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Da VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA - Supplemento settimanale del martediì de "La nonviolenza e' in cammino" - Numero 35 del 15 agosto 2006

Anna Segre. La difesa della normalità

Dalla rivista "Una citta'", n. 117 del novembre-dicembre 2003 (disponibile anche nel sito www.unacitta.it)]

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Si', a un dato momento ho pensato che fosse giusto, utile, parlare di questa cosa; credo siano passati i tempi in cui i malati di cancro si celavano dietro malattie varie, di solito dietro l'espressione "male incurabile", e non ne parlavano, ne' con gli amici ne' tantomeno in pubblico. Di fatto si apprendeva sempre che qualcuno era stato malato di cancro dopo la sua morte, dal necrologio, che diceva: "stroncato da male incurabile, il tal dei tali eccetera eccetera"
Ecco, io credo che i malati di cancro che hanno la "fortuna" di sopravvivere a lungo abbiano il dovere di parlarne. E non per fornire facili illusioni, come quei saggi che si trovano in libreria o nelle erboristerie, intitolati "Come sono guarita dal cancro", ma perche' altri possano trovare magari nelle parole di una persona un aiuto, un modo di affrontare la malattia che a loro non e' venuto in mente, non e' venuto spontaneo
Teniamo presente che la stessa dizione "male incurabile" non e' piu' appropriata perche' di fatto il cancro non e' piu' un male incurabile. Questo va detto. Ci sono cure e modi di affrontarlo che stanno trasformando il cancro in un "male cronico". Non vorrei essere troppo ottimista, ma sono anche i miei medici che me ne parlano. Cure sempre piu' personalizzate, adattate ai diversi tipi di cancro, se non riescono ancora a far guarire, riescono pero' ad allungare la vita del malato, cronicizzando quindi la malattia, facendola durare. E siccome e' aumentata molto anche la possibilita' di salvaguardare la qualita' della vita di chi ha questa malattia, la tendenza a cronicizzare il male e' da vedere come un fatto positivo. Per questo penso che sia meglio parlarne, per raccontare come alcune persone riescono, nonostante la malattia, a vivere in modo discreto. Questo penso sia anche il mio caso, il che non vuol dire, pero', che non abbia subito una rivoluzione totale della mia vita, del mio modo di pensare al tempo, al futuro
La notizia e' un vero trauma, perche' tu non sai piu' che cosa hai davanti. Io ho reagito in modo quasi infantile. Quando una dottoressa dell'ospedale mi ha comunicato che gli esami erano positivi e potevano far pensare a qualcosa di canceroso, forse mi sono anche messa a piangere, pero' appena lei mi ha lasciato, sono corsa dall'infermiera e le ho chiesto se poteva darmi una pastiglietta di sedativo. Un'inezia rispetto alla notizia ricevuta. Il mio primo approccio di difesa e' stata quella pastiglietta per non agitarmi troppo. Dopodiche' e' iniziata una nuova vita in cui devi trovare un modo di convivere con il male, tirando fuori tutte le energie per non lasciarti sopraffare
Dal momento che sai, poi, vieni immediatamente trasportato in un mondo che non conoscevi prima, che e' il mondo degli ospedali oncologici. Se stai in una grande citta' dove c'e' un centro oncologico di ricerche e cura, come nel mio caso, e' gia' una fortuna. Puo' non capitare a tutti, soprattutto a chi non vive in grandi citta', e magari per raggiungere questi posti deve abbandonare la propria casa per mesi
Ecco, una delle cose piu' fastidiose quando non si ha molto male, come nel mio caso, e' questa continua ospedalizzazione, nel senso che tu vivi a casa tua, fai le tue cose, pero' le scadenze vere sono quelle della visita, degli esami, della cura, e quindi sulla tua agenda prima segni queste e poi eventualmente aggiungi gli impegni di lavoro, se l'hai mantenuto. Tutto dipende da quello, e non si puo' assolutamente fare diversamente...
