NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA
IN CAMMINO, Numero 480 dell'8 giugno 2008
PREDRAG MATVEJEVIC: IL PANE DEI ROM
"Corriere della sera" del 30 maggio 2008 col titolo, "Una
storia complicata. Rom, che cos'e' il pane per il popolo senza terra".
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In alcune regioni i rom formano la maggioranza dei mendicanti ma non
godono di alcuno di quei privilegi che solitamente vengono concessi alle
cosiddette maggioranze. Faticano a dichiararsi rom per non esporsi ai
sospetti, all'avversione dell'ambiente in cui vivono, al disprezzo e perfino
alle persecuzioni. La parola zingaro e' diventata offensiva; per questa
ragione essi stessi e i loro amici evitano di pronunciarla. Un volta non
lo era... Intanto per molti europei, e italiani - come Claudio Magris
ha ricordato sul "Corriere" lunedi' 26 maggio - fanno piu' paura
della mafia o della camorra, benche' in confronto a quel tumore sociale
i disagi che recano possano paragonarsi tutt'al piu' a un raffreddore.
I rom hanno vissuto la loro Shoah. Spesso si dimentica che furono uccisi
a decine di migliaia nei campi di sterminio nazisti, insieme agli ebrei.
Il loro modo di vivere non e' vietato dalla legge, ma sono sottoposti
a stretti controlli. Questo capita in varie epoche storiche, in diversi
Paesi. Non si sa con esattezza quanti siano i rom residenti in ciascuno
Stato. Sappiamo pero' che in alcuni sono numerosi, soprattutto nei Balcani
orientali. Ma un numero ancora piu' consistente di essi e' "sempre
in cammino". Chissa' da dove vengono o dove vanno; ignoriamo se partano
o tornino.
In Europa ce ne sono piu' di dieci milioni. Se si mettessero insieme formerebbero
una popolazione piu' numerosa di quella di una mezza dozzina di Stati
del nostro continente. Non hanno un proprio territorio ne' un proprio
governo. Hanno tutti un Paese natale, ma non una patria. Sono parte del
popolo in mezzo al quale vivono, ma non di una nazione. Non sono neppure
una minoranza nazionale: sono transnazionali.
Arrivarono dall'Asia, sono discendenti di popolazioni dell'India settentrionale.
Fin dai remoti tempi dell'esodo, si distinguevano per tribu'. Attraverso
la Persia, l'Armenia, l'Asia Minore, videro e impararono come si fa il
pane. Questo cibo elementare, peraltro, non era sconosciuto ai loro lontani
antenati.
Hanno portato con se' dall'antica terra natia alcuni nomi propri, fra
cui quello di rom. Altri gli sono stati attribuiti da gente a loro estranea.
Il termine zingaro deriva del greco athinganos. Gli slavi del Sud li indicano
con il termine ciganin, tsigan, tsigo; in Gran Bretagna li chiamano gipsy
da egytios, anche in Spagna, "per il colore bruno della loro pelle".
Sono detti anche maneschi, sinti, gitani, boemi. Un poeta croato di Dubrovnik,
intitolo' "Jeupka" - vale a dire "Egiziana" - un suo
poema che ha per protagonista una bella rom.
Gli uomini si dedicavano spesso all'arte del fabbro, lavorando i metalli,
costruendo attrezzi agricoli, coltelli e spade, ferrando i cavalli; all'allevamento
e al commercio degli equini; alla musica suonando chitarre o violini per
rallegrare o consolare gli innamorati, gli infelici e gli ubriachi. Le
"belle zingare" cantavano, danzavano e seducevano (in alcune
regioni lo fanno ancora). E fanno le indovine, senza dimenticare l'"arte"
antichissima dell'accattonaggio, tirandosi dietro per mano, attaccati
alla gonna, o portati in braccio i loro bambini.
Nella mia terra natale i rom sembravano essere piu' numerosi che altrove.
Da ragazzo mi univo spesso a loro. I miei genitori mi rimproveravano,
temevano che gli "zingari" mi rapissero portandomi via chissa'
dove (correvano voci di rapimenti). Ma nessuno mi ha mai fatto del male;
invece, ho imparato dai rom molte cose utili. Essi apprendono facilmente
le lingue, forse piu' degli altri. Ignoro se nella loro vita di erranti
riescano a conoscere la felicita', ma certamente sanno come si puo' essere
meno infelici. Essi mi hanno aiutato ad ascoltare e annotare parte del
racconto che qui espongo.
