Sarebbero molte le cose da dire sul tema dell’integrazione socio
sanitaria. Proverò a proporre alcune riflessioni che traggono spunto dalle
esperienze condotte in Regione Piemonte ed in particolare nell’ambito
dei Comuni di Collegno e Grugliasco. Questi Comuni rappresentano infatti
un osservatorio particolarmente interessante – con riferimento alla tematica
dell’integrazione – in quanto sono stati entrambi sedi di due grandi Ospedali
Psichiatrici. Quello più noto di Collegno e l’altro - quello di Grugliasco
– che, per fortuna, non venne mai completamente occupato in tutta la sua
capienza.
La tesi che proverò a sviluppare è che – attraverso la strumentalizzazione
del concetto di integrazione tra sanità ed assistenza – si è da tempo
avviato un processo di lesione dei diritti alle cure per le componenti
più deboli della popolazione. I presupposti di questo processo sono innanzitutto
culturali: nei primi anni ’80 si dava al concetto di salute una valenza
di “benessere fisico e psichico complessivo della persona”; successivamente
si è purtroppo tornati ad un concetto di salute come “non malattia”.
Ma si sta facendo di peggio: si tende cioè a considerare prerogativa del
servizio sanitario solamente la malattia nelle sue fasi acute e si cerca
di espellere dalla pienezza del diritto alle cure la cronicità in tutte
le sue manifestazioni.
In sintesi si può dire che vengono considerate “sanitarie” solamente
le prestazioni “mediche” e non il complesso degli interventi –
forse complementari, ma indispensabili - finalizzati ad assicurare la
salute complessiva del paziente. E’ un messaggio che sta passando tra
gli operatori e nei servizi anche perché trova supporto nella normativa
più recente: inclusa la 328/2000 della quale non è possibile trattare
– per ragioni di tempo - nell’ambito di questo intervento.
Forse è opportuno cogliere il monito di Tocqueville e ricordare che: “Quando
il passato non rischiara più l’avvenire, la mente cammina nelle tenebre”!
Noi tutti sappiamo che lo stato di salute e le condizioni sociali sono
tra loro connesse e si determinano l’un l’altra. Sulla base di questa
considerazione si è sviluppato – negli anni ’70 ed a partire dalle fabbriche
– un forte movimento che ha imposto l’approvazione della legge 833/1978
istitutiva del servizio sanitario nazionale. Con la legge di riforma sanitaria,
per la prima volta, si mette davvero in pratica il disposto – contenuto
nell’articolo 32 della Costituzione – secondo il quale “La Repubblica
tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse
della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”.
Giova infatti ricordare che l’articolo 1 della legge 833 - che a differenza
della più recente legge di riforma dell’assistenza nasce attraverso un
forte movimento “dal basso” che coinvolge, tra gli altri, gli stessi operatori
dei servizi – assegna al servizio sanitario compiti di promozione,
mantenimento e recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione,
senza distinzione di condizioni individuali o sociali e secondo modalità
che assicurino l’eguaglianza (concetto oggi considerato obsoleto)
dei cittadini nei confronti del servizio.
Nonostante le modifiche apportate al Titolo V° della Costituzione, in
materia di sanità vige ancora il principio della “legislazione concorrente”.
Spetta cioè ancora alla Stato dettare i principi generali ai quali la
normativa regionale deve attenersi. Da ciò consegue che i principi dettati
dalla legge 833 hanno a tutt’oggi forza di legge e vanno, pertanto, applicati!
Sulla base dell’individuazione delle competenze sanitarie definite nella
legge di riforma si è sviluppato – a partire dai primi anni ’80 – un processo
virtuoso che costituisce la “fase nobile” dell’integrazione tra sanità
ed assistenza. In molte regioni – e tra queste il Piemonte – si legifera
al fine di consentire una integrazione istituzionale e gestionale dei
servizi socio assistenziali di competenza comunale e dei servizi sanitari
attraverso la delega di funzioni alle unità socio sanitarie locali (allora
governate dai comuni).
Con le unità socio sanitarie locali al cittadino è data la possibilità
di avere un unico interlocutore istituzionale ed un’unica struttura organizzativa
di servizi sociali e sanitari articolata a livello territoriale nei distretti
socio sanitari di base. Per la prima volta al cittadino viene fornita
la possibilità di rivendicare il proprio diritto alle cure nei confronti
di un’unica istituzione e di interloquire con un unico apparato
tecnico professionale. Finalmente si delinea la possibilità di non
costringere il cittadino al “gioca dell’oca dell’assistenza”. Di obbligare
cioè le persone – già gravate di problemi – ad assumersi l’onere di connettere
e di ricomporre gli interventi e le prestazioni sociali e/o sanitarie
delle quali necessitano.