Bisogna pero' anche dire che in questi posti i medici, e ancor piu' gli infermieri, in genere sono meglio che negli ospedali comuni, nel senso che veramente svolgono un lavoro difficilissimo, di responsabilita' e - non e' una frase banale - sempre col sorriso sulle labbra, con la parola giusta, per otto ore di seguito. Io non ho mai capito come facciano. Ammiro tantissimo queste persone. Vedono passare i malati a migliaia e pero' si ricordano sempre il tuo nome, o, meglio, il tuo cognome, perche' non e' piu' il tempo in cui il paziente viene chiamato nonna, nonno, oppure per nome. Si ricordano il tuo cognome, come e' giusto
* Forse l'effetto piu' pesante della chemioterapia, anche se non dal punto di vista fisico, soprattutto per una donna, e' la perdita dei capelli. Li' si tocca l'identita' profonda, perche' vedi un pezzo del tuo corpo, secondario magari, come sono i capelli, venir via a ciocche fino a quando rimani completamente rapato. Ma anche qui le donne hanno trovato diversi modi per reagire, chi camuffandosi chi no. C'e' chi usa la parrucca, chi porta dei foulard, chi usa cappelli appositi, dei turbantini che dicono immediatamente che sei malato di cancro perche' nessuno li userebbe per andare a spasso; e c'e', soprattutto tra le giovani direi, la tendenza a mostrarsi cosi' come si e': non c'e' niente di male ad andare in giro anche completamente calvi
Con le altre persone in cura si crea un rapporto di complicita' nella sofferenza, nel senso che tutto sommato non c'e' bisogno di parlarne. Dove vado io le stanze sono a due letti oppure ci sono tre poltrone per chi fa delle chemioterapie brevi. Ecco, difficilmente ci si scambiano notizie sui propri mali, non ci si chiede: "Ma tu dove ce l'hai?". Al limite ci si scambiano delle informazioni sulle conseguenze delle terapie: "Io ho perso i capelli", "A me viene la nausea, vomito tutte le volte". Ma il piu' delle volte non si parla neanche di quello, bensi' del giornale che uno sta leggendo o di cose quotidiane, del fatto che qualcuno viene da lontano. Si parla tutto sommato poco della malattia in se', forse perche' questa e' gia' terribilmente presente: se si e' li', se si e' varcata la soglia di quell'ospedale, e' certo che e' per quel motivo, non c'e' bisogno di parlarne. I pazienti comunque cambiano sempre, qualcuno va una volta alla settimana, qualcuno una volta ogni tre, quindi e' difficile stabilire dei legami. Quando sei ricoverato, invece, si stabilisce un legame fortissimo che si mantiene anche dopo, ci si telefona..
Io, il primo mese di malattia credevo di non riuscire piu' a far niente, nemmeno a leggere il giornale o un libro. Avevo subito un'operazione lunga e complicata quindi puo' darsi che fosse anche la conseguenza di questo. Avevo il cervello completamente svuotato, mi sembrava di non ricordare piu' niente, di dovermi focalizzare solo su quello, sul male che sentivo, sulla ferita fisica da guarire. Poi invece piano piano, seppur con l'inizio della chemioterapia, tutto e' un po' cambiato, ma c'e' voluto molto tempo; ed e' cambiato con un lavoro su me stessa veramente lungo, confrontandomi anche con altre persone. Li' ho visto che l'unica soluzione era quella di continuare a svolgere il proprio lavoro, pur nelle difficolta' di programmazione che subentrano. Tu non sai mai se starai bene il tal giorno, se la terapia te la fissano di giovedi' o di venerdi' o chissa' quando..
