Finanziaria 2004. Il Rapporto di Sbilanciamoci
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La manovra economica del 2004 è composta da tre provvedimenti distinti:
il Disegno di legge dal titolo "Disposizioni per la formazione del bilancio
annuale e pluriennale dello Stato (legge Finanziaria 2004)", dal decreto
omnibus "in materia di sviluppo dell'economia e di correzione dei conti
pubblici", a questa collegato, e dalla "delega al governo in materia
previdenziale" (AS 2058, già collegata alla Finanziaria dell'anno
scorso, approvata finora dalla sola Camera, e della quale il Governo sta ora
proponendo modifiche sostanziali ). Il ministro Tremonti ha dichiarato che la
riforma delle pensioni "non è parte formale della Finanziaria, ma
ne è parte strutturale. Non ci sarebbe questa Finanziaria senza quella
riforma", salvo poi dichiarare che la riforma non serve a fare cassa oggi,
ma a riequilibrare i conti domani. La riforma previdenziale è effettivamente
"parte strutturale della Finanziaria": infatti con il meccanismo degli
incentivi per ritardare l'andata in pensione e gli interventi su categorie specifiche
(come per i lavoratori esposti all'amianto e l'aumento dei contributi su lavoratori
autonomi e parasubordinati) il governo recupera soldi preziosi per coprire le
falle che si aprono a causa della sua stessa dissennata gestione. Un altro aspetto
da rilevare è che i provvedimenti più importanti si trovano nel
decreto omnibus (sul quale il governo potrebbe chiedere
in caso di difficoltà un voto di fiducia) e non nella Finanziaria: non
si capisce come molti provvedimenti previsti (come la trasformazione della Sace
e della cassa Depositi e Prestiti in SPA) rientrino nel requisito dell'"urgenza
e della necessità" del decreto. Ha dichiarato l'ex ministro Visco:
"il decreto omnibus in sostanza sostituisce la Finanziaria, riducendo al
minimo l'intervento parlamentare. la manovra di bilancio viene fatta fuori dalla
sessione di bilancio, con strumenti d'urgenza e con il Parlamento impossibilitato
a valutare".
Il quadro generale
Qual è il contesto economico generale in cui si colloca questa manovra
economica?
Partiamo dal PIL (Prodotto Interno Lordo). Se andrà bene, alla fine,
nel 2003 il PIL sarà cresciuto dello 0,5%. Per chi ha deciso di guardare
al PIL come indicatore di benessere con scetticismo, questo può non essere
di per sé grave. Ma per chi, come l'attuale governo, ha puntato tutto
su quello che Fazio, all'indomani delle elezioni del 2001, in una totale apertura
di credito al nuovo governo, del tutto inusuale per un Governatore della Banca
d'Italia, chiamava il "nuovo miracolo economico" , la cosa rischia
di essere disastrosa. All'indomani delle elezioni avevano promesso per il 2003
un tasso di crescita reale del 3,2%, fra i più alti mai registrati in
Italia; se anche si arrivasse allo 0,5%, sarebbe uno dei tassi più bassi
in assoluto.
Il rientro dal debito pubblico, che procedeva fin troppo spedito negli anni
dell'Ulivo, impedendo di destinare risorse al rilancio economico e sociale,
si è ormai arrestato, neanche gli espedienti contabili (come quello utilizzato
l'anno scorso, col cambio dei titoli detenuti da Banca d'Italia) riescono più
a mascherare questa
verità. Tremonti cerca di attribuire, come fa nel DPEF di luglio, la
bassa crescita alla congiuntura internazionale (mera sfortuna), l'inflazione
alla mancanza della banconota da un euro (colpa dell'Ulivo), il deficit e l'arresto
del processo di rientro dal debito ai buchi di bilancio che dice di aver ereditato
da Visco (sempre colpa dell'Ulivo) e agli alleati di governo, che preferiscono
la spesa pubblica alla virtù fiscale.
Si potrebbe rispondere notando che l'Italia cresce meno degli altri paesi, che
l'Italia non sembra più in grado di produrre e competere nei settori
chiave, che i grossi produttori si sono trasformati in redditieri, in perenne
ricerca di rendite di posizione da conquistare grazie ai favori della politica,
che la spesa in ricerca e sviluppo è ormai azzerata. Che ormai a tutti
i livelli (anche governativi) la crisi italiana è percepita come strutturale,
legata alla mancanza di investimenti nei settori chiave e alla mancanza di una
qualunque strategia economica sensata.
Ma c'è dell'altro. La sensazione netta che si ha confrontando fra loro
le successive previsioni dei conti per il 2003 è che si sia perso il
controllo della finanza pubblica. Laddove Visco sottostimava le entrate e sovrastimava
le spese, di modo da avere sempre risultati migliori delle attese, ora siamo
all'opposto: le entrate (salvo una tantum) sono in caduta libera, la spesa aumenta
malgrado il sostanzioso risparmio sugli interessi del debito pubblico, il deficit,
malgrado gli espedienti contabili, è a livelli preoccupanti.
L'ammontare di risorse perse è enorme. A luglio, nel DPEF si scriveva
che il peggioramento dei conti
pubblici era soprattutto dovuto all'andamento negativo delle entrate: in effetti
mancano all'appello, rispetto alle previsioni del settembre 2002, 10 miliardi
di euro. Peggio, il saldo nasconde una caduta delle entrate correnti (imposte
e contributi sociali) di quasi 16 miliardi, cui si è aggiunto nei tre
mesi successivi un ammanco di altri 1,5 miliardi. Il tutto compensato almeno
in parte dalle entrate dei condoni, grazie anche agli espedienti contabili che
hanno permesso di contabilizzarne già nel 2003 una parte destinata al
2004.