I Grazie allo strumento rappresentato dall’integrazione delle competenze
si aspira a socializzare e a demedicalizzare la sanità, alla quale si
richiede l’assunzione diretta di tutte le valenze umane, relazionali e
sociali nell’ambito delle attività di prevenzione cura e riabilitazione
proprie del sistema sanitario post riforma. Si opera inoltre per lo sviluppo
di quei servizi alternativi all’istituzionalizzazione che non possono
venire attivati se non attraverso l’utilizzo delle risorse (umane e finanziarie)
del comparto sanitario, in quegli anni decisamente più consistenti di
quelle disponibili per il comparto assistenziale.
Nella nostra realtà questo ha significato la concreta possibilità di superare
l’istituzionalizzazione in manicomio di persone – malate e quindi in carico
ai servizi sanitari – per le quali il processo di cura richiedeva non
solo l’erogazione di prestazioni “mediche” ma anche di interventi di riabilitazione
che comportavano l’utilizzo di competenze “sociali”: dalle attività ludico
– ricreative – culturali alle attività di inserimento lavorativo ed abitativo.
Il tutto veniva però linearmente ricondotto al concetto di “promozione
della salute” e, conseguentemente, era il comparto sanitario ad assumere
la responsabilità primaria degli interventi e degli oneri finanziari che
da essi conseguivano.
Purtroppo la “fase nobile” dell’integrazione non dura a lungo e viene
messa in crisi – non a caso, vista l’esigenza di contrarre la spesa sanitaria
– dalla legge finanziaria del 1984 (Legge 730/83, art. 30) con la quale
si inventano“le attività di rilievo sanitario connesse con
quelle - assistenziali” demandando ad apposito decreto il compito
di individuarle all’interno del complesso delle attività sanitarie e sociali
svolte dai servizi integrati.
A “definire” la nuova tipologia di attività interviene, nel 1985, il D.P.C.M.
conosciuto come “decreto Craxi” che, all’articolo 1, recita: “Le attività
di rilievo sanitario connesse con quelle assistenziali di cui all’art.30
della legge 27 dicembre 1983, n.730 sono le attività che richiedono
personale e tipologie di intervento propri dei servizi socio – assistenziali,
purché siano dirette immediatamente e in via prevalente alla tutela della
salute del cittadino e si estrinsechino in interventi a sostegno dell’attività
sanitaria di prevenzione, cura e/o riabilitazione fisica e psichica del
medesimo, in assenza dei quali l’attività sanitaria non può svolgersi
o produrre effetti”. Per questa tipologia di attività le regioni (destinatarie
del decreto) possono riconoscere una compartecipazione sanitaria alla
spesa mentre “le attività direttamente ed esclusivamente socio - assistenziali,
comunque estrinsecantesi, anche se indirettamente finalizzate alla tutela
della salute del cittadino” devono gravare esclusivamente sui bilanci
dei comuni. L’obiettivo è, chiaramente, di ricondurre al nuovo regime
di finanziamento (compartecipato) le prestazioni sino ad allora attribuite
(o comunque attribuibili) per intero al fondo sanitario realizzando, in
tal modo, un risparmio di spesa a scapito degli utenti e/o dei comuni.
Grazie al decreto si arresta il processo di estensione dei diritti alle
prestazioni sanitarie avviato nella primissima fase di attuazione della
legge 833 innescando un meccanismo di espulsione degli anziani cronici
non autosufficienti, dei dementi senili e dei malati di Alzheimer, dei
pazienti psichiatrici e dei disabili dal diritto ad usufruire pienamente
delle prestazioni che il servizio sanitario fornisce alla generalità
dei propri assistiti. In buona sostanza si opera una distinzione tra situazioni
di cronicità “improduttiva” e situazioni di acuzie ed alle prime si applica
un meccanismo di compartecipazione alla spesa.
Con il decreto si creano quei presupposti “culturali” – di cui dicevo
all’inizio - con i quali si motiva e giustifica il periodico tentativo
di espulsione dei pazienti ex O.P e dei malati di mente
in generale, dalla tutela rappresentata dal sistema sanitario. Anche su
questo versante si opera a colpi di leggi finanziarie , utilizzando lo
strumento della penalizzazione nell’erogazione dei fondi alle Regioni.
Con la finanziaria del ’95 viene stabilita la definitiva chiusura degli
Ospedali Psichiatrici da realizzare entro il 31.12.1996. La successiva
legge finanziaria del’97 riconferma la decisione di procedere alla chiusura
e stabilisce una penalizzazione per le Regioni inadempienti. Con la finanziaria
del ’98 vengono riconfermate le sanzioni per le Regioni responsabili della
mancata attuazione (entro il 31 marzo 1998) dei provvedimenti necessari
alla chiusura degli O.P.