Io sono stata fortunata perche' ho un lavoro, quello di docente universitario, in cui gli orari sono abbastanza gestibili. Pero', ecco, gia' in questo il ruolo degli amici diventa indispensabile. Ad esempio, nella settimana successiva alla chemioterapia io non sono in grado di fare lezione, ma per fortuna ho un pool di amici-colleghi disposti a sostituirmi in qualunque momento; dico pool perche' sono tanti e si dividono i ruoli, non tutti hanno le stesse competenze, per cui a seconda delle necessita' va uno o va l'altro. E questa e' una grande fortuna, che pero' si costruisce, anche raccontando via via agli amici le difficolta'. E selezionando, perche' non tutti sono disponibili a fare questo percorso con te. Un po' mi dispiace, ma io ho fatto una grande scelta all'inizio: ho visto subito gli amici che erano disposti, disponibili, capaci - perche' anche di questo si tratta - di accompagnarmi in questo cammino, e quelli che invece non lo erano, per difficolta' proprie, magari di comprensione, perche' e' vero che il cancro non e' piu' la malattia killer di una volta, ma resta pur sempre una malattia difficile da sopportare, da descrivere. E' una malattia in cui tu devi essere seguita quotidianamente da chi ti vuol capire. E allora per forza selezioni gli amici. Gli amici che restano hanno pero' un ruolo fondamentale
Le persone che invece facevano finta di niente sono uscite dalla mia vita. E' molto difficile parlarne. Nel senso che ci sono delle persone che fanno finta di niente perche' credono di farti del bene: non parliamone, facciamo come se niente fosse perche' forse tu preferisci cosi'... Oppure ci sono le persone che ne parlano anche molto a sproposito. Appunto non essendo a conoscenza di quello che stai facendo, di tutto il tuo percorso, ti trattano come vittima, ti compatiscono molto, e anche questa e' una cosa che non serve assolutamente a niente. Che senso ha compatire? Condividere si' serve a qualcosa, ma compatire no. Non e' della pieta' che hai bisogno: "Oh, poverina"; magari poverina si', ma allora vengo con te, ti accompagno a fare una commissione, un esame. La condivisione e' importantissima in questi casi
Si', penso che vada difesa la normalita'. E la normalita' e' innanzitutto riuscire a fare il proprio lavoro. Certo, la parola futuro e' stata eliminata dal mio pensiero, dal mio linguaggio. Ma ne ho avuto solo dei benefici. Ora vivo molto alla giornata, riesco molto difficilmente a programmare le cose, perche' poi capita sempre qualche cosa, la visita inaspettata, l'esame che devi fare, un male che non ti aspettavi e che per due o tre giorni ti costringe a starci dietro. Per cui il futuro non c'e'. Poi pero' si riesce lo stesso a fare tante cose. Ad esempio, se qualcuno ti telefona e ti chiede: "Sei disponibile il 17 luglio per un intervento al tal convegno?", io ho imparato a dire "si'". Perche' rispondere no e' uguale. C'e' la stessa probabilita' di essere presente come di non esserlo. Allora tanto vale dire di si'. E non sto prendendo in giro nessuno, perche' so che comunque faro' tutto il possibile per essere presente, e se non potro' sara' uguale a tutti gli altri, perche' anche a un altro puo' capitare un attacco di appendicite la sera prima o l'influenza... quindi non sono in una situazione tanto diversa. Si', se volessimo fare il calcolo delle probabilita' lo sarei, ma non lo faccio. Per cui, non mi carico piu' come prima, ma sostanzialmente dico di si' agli impegni. Certo, mi sento in una situazione diversa perche' so che dovro' superare piu' difficolta', dovute soprattutto alla stanchezza, ma ho imparato che e' meglio sentirsi coinvolti come prima, perche' l'alternativa vorrebbe dire rinchiudersi a casa, magari a guardare la televisione, e questo penso sia molto peggio anche dal punto di vista della malattia
Ci sono poi delle persone che trovi occasionalmente e dalle quali arriva un aiuto insperato. Esistono addirittura delle professioni di cui, prima di entrare in questo circolo frenetico della malattia, non conoscevo neppure l'esistenza
Io ho provato anche a fare due anni di psicoterapia, con una psicoterapeuta, come dire, normale, di buona scuola e ben nota a Torino, ma che non riusciva a darmi assolutamente niente. Anche lei non capiva. Mi faceva continuamente ripetere le stesse cose, ma non riusciva a darmi il minimo sollievo. Poi, per caso (e questo e' un fatto grave perche' avrebbe dovuto esserci un'indicazione nell'ospedale) ho incontrato una persona e ho scoperto l'esistenza di un ramo della psicoterapia che si occupa solo dei malati oncologici, e che si chiama psicologia oncologica. Improvvisamente ho scoperto persone in grado di capirmi, di rispondere alle mie domande, di consigliarmi per la vita
