsi
assediando il parlamento per impedire di inviare i nostri militari in
Iraq, in spregio a qualsiasi diritto costituzionale e internazionale?
Ma ci sono riusciti in Turchia, paese che non brilla certo in quanto a
democrazia
Il pacifismo e la nonviolenza "della domenica" non impediranno mai alla
colossale macchina della guerra, che funziona ventiquattr'ore al giorno,
con i nostri soldi, di entrare in azione quando un manipolo di politici
e/o di militari lo decida. Senza una chiara e condivisa politica della
nonviolenza, il movimento per la pace e' destinato a restare intrappolato
negli happening delle manifestazioni piu' o meno grandi e degli slogan
piu' o meno d'effetto. Come sostiene Galtung, il movimento per la pace,
soprattutto italiano, e' un movimento "estetizzante". Puo' essere una
bella cosa, ma non basta
Progettare la transizione Il movimento per la pace
e' un "movimento che non c'e'" o, se vogliamo essere generosi, che "non
c'e' ancora". Esiste invece una serie di molteplici gruppi, associazioni,
comitati, che procedono in ordine sparso, promuovendo anche iniziative
egregie che tuttavia non riescono a incidere a livello di decisioni politiche
collettive. Qualcuno sa indicare qual e' il programma del movimento per
la pace, quali i suoi obiettivi concreti, non generici, sottoscritti da
chi e come? I punti nodali, intrecciati e inseparabili, sono il modello
di difesa e il modello di sviluppo. Entrambi debbono essere modificati,
se si vuole incidere sulle cause profonde che alimentano le guerre in
corso e creano le condizioni per quelle future. Per far cio' occorre progettare
sia la transizione da uno sviluppo centrato sulla crescita e su un sistema
energetico non sostenibile a un modello di economia nonviolenta, equo
e sostenibile, per le popolazioni odierne quanto per quelle future, basato
su fonti energetiche rinnovabili, sia la transizione dall'attuale modello
di difesa offensivo a un modello esclusivamente difensivo (transarmo)
che consenta di sviluppare man mano la difesa popolare nonviolenta sino
alla completa sostituzione del modello militare
Ma per costruire queste alternative occorre individuare obiettivi specifici
e predisporre il sistema logistico per conseguirli, ovvero passare dallo
spontaneismo a una politica dal basso, partecipata, organizzata, indipendente
da tutte quelle forze politiche che invece inseguono i falsi e pericolosi
miti di una modernita' decadente
Concretamente, tutto cio' significa che il movimento dovrebbe concentrare
le proprie modeste energie per condurre delle campagne mirate a ottenere
alcuni primi obiettivi intermedi. Per esempio: riduzione delle spese militari
del 5% all'anno e utilizzo dei fondi per la costruzione dei Corpi civili
di pace (in sigla: Ccp), promuovendoli sia a livello italiano, sia europeo
e delle Nazioni Unite. Ma i Ccp non nascono da soli: richiedono scuole,
corsi di formazioni, centri di ricerca. L'esperienza fallimentare del
"Comitato consultivo per la difesa civile e non armata" insegna, tra le
altre cose, che questi obiettivi sono scarsamente condivisi nell'ambito
dei movimenti di base, compreso quello per la pace. C'e' poca consapevolezza
dell'importanza di una transizione a un modello alternativo. Nel dibattito
parlamentare sulla questione Afghanistan quasi nessuno ha sollevato questo
punto. E anche qui, molto concretamente, per rispondere a coloro che ritengono
sprezzantemente che i "pacifisti" dicano solo delle "sciocchezze" occorre
ribadire che per costruire una alternativa bisogna "mettere mano al portafoglio".