Al fine di dare adempimento alle disposizioni normative nazionali la Giunta
della Regione Piemonte, con deliberazione n.489/1996, adotta le linee
guida per la chiusura definitiva degli ex O.P prevedendo che questa avvenga
tramite rivalutazione clinica deipazienti . La rivalutazione
si concretizza nell’inserimento dei pazienti ex O.P e di quelli “territoriali
– ricoverati dai Servizi di salute mentale in strutture residenziali socio
assistenziali con oneri a carico del Servizio Sanitario – nelle nuove
“categorie” degli adulti portatori di handicap (rivalutati di tipo
A) e dei non autosufficienti anziani e non (rivalutati di tipo
B). A queste due fattispecie si aggiungono le persone rivalutate di tipo
C che rimangono di esclusiva competenza psichiatrica. A tutela degli Enti
Gestori socio assistenziali – che senza alcuna competenza specifica si
trovano a dover avallare “guarigioni” determinate dall’invecchiamento
(tipo B) o a recepire le diagnosi di handicap (tipo A) formulate dagli
psichiatri – la Legge regionale n.61/1997: stabilisce che “la Regione
interviene finanziariamente a favore degli Enti gestori dei servizi socio
assistenziali a copertura degli oneri derivanti dall’organizzazione e
dall’erogazione delle prestazioni destinate ai soggetti con patologie
psichiatriche in carico anche ai servizi socio – assistenziali e ai soggetti
rivalutati ..”.
Ancora una volta si è costretti a barattare i diritti con le risorse.
In Regione Piemonte gli Ospedali Psichiatrici erano infatti già superati
ma gli oneri degli interventi alternativi al ricovero – almeno formalmente
esigibili in quanto prestazioni sanitarie - continuavano a gravare sul
comparto sanitario. Con l’applicazione delle disposizioni regionali si
sgrava la sanità di una notevole quota di spesa attingendo ai già esigui
fondi socio - assistenziali.
Intanto – mentre tutto ciò accade – alle Unità Socio - Sanitarie istituite
in Piemonte sulla base della legge 833 subentrano, in applicazione dei
decreti legislativi di riordino della disciplina sanitaria 502/1992 e
517/1993, le Aziende Regionali USL individuate con la L.R 39/1994. Nel
1995 la Regione Piemonte approva la L. R. 62/1995 di riordino dei servizi
socio assistenziali che incentiva i Comuni a riassumere le funzioni socio
- assistenziali ed a gestirle in forma associata attraverso la costituzione
di consorzi tra i Comuni. L’effetto di tali scelte (indotte dalla
“aziendalizzazione” del sistema sanitario nazionale) è l’estromissione
sostanziale degli amministratori comunali dal governo dei servizi sanitari
e socio sanitarie, in tema di integrazione socio sanitaria,
il riproporsi della questione del rapporto fra funzioni e servizi delle
Aziende Sanitarie e servizi dei Comuni, in ordine al problema - a
tutt’oggi non felicemente risolto - dell’orientamento delle azioni ai
cittadini (che dovrebbe rappresentare il primo dovere delle pubbliche
amministrazioni).
E’ una situazione che deve far riflettere perché – a fronte del processo
in atto di limitazione del diritto dei cittadini all’eguaglianza
nell’accesso alle prestazioni sanitarie – ad essi viene anche sottratta
la possibilità di una tutela efficace da parte dei rappresentanti eletti
delle comunità locali. Credo – per concludere – che il problema dell’integrazione
socio sanitaria possa essere risolto in due modi:
superando l’artificiosa separazione tra sanità ed assistenza e tra malattie
croniche ed acute assicurando a tutti la fruizione di un sistema
sanitario finanziato con la fiscalità generale;
oppure estendendo – in nome dell’equità – il principio della partecipazione
alla spesa da parte degli assistiti al complesso del sistema sanitario
nazionale.
Nella seconda ipotesi si applicherebbe il cosiddetto “universalismo
selettivo” – introdotto nel sistema dei servizi sociali dalla legge
328/2000 – al sistema sanitario pubblico che la prima legge di riforma
voleva fondato su un universalismo senza aggettivi. In ogni caso
è doveroso prendere atto del fatto che un processo di selezione
all’interno del sistema sanitario si è purtroppo già realizzato
e che alle persone più deboli, collocate ai margini del sistema, è necessario
ed urgente garantire una tutela più efficace da parte delle amministrazioni
locali.
* Intervento al Convegno “Cittadinanza e diritti - Esperienze
a confronto” Roma, Novembre 2004