Questa specializzazione dovrebbe esserci in tutti gli ospedali oncologici, al servizio non solo dei pazienti, ma anche dei familiari, perche' i familiari sono sottoposti a uno stress pari a quello dei pazienti quando si sentono impotenti, incapaci di alleviare il male che affligge un figlio o un fratello. Anche loro hanno molto bisogno di accompagnamento. Gli psicologi oncologici infatti fanno anche questo mestiere, organizzano gruppi di familiari, gruppi di auto-aiuto tra pazienti, come pure dei corsi per i volontari che vanno a lavorare negli ospedali. Poi, un po' di psicologia oncologica servirebbe anche agli oncologi, perche' a volte sono un po' duri, anche per il fatto che, giustamente, non ti raccontano piu' balle - mentire, pure, fa parte del passato. Insomma, ti dicono la verita' e allora sono duri, molto duri. Tuttavia, secondo me c'e' modo e modo anche di dire la verita'. La verita' detta con i modi dello psicologo oncologo, per esempio, sarebbe piu' lieve da digerire: loro sanno quali sono i tuoi punti deboli, le tue paure, e ti prevengono
Per i familiari vale lo stesso discorso degli amici: bisogna scegliere. Nel mio caso non ho dovuto neanche scegliere: avendo una famiglia minuscola, ho visto subito chi c'era e chi non c'era. E chi c'era era un familiare nemmeno familiare perche' era il mio compagno di vita, Claudio, che e' stato in questi anni l'unica persona che mi ha accompagnato sempre, a fare la terapia, dai medici, a ricevere i risultati. E io credo che abbiamo sofferto esattamente dello stesso stress, io malata e lui no. Deve essere terribile vedere una persona di famiglia stare male, sopportare cure, e non poter fare assolutamente niente, per cui c'e' questa dedizione, che nel mio caso e' stata assoluta. Se riesco ad affrontare cosi' la malattia, certamente per meta' e' merito suo. Ma questa dedizione assoluta il familiare o l'intera famiglia, quando c'e', quanto la paga? Certamente il prezzo e' altissimo. Io lo so perche' in altri tempi, quand'ero giovanissima, ho avuto una mamma malata di una malattia simile, che a quei tempi si curava poco, infatti resistette solo un anno. Ebbene, per me, allora sedicenne, fu un anno terribile, che mi ha segnato per tutta la vita. Da allora ho vissuto proprio con la paura di queste malattie, di star male, di soffrire quanto ha sofferto lei. Ecco, la paura del dolore e' ancora una cosa molto rilevante in queste malattie. Il fatto che il dolore oggi possa essere neutralizzato grazie a farmaci, a terapie apposite, mi sembra una conquista straordinaria
Questo va detto al paziente. Descrivere com'e' il dolore adesso e' proprio una delle funzioni dello psicologo oncologo. Per me, per il mio modo di pensare, e' stato un grande salto di qualita'. La mia paura infatti non e' mai stata quella della morte, ma quella del dolore. Pensavo al dolore come a qualcosa di tremendo. Invece lui, praticamente, ha detto che ormai si controlla cosi' bene che in nessun caso si soffre piu' molto. E' stato un grande sollievo. E queste sono cose da dire. Gli oncologi tendono a dirti solo gli effetti secondari della terapia, ti avvertono, cioe', di tutte le sofferenze procurate dalle cure, ma non ti dicono: "Beh, pero', se poi soffri tanto, noi sappiamo cosa fare...". Ecco perche' credo ci dovrebbe essere molta piu' collaborazione tra oncologi e psicologi. Per portare su un binario di vivibilita' la novita' di una tale malattia, infatti, devi anche avere i mezzi culturali: leggere i libri giusti, parlare con le persone giuste. Bisogna anche imparare a dire al medico che cosa senti, che cosa provi, dove hai male, dove non hai male. Io arrivo sempre li' con un foglietto con tutto segnato, per non dimenticarmi niente. E il mio medico, che ormai mi conosce, si sente sottoposto a un esame; mi dice che io non posso fare a meno di fare esami a tutti. Tra l'altro, gli riservo sempre per ultime le domande piu' difficili, tipo: "Ma... non guariro' perche' ho capito di no, ma potro' stare ancora meglio?", e lui: "Sapevo che mi faceva anche la domanda per la lode!"