Bene, voi inviate i militari in Afghanistan, ma contemporaneamente vi
chiediamo di stanziare cento milioni di euro (questa si' una "sciocchezza"
per il bilancio dello stato e rispetto al bilancio delle spese militari)
per costruire qui e ora e non domani, dopodomani, mai, i Corpi civili
di pace con tutti gli annessi e connessi. Altrimenti, le "sciocchezze"
continuiamo a raccontarcele a vicenda
E la stessa cosa si puo' dire per il modello di sviluppo. Coloro che continuano
a parlare di crescita economica hanno l'obbligo morale e scientifico di
dimostrare che essa e' compatibile con i limiti di un pianeta finito e
con l'esigenza di equita' verso tutti gli esseri viventi e intergenerazionale.
L'attuale sistema energetico, basato sui combustibili fossili, e' arrivato
al capolinea. Volenti o nolenti dobbiamo programmare al piu' presto una
efficace transizione se non vogliamo che il sistema ci crolli addosso
con una implosione catastrofica. I progetti, i centri di ricerca, le idee
non mancano di certo e sono di patrimonio molto più diffuso rispetto alla
questione militare che sembra bloccata sul piano mentale e ideativo. Oltre
all'esempio concreto ed efficace di paesi virtuosi come la Germania e
la Danimarca, si possono segnalare il progetto di legge 784 presentato
l'11 luglio 2006 (primo firmatario Ronchi) e più in generale la campagna
per un Contratto mondiale sull'energia e il clima", che richiama
quella lanciata anni fa per l'acqua (si veda il bel libricino Energia,
rinnovabilita', democrazia, Edizioni Punto Rosso, Milano 2005). Il
bicchiere e' sempre mezzo pieno e mezzo vuoto. Ogni tanto e' utile vedere
la parte vuota per fare autocritica e individuare nuove linee di azione,
ma poi occorre anche fare l'inventario delle moltissime cose che riempiono
l'altra meta'. E allora ci si accorge che esistono anche i militari che
disobbediscono agli ordini, per ragioni di coscienza (dai refusnik israeliani
agli obiettori statunitensi, vedi Courage to Resist, newsletter di sostegno
degli obiettori militari, tra i quali spicca il caso del luogotenente
Ehren Watada, www.thankyoult.org); le donne come Cindy Sheehan che assediano
il ranch di Bush; i ploughshares che, interpretando alla lettera la profezia
di Isaia 2, 4: "Muteranno le loro spade in aratri e le loro lance in falci;
una nazione non alzera' la spada contro un'altra, e non praticheranno
piu' la guerra", entrano nelle basi militari per distruggere e manomettere
le autentiche armi di distruzione di massa (dal nostro Turi Vaccaro ai
preti e alle suore statunitensi, sulla scia dei fratelli Berrigan): la
rete gia' esistente di Corpi civili di pace (www.reteccp.org) e le molteplici
lotte contro l'attuale modello distruttivo, dai no-Tav alle donne indiane
del movimento contro le dighe del Narmada, a tanti altri. E ritorna la
speranza, unita alla necessita' di un impegno quotidiano, costruttivo,
per creare fiducia, organizzazione, capacita' di lottare serenamente,
senza cadere nella sindrome autodistruttiva del burn out
Conflitti Operativamente, la nonviolenza e' l'arte
di trasformare costruttivamente i conflitti, dal micro al macro, intesi
non come sinonimo di violenza, ne' tanto meno di guerra, ma come occasioni
che si ripresentano incessantemente nella nostra vita, individuale e collettiva,
che ci pongono di fronte a un bivio: da un lato l'opportunita' di una
crescita costruttiva, dall'altra la deriva verso la distruttivita'. Ma
come tutte le arti, come tutte le buone pratiche, anche questa non viene
spontaneamente da se: bisogna coltivarla, giorno dopo giorno, passo dopo
passo, rialzandosi dopo le cadute. E gli attivisti dei movimenti debbono
imparare ad affrontare costruttivamente anche i conflitti interni alle
proprie organizzazioni e tra le organizzazioni, oltre ai conflitti interiori,
dentro ognuno di noi. Non ci sono solo avversari esterni, ma la lotta
e' dentro di noi. La nostra debolezza deriva anche da questa scarsa capacita'
di lavorare su di noi, individualmente e collettivamente. Abbiamo accumulato
molta esperienza, ma non ne facciamo tesoro e continuiamo a comportarci
da dilettanti, oppure ci limitiamo alle dispute filosofiche, importanti
ma insufficienti. Forse ci sono molti scienziati per la pace, molti
generali, e pochi ingegneri per la pace, pochi operatori
per la pace. C'e' bisogno di un lavoro quotidiano, tutti i giorni,
tutto il giorno, dentro strutture autogestite, che possano essere uno
stimolo continuo per fare ricerca, formazione, educazione e progettare/attuare
l'azione diretta nonviolenta. Ce n'e' quanto basta per impegnare seriamente
e concretamente tutta quanta la nostra vita, senza perderci nelle nostre
nevrosi da impotenza.
