Ogni volta che mi presento davanti a un carcere, provo
disagio. So già che, una volta dentro, a ogni sferragliare di chiavi,
a ogni sbattimento di portoni e cancelli rinchiusi pesantemente dietro
le spalle avrò un piccolo sussulto. Da tenere sotto controllo. Per me
e per gli altri.
Per troppi anni ho sentito quei rumori che mi segregavano, per poter pensare
che adesso entro nelle galere per uscire, non per rimanerci. O, almeno,
lo spero. Del resto, non si capisce perché ancora oggi le guardie girino
con mazzi di chiavi da fortezza medievale invece che con un piccolo, agevole
telecomando. L’elettronica è muta, non spaventa come quei catenacci. Una
volta fuori, per molto tempo mi sono fermato davanti a ogni porta aspettando
che qualcuno me la aprisse; solo quando sentivo su di me sguardi di curiosità
e sconcerto realizzavo che sarebbe bastato abbassare la maniglia per passare
oltre.
Nei corridoi del carcere, trovo decine di brave persone che vanno di fretta,
a svolgere le più diverse e necessarie attività di volontariato: dalla
distribuzione di camicie e pantaloni al corso di cucina etnica. Ma questa
frenesia rimane lì, a rincorrersi, non riesce a uscire. In poco più di
dodici anni i detenuti sono saliti dai 30.000 di giugno 1991 ai 55.000
di febbraio 2004: tra questi ultimi, quindicimila sono tossicodipendenti
(dati contenuti nel Rapporto sui diritti globali, Ediesse edizioni), diciassettemila
sono stranieri. Le prigioni sono tornate a essere gli ospedali generali
di un tempo, ricovero di ogni categoria di emarginati. Una recente inchiesta
condotta da Terre di Mezzo tra i detenuti del carcere di Padova ha rivelato
che un detenuto su quattro, quando finisce la pena, ha come casa un ponte
o una panchina. I cambiamenti veloci e traumatici dell’economia e della
società lasciano sul terreno delle vittime incolpevoli, i poveri,
e delle vittime colpevoli, i disperati che compiono reati per fame
di cibo o di droga.
Al di là delle buone intenzioni, le attività interne al carcere rischiano
di rimanere fini a se stesse, in alcuni casi un effetto placebo,
in altri una foglia di fico che nasconde il vuoto che aspetta i detenuti
all’esterno. Dove, per altro, continua ad essere difficile l’approdo.
Tre storie
Lì dentro vedo, certo non di buon umore, tre carcerati. Il primo, Salvatore,
è un naufrago di cinquant’anni che stava lavorando, in pena alternativa,
presso una ditta di piastrelle. Le sue condizioni personali e familiari
sono drammatiche ma, grazie al lavoro e alla sua presenza in famiglia,
cominciavano a conoscere qualche spazio non angosciante. Indagini tenaci
e puntuali, che si svolgono sempre e solo in questi casi, hanno appurato
che il datore di lavoro aveva avuto in passato delle pendenze giudiziarie,
per emissione di assegni a vuoto. Tanto è bastato per riportare Salvatore
in galera: un detenuto in misura alternativa non può frequentare pregiudicati.
Anch’io lo sono: in pura linea teorica (almeno fino ad ora), nessuno potrebbe
più venire nelle comunità dove lavoro.
Poi vedo Mimmo. È tornato in prigione per l’arrivo di una vecchia condanna.
Ora potrebbe essere di nuovo scarcerato, non ne può più dell’abbonamento
come pendolare degli istituti di pena, ma i tempi della giustizia, così
puntuali nel rimetterlo dentro, si sono persi tra le polverose carte dei
tribunali quando si è trattato di riportarlo fuori. Infine, tocca a Lino.
Stava in una comunità, a scontare una misura alternativa. Ma, evidentemente,
volevano fargli scontare altri peccati. Ogni volta che sua moglie gli
scriveva, le lettere dovevano essere commentate ad alta voce davanti a
tutto il gruppo degli ospiti. Una nuova forma di voyeurismo terapeutico.
Per oggi basta. Guadagno velocemente l’uscita con addosso un diffuso senso
di nausea: non riesco nemmeno a gustare quel piccolo sollievo che provo
quando sento i cancelli aprirsi davanti a me invece di chiudersi dietro
le mie spalle.
Le comunità per persone che hanno problemi di dipendenza da sostanze stupefacenti
dovrebbero essere un’alternativa al carcere. Spesso ne sono soltanto un
surrogato più esigente.