Gia', la qualita' della vita, come suol dirsi. Ecco, tutte queste persone, i medici, gli infermieri, gli psicologi, i familiari e poi le terapie, che sono fondamentali, insieme, riescono a farti godere di una qualita' accettabile della vita. Che tu sai che ha un termine. Ma ciascuno di noi lo sa. Il giorno in cui mi hanno comunicato al cellulare che una mia carissima amica aveva avuto un infarto, io stavo entrando in ospedale per una cura
Dove stava la differenza? Non c'era. Quella che gli statistici chiamerebbero speranza di vita, da un momento all'altro e' diventata molto piu' breve per l'amica che fino all'altro giorno non aveva avuto niente e piu' lunga per te che da anni ti curi e soffri, portandoti dietro tutto il bagaglio di una malattia gravissima
Questa presa d'atto della non differenza, della non diversita', e' per me molto recente e, in questo, lo psicologo mi ha aiutato molto. Voglio dire, anche tenendo conto della teoria delle probabilita', non so quanto sia maggiore quella di morire in un incidente automobilistico, o per un male improvviso che senza avvisarti ti uccide. Una mia collega di universita' qualche anno fa e' andata a letto normalmente la sera e al mattino non si e' risvegliata. Qual e' la differenza tra me e lei? La mia scadenza non e' piu' vicina di quella degli altri. Certo, io vivo piu' di altri con l'idea delle scadenza, ho piu' difficolta' a far programmi, non posso dire: "L'anno prossimo faro' un viaggio in Australia...". Si', questo non lo dico piu', pero' due settimane prima, se sto bene, mi organizzo il mio viaggio in Australia
Insomma, impari a vedere in modo diverso il male che puo' arrivare improvvisamente. Io ho avuto tante lezioni di vita in questo periodo. Ho avuto anche una collega che, col mio stesso male, e' vissuta molto meno. A un certo punto ha saputo che le terapie non sarebbero state piu' utili e ha deciso di non farle più. Anche quella e' una scelta. Una scelta in cui sai come va a finire. Sono comunque scelte che, finche' stai bene di testa, puoi fare anche tu. Ecco, la mia vera preoccupazione e' quella di arrivare a un momento in cui non sarò più capace, lucida, per fare le mie scelte. Per questo io vorrei che anche nel nostro paese ci fosse la possibilita' di fare il testamento biologico, perche' io la ritengo una cosa fondamentale, un indice di civilta'
Il pensiero della malattia e' difficile da allontanare, questo si'. Ed e' un pensiero invadente perche' con la malattia devi farci i patti sempre. Se devi prendere un impegno, subito pensi: potro', non potro'? Quel che vorrei e' riuscire a tramutarlo in un pensiero, ahime', positivo. A me piacerebbe ad esempio riuscire a fare di piu' per chi ancora non ha trovato un modo per convivere con la malattia. Il mio medico chiede sovente la collaborazione dei pazienti, proprio perche' loro non riescono ancora a trasmettere l'esperienza, le sensazioni, i passi avanti del malato. Recentemente mi ha chiesto di partecipare a un corso per i volontari che vanno poi negli ospedali oncologici: "A lei una lezione in piu' o in meno non costa niente, ma le informazioni che lei mi sta dando e che potrebbe dare a tutti gli altri sono preziose. Noi non le conosciamo finche' qualcuno non le esprime e invece potrebbero servire a cambiare anche il nostro