Il tempo stringe Da un lato, dobbiamo continuare
a fare i "profeti di sventura", consapevoli di quanto ci suggerisce Guenther
Anders in una bella parabola: "Noe' era stanco di fare il profeta di sventura
e di annunciare incessantemente una catastrofe che non arrivava e che
nessuno prendeva sul serio. Un giorno, si vesti' di un vecchio sacco e
si sparse della cenere sul capo. Questo gesto era consentito solo a chi
piangeva il proprio figlio diletto o la sposa. Vestito dell'abito della
verita', attore del dolore, ritorno' in citta', deciso a volgere a proprio
vantaggio la curiosita', la cattiveria e la superstizione degli abitanti.
Ben presto ebbe radunato attorno a se' una piccola folla curiosa e le
domande cominciarono ad affiorare. Gli venne chiesto se qualcuno era morto
e chi era il morto. Noe' rispose che erano morti in molti e, con gran
divertimento di quanti lo ascoltavano, che quei morti erano loro. Quando
gli fu chiesto quando si era verificata la catastrofe, egli rispose: domani.
Approfittando quindi dell'attenzione e dello sgomento, Noe' si erse in
tutta la sua altezza e prese a parlare: dopodomani il diluvio sara' una
cosa che sara' stata. E quando il diluvio sara' stato, non sara' mai esistito.
Quando il diluvio avra' trascinato via tutto cio' che c'e', tutto cio'
che sara' stato, sara' troppo tardi per ricordarsene, perche' non ci sara'
piu' nessuno. Allora, non ci saranno piu' differenze tra i morti e coloro
che li piangono. Se sono venuto davanti a voi, e' per invertire i tempi,
e' per piangere oggi i morti di domani
Dopodomani sara' troppo tardi. Dopo di che se ne torno' a casa, si sbarazzo'
del suo abito, della cenere che gli ricopriva il capo, e ando' nel suo
laboratorio. A sera, un carpentiere busso' alla sua porta e gli disse:
lascia che ti aiuti a costruire l'arca, perche' quello che hai detto diventi
falso. Piu' tardi, un copritetto si aggiunse ai due dicendo: piove sulle
montagne, lasciate che vi aiuti, perche' quello che hai detto diventi
falso" (Citato da Jean-Pierre Dupuy, Piccola metafisica degli tsunami.
Male e responsabilita' nelle catastrofi del nostro tempo, Donzelli,
Roma 2006, pp. 8-9)
Ma al tempo stesso non dobbiamo lasciarci travolgere dall'ansia che, negli
ultimi tempi della sua vita, ha contagiato lo stesso Anders, secondo il
quale "la risposta nonviolenta e' obsoleta, e' inefficace perche' sono
fiacchissime le sue azioni rispetto alla terrificante capacita' di portar
morte che ha la sua controparte..." (in: Goffredo Fofi, Da pochi a pochi,
Eleuthera, Milano 2006, p. 137)
Il tempo stringe e grande e' la nostra responsabilita' per non lasciar
che le profezie negative si autoavverino. La strada da percorrere ci e'
stata indicata dai grandi maestri che ci hanno preceduto e dagli innumerevoli
testimoni e attivisti che anche oggi operano quotidianamente nei movimenti
di base. Sta a noi accelerare il passo per realizzare l'arca prima che
cominci il diluvio.