Le comunità sono un impasto di prigioni, monasteri, fabbriche. In questi
anni molte fabbriche sono diventate archeologia industriale, i monasteri
conoscono ormai solo i silenzi dell’assenza di monaci, mentre le prigioni
si sono riempite. In comunità non ci sono cittadini, ma sudditi. Costretti,
dalle varie scuole di pensiero, a tagliarsi i capelli, a togliersi gli
orecchini, a masturbarsi dentro un preservativo, a essere processati in
pubblico per le piccole mancanze quotidiane, a sottoporsi a estenuanti
maratone di psicoterapia. Il lavoro degli operatori è pieno di buone intenzioni,
ideali difese, pure e semplici violazioni dei diritti della persona. Tutto
è lecito, perché tutto viene fatto per il bene dell’altro. In questa visione
di mondo, la tossicodipendenza è soltanto il sintomo di una personalità
deviante alla quale imporre significativi e, a volte, devastanti correzioni.
Le comunità, su sollecitazione dei loro ospiti, non cambierebbero mai.
Sono rimaste, come cifra significativa, tra le poche istituzioni monarchiche
esistenti al mondo. Non solo i fondatori conoscono l’investitura a vita,
ma i poteri vengono ormai trasmessi per linea ereditaria: la dinastia
Muccioli ne è un esempio.
Negli ultimi vent’anni il fenomeno della tossicodipendenza è cambiato
sotto diversi aspetti: da espressione di élite degli eroinomani
anni Settanta andati alla deriva ma ancora pieni di energie vitali, è
diventato stile di vita quotidiano dei tossici “normali”, con lavoro a
libri e conto in banca, fino a giungere negli ultimi anni a divorare i
vinti, i marginali della globalizzazione. Gli effetti collaterali della
globalizzazione sono spesso vissuti come scorie, ma non è un caso se i
detenuti, negli Stati Uniti, sono aumentati in venticinque anni di sette
volte, e se i senza casa, gli andati a male, i miserabili sono
aumentati a dismisura in tutto il mondo occidentale.
Come il sottoproletariato nella fase dell’industrializzazione.
Soprattutto accoglienza
Oggi la cura, o meglio, il prendersi cura dovrebbe voler dire soprattutto
accoglienza. Che, quando si presenta senza imporre condizioni, è in sé
terapeutica. Invece molte comunità continuano a porre pesanti condizioni
per l’ingresso nelle loro strutture. Sono ancorate alla propria immagine,
non si mettono mai in gioco, mentre il mondo, anche quello della tossicodipendenza,
cambia attorno a loro.
A dare una mano sostanziosa all’impostazione coercitiva delle comunità
è arrivata la proposta di legge Fini, che, invece di favorire l’accoglienza
delle persone in difficoltà, stabilisce la punizione di tutti i consumatori
di droghe. Ottenendo il duplice obiettivo di criminalizzare anche chi
fa un uso saltuario e ricreativo di sostanze stupefacenti, in particolare
di cannabis, e di costringerli o al carcere o a quei piccoli gulag
che sono diventati per la maggior parte le comunità per tossicodipendenti.
Il processo di carcerizzazione diffusa degli emarginati riguarda tutto
il mondo occidentale (nel Regno Unito sono arrivati a mettere in galera
i teppisti di undici anni). Il problema è se accettare o subire questa
impostazione o, semplicemente, ribellarsi. O si è d’accordo o si è contro.
Si tratta di un terreno su cui non si può essere agnostici.
Nel mondo dell’iniziativa privata, ma anche in quello dei servizi pubblici.
Negli ultimi anni, l’irruzione del darwinismo sociale (che è la
vera faccia proterva del liberismo) ha introdotto i principi e i valori
del mercato anche sul piano della cura. Il servizio sanitario nazionale,
una definizione asettica che oscilla tra la neutralità e vaghe reminiscenze
cattoliche, si articola in aziende sanitarie locali. Ma come può un’azienda
occuparsi di salute? Le aziende si occupano normalmente di merci. Oggi
la cura della salute fisica e mentale non risponde più ai bisogni delle
persone, ma a criteri di bilancio. A volte talmente efficaci da risultare,
anche sul piano economico, disastrosi.
Per fortuna, a destra e a sinistra, cominciano a esserci i primi pentiti
del liberismo sociale. Che si aggiungono alla massa degli scontenti. Meglio
perdere subito quel tram.