atteggiamento, il nostro modo di fare". Poi anche i volontari ne avrebbero bisogno. E' infatti ben chiaro cosa fanno tra le persone ricoverate, che possono aver bisogno di mangiare e di tante cose materiali, ma ci sono volontari che vanno anche nei day hospital, o a domicilio. Ecco, devono saper bene cosa si trovano davanti, perche' fare il volontario nel day hospital e' difficilissimo: le persone cambiano continuamente, e poi non c'e' un bisogno particolare, pero' magari si', di parlare. Io nel day hospital mi trincero sempre dietro un giornale quando arrivano, ma perche' non so cosa dire! Perche' questi poi cominciano: "Come sta?", "Ha bisogno di qualcosa?"; tu sei li' seduto che aspetti la terapia e loro: "Eh, fa un bel freddo oggi". Ecco, queste modalita' forse si potrebbero cambiare, pero' allora i volontari devono sapere a cosa pensa un paziente che sta li' due ore ad aspettare la terapia, e cercare di intervenire su quei pensieri. Io non credo allo svago, per cui mentre sei li' arriva quello in camice verdino e ti fa pensare a qualcosa d'altro. Pero' non so, perche' magari a qualcuno completamente solo quel contatto potrebbe anche servire. Non vorrei dare un giudizio definitivo su questo..
Forse le persone non sono cosi' preparate alla maggior durata della malattia. Io in qualche caso - e mi sono sentita a disagio - ho letto sul viso di colleghi lontani, che vedi raramente, un'espressione di sorpresa, quasi a dire: "Ma come, non avevi una malattia grave?". Sembravano sorpresi di vederti ancora li'
Devo dire che a me questo fa molto male, perche' vuol dire che quella persona, che puo' essere vicina o lontana, non solo non si pone il problema di esserti di aiuto, ma non sa nemmeno che fine ha fatto la tua malattia, se ne sei uscita e, anzi, tutto sommato aveva previsto che non ne uscissi. Per questo ritengo che quello attorno alla malattia sia un mondo un po' a parte, in cui certamente e' piu' facile comunicare, capirsi, forse perche' si hanno le stesse speranze, le stesse paure. Seenza passare attraverso quello che una volta era chiamato il "tunnel" della malattia, e' difficile capire che uno vuole lottare, che uno vuole essere sempre e comunque presente. Mi sembra che invece sia proprio questa una tendenza dei malati. Sara' una curiosita' un po' perversa, ma io faccio sovente l'analisi dei necrologi. E mentre appunto una volta leggevi: "Dopo lunga e dolorosa malattia, patita con cristiana rassegnazione...", adesso spesso trovi scritto: "Avendo lavorato fino all'ultimo e sostenuto il suo impegno..." o, come qualche giorno fa per un professore: "Avendo ricevuto gli studenti fino al giorno prima, il tal dei tali e' deceduto". Ecco, li' sta la differenza. E' infatti la cronicizzazione della malattia che ti permette di parlare lucidamente coi tuoi studenti, seguirne le tesi, ecc., fino al giorno prima.
Che, soprattutto, fa si' che non si sappia piu' qual e' il giorno prima. Altrimenti, sapendolo, uno manderebbe tutto all'aria, gli studenti, i colleghi ecc. Ci sono delle signore che aspettano li', tutte calve, malridotte, e che pero' sferruzzano, lavorano a maglia, o si portano altri lavoretti da fare nell'attesa. Questo anche vuol dire "prenderla bene". Sferruzzi quando vai dal medico della mutua perche' hai un callo che ti fa male..