I rom hanno diversi termini per indicare il pane; il piu' frequente e'
marno che diventa poi manro, maro e mahno nelle varianti. La farina e'
arho, un nome che nella romanichila, la lingua dei rom, non ha il plurale.
E la cosa, forse, non e' casuale. Il lievito si dice humer, la fame e'
bok, essere affamato e' bokhalo: queste ultime due parole, sono di uso
abbastanza comune. Ch'alo (si pronuncia: cialo) e' sazio, panif e' l'acqua,
jag e' il fuoco, lonm e' il sale; mangiare si dice hav che e' infinito
e presente insieme. Conoscendo la poverta', la penuria e la ristrettezza,
circondati da tante cose ma privati quasi di tutto, i rom sanno ben distinguere
cio' che e' pulito (vujo) e quel che e' sporco ( mariame) non soltanto
nel cibo, ma anche negli usi e costumi.
Non si servono di ricette scritte su come si fa il pane o come si prepara
qualsiasi altro cibo, ma conservano e si tramandano una lunga tradizione
orale che passa di madre in figlia, di generazione in generazione. Il
loro modo di vivere non gi permette di servirsi di forni per il pane,
ma una focaccia si puo' cuocere anche sulle ceneri del focolare e la pitha
(una specie di pizza) su una piastra di semplice latta. Sapeste come sono
saporite le pagnotte e le focacce dei rom!
Nei loro proverbi sul pane c'e' molta saggezza. Ne ho annotati alcuni
nella lingua originale e li riporto perche' se ne senta il suono; li ho
poi tradotti per renderli piu' comprensibili.
Kana bi e ciorhe marena marnesa, vov bi lengo vast ciumidela: "Se
il povero venisse bastonato con il pane, egli bacerebbe la mano di chi
lo colpisce". O marno sciai so o Develni kamel thai so a thagar nasc'tisarel:
"Il pane puo' fare quello che Iddio non vuole e che l'imperatore
non riesce a fare". Kana bi ovela ne phuo marno savorenghe, ciuce
bi ovena vi e khanghira vi e krisa: "Se vi fosse pane sufficiente
per tutti in questo mondo, le chiese e i tribunali sarebbero deserti".
Te si marne thei nai biuze, na bi trebela rugipe: "Se ci fosse il
pane e non ci fossero i furbi, le preghiere sarebbero inutili". O
bokhalo dikhel suno e marne, o barvalo dikhel suno pe sune: "L'affamato
sogna il pane, il ricco sogna i propri sogni".
Una giovane zingara, allattando il proprio bimbo al seno, mi recito' quanto
trascrivo di seguito, nella sua lingua: una breve canzone dedicata al
pane. Me la tradusse persino. Il titolo e' "Marno", semplicemente:
"Pane". I voghi e iag giuvdarel, / i pani o arko bairarel. /
O humer i dai longiarel / thai peske ilesa gudgliarel, gudlo thai baro
te ovel, / pire c'havoren te ciagliarel. Ed ecco la traduzione, purtroppo
senza la fisarmonica e il tamburello: "Il soffio ravviva il fuoco,
/ con l'acqua si gonfia la farina. / La mamma versa il sale nella pasta,
/ la insapora con l'anima sua / perche' il pane sia dolce e abbondante
/ e nutra i suoi bambini".
L'uomo non nasce mendicante, ma lo diventa. E non lo diventa soltanto
per volonta' propria. L'accattonaggio e' l'ammonimento agli uomini veri
e alle fedi sincere: a quelli chiamati a dare il pane a ciascuno, a coloro
che non dovrebbero dimenticare la carita'. Le armi e le guerre costano
molto di piu' del pane. Gli antichi profeti consigliarono, invano, di
sostituire la lancia con il vomere. I rom non possiedono terre da arare.
Ed oggi e' per loro piu' facile mendicare, e talvolta anche un po' rubare.
Domani, forse, non sara' piu' cosi'. "Non dovrebbero essere cosi'"
dice il vecchio zingo, come una volta lo chiamavano nei Balcani, usando
termini vezzeggiativi.
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