A volte penso a chi non puo' curarsi. Per queste malattie ormai sei curato in modo uguale in tutto il mondo avanzato, perche' esistono i famosi protocolli di cura, che gli specialisti si scambiano in continuazione attraverso convegni, pubblicazioni ecc. per cui credo che oggi non faccia alcuna differenza essere curato a Torino, New York o Tokyo. Ma queste cure sono costosissime; qui, ovviamente, almeno per ora, vengono passate dal servizio sanitario nazionale
Pensate che la cura che sto facendo adesso - me l'ha detto il mio medico, il primario dell'ospedale - fino a due anni fa non l'avrei potuta fare perche' non se la potevano permettere proprio come ospedale. Era una produzione americana, che in Europa veniva a costare troppo cara. Poi c'e' stato un intervento, non so di che tipo, dell'Unione Europea, che ha fatto ribassare il prezzo di questa sostanza e ora si fa anche in Europa. Questo due anni fa, io pero' sono ammalata da cinque. Quindi nei primi anni non avrei potuto farla, pur stando nell'Italia di nordovest. Pensiamo allora ai paesi sottosviluppati: probabilmente non si arriva neanche alla diagnosi. Ai milioni di persone che muoiono ogni anno di queste malattie, sono infatti da sommare tutti quelli che muoiono senza saperlo
Se ho fiducia nella chemio? Io personalmente non ho dubbi. Ho sempre creduto poco alle terapie alternative, le ho anche fatte, non in questo caso, in altri, non avendo mai buoni risultati, forse perche' non ci credevo, ma per il cancro credo proprio non ci sia possibilita' di curarsi in modo diverso.
Faccio dei massaggi shiatsu che mi aiutano molto a rilassarmi, che certo servono, ma non credo nemmeno che esistano delle terapie alternative affermate, per cui, ahime', la terapia alternativa e' non fare alcuna terapia. Cosa che qualcuno fa, ma io mi scaglio contro queste persone, perche' non fare nessuna terapia vuol dire morire entro brevissimo tempo
Poi, certo, se sei al culmine della disperazione e per di piu' i medici ti dicono che le terapie su di te non hanno effetto, cosa fai? Vai avanti a soffrire facendole e sapendo che non hanno effetto o che hanno pochissima probabilita' di averne? O ti arrendi? E' una scelta anche quella; questa mia amica l'ha fatta; una scelta coraggiosa peraltro. Ma l'alternativa non cambia: e' solo tra curarsi e non curarsi. L'ho anche scritto in una lettera a un supplemento di "Repubblica", "Salute", in cui c'era un articolo tremendo: "Adesso vi do io la ricetta per curare il cancro", dove la marchesa Crespi, del Fai, Fondo Ambiente Italiano, raccontava: "Io ho avuto cinque volte il cancro, non ho mai fatto chemioterapia e sono guarita perche' mangio solo verdure di agricoltura biodinamica". Io mi sono molto scandalizzata, soprattutto quando ho notato che, alla fine dell'articolo, c'era l'indirizzo dell'azienda agricola dove si pratica l'agricoltura biodinamica, ovviamente della signora Crespi, e i prezzi di soggiorno per una, due, tre settimane! "Repubblica" non ha pubblicato la lettera
La stanchezza e' quella che ti blocca di piu'. Ecco, la stanchezza (la fatigue) non si vede, ma c'e' sempre nel periodo della terapia, per cui ti muovi un po' meno volentieri, viaggi meno, soprattutto ti sposti meno volentieri da casa. La casa diventa un posto fondamentale. Questo proprio per la stanchezza, che peraltro non c'e' modo di alleviare. Mentre c'e' modo di alleviare il dolore, per alleviare la stanchezza - ho gia' chiesto di tutto - non c'e' nulla. Adesso con quest'ultima terapia vado un po' meglio, ma certe chemio ti bloccano proprio: per alcuni giorni stai sdraiata a letto e non sei in grado di fare alcun movimento. Anche per questo e' utile lo psicologo oncologo, perche' in quei giorni ti sembra che non ridiventerai mai normale, pensi: "Sono cosi' stanca, sono cosi' malridotta, possibile che rientrero', che riusciro' di nuovo a fare delle cose?". Ma poi ti soccorre il ricordo del mese prima: "Se l'ho fatto il mese prima, capitera' anche adesso". E in effetti funziona.