Ci vuole molto a concludere che il messaggio che è stato lanciato (anche
piuttosto esplicitamente) - le tasse le pagano solo i fessi - è stato
presto raccolto da chi può?
Si potrebbe obiettare che le entrate fiscali dipendono in parte dalla congiuntura
economica, e che la crisi ne ha provocato una naturale riduzione. Ma la sensibilità
delle entrate non è così forte da giustificare un tale peggioramento.
E poi ci sono le spese. Le spese, soprattutto in Italia, sono poco sensibili
al ciclo economico e alla crisi. In particolare, la spesa per interessi dipende
da altro, dai tassi di interesse, che si sono ridotti in maniera abnorme nell'ultimo
anno. Risultato, a consuntivo risparmieremo nel 2003 ben 9 miliardi rispetto
alle previsioni. Un bonus enorme di cui ha usufruito questo governo, dovuto
a circostanze eccezionalmente
favorevoli, che in parte si replicherà nei conti del 2004. Con 9 miliardi
di euro, 18.000 miliardi di lire, circa lo 0,7% del PIL si sarebbe potuto fare
moltissimo, si sarebbero potuti finanziare il ponte sullo Stretto, autostrade
e alta velocità, tanto per rimanere nell'ottica di governo, acquedotti,
riforma Moratti e quant'altro.
Invece, la differenza fra spesa corrente preventivata ed effettiva già
nelle previsioni di luglio aveva più che compensato il risparmio sugli
interessi. E il successivo aumento della spesa in conto capitale previsto nelle
stime di settembre (cui dovrebbe seguire l'anno prossimo una riduzione di quasi
8 miliardi - ma qui ormai
siamo nell'ingegneria finanziaria e i conti non riescono più a rappresentare
una situazione vagamente reale) porta anche la spesa a superare di molto le
previsioni iniziali.
Insomma, entrate fiscali "ordinarie" che crollano di 17,3 miliardi
nelle previsioni (tutte relative al 2003!) svolte ad un anno di distanza, spesa
che aumenta di 6,5 miliardi malgrado un risparmio generato dalla minore spesa
per interessi di 9 miliardi. Si potrebbero aggiungere le spese (obbligatorie)
del 2003 che Tremonti
si è "dimenticato" di finanziare e ha scaricato sul 2004 (2,3
miliardi) e tanto altro. Il risultato è che almeno 30 miliardi di euro,
60.000 miliardi di lire, si sono persi, spariti senza che siano serviti a qualcosa.
Intanto, i grandi investimenti infrastrutturali languono, la scuola non ha una
lira, l'università sopravvive in qualche modo, il CNR è alla bancarotta
(ma nella nuova manovra economica trovano posto anche gli scatoloni vuoti del
"Collegio d'Italia" e dell' "Istituto Italiano di Tecnologia"),
i contratti non sono stati rinnovati (e non ci sono soldi per farlo), il welfare
langue e il Governo non è stato in grado di trovare neanche uno dei
700 milioni su cui si era impegnato con i sindacati firmatari del Patto per
l'Italia.
La questione previdenza: falsità, omissioni ed errori sulle pensioni.
Nei rapporti precedenti di Sbilanciamoci, suggeriamo di andarsi a rileggere
le quindici pagine che avevamo dedicato alla previdenza nel rapporto del 2002,
scritto pochi mesi dopo l'entrata in carica del governo Berlusconi. Esordivamo
così: "La previdenza sarà sicuramente uno dei temi centrali
dell'azione del governo nel corso della legislatura", segnalavamo le contraddizioni
all'interno della destra (senza peraltro tacere di quelle a sinistra) e affrontavamo
di petto, mostrandone l'inconsistenza, tre luoghi comuni continuamente
riproposti dai fautori della liquidazione della previdenza pubblica:
- che la spesa pensionistica sarebbe eccessiva e fuori controllo;
- che il livello dei contributi sarebbe eccessivamente elevato, il che minerebbe
l'efficienza economica e ostacolerebbe la creazione di nuovi posti di lavoro;
- che lo sviluppo della previdenza integrativa permetterebbe di assicurare pensioni
più elevate, stimolando la formazione di capitale e la crescita economica.
Concludevamo che il nuovo governo avrebbe fatto riferimento ad un modello che
riduce il sistema pensionistico pubblico ad assistenza, che si propone di assicurare
solo un livello minimo, molto contenuto,
di reddito agli anziani. Coloro che potranno permettersi ulteriori contributi
alla previdenza integrativa potranno poi integrare la pensione pubblica ricorrendo
ai fondi a gestione privata. Per i più invece, in particolare per quanti
entrano adesso nel mercato del lavoro con contratti a contribuzione bassa -
parasubordinati e gli stessi dipendenti, se il progetto di decontribuzione andrà
in porto - si aprirà la prospettiva di un sempre maggiore impoverimento
negli anni della vecchiaia. Infine, formulavamo le nostre proposte, che poggiavano:
- sulla difesa del ruolo del sistema pensionistico pubblico;
- sulla constatazione che il sistema previdenziale italiano ha già subito
profonde ristrutturazioni e queste hanno permesso di stabilizzare la spesa,
cosicché nessun intervento strutturale sul sistema pensionistico è
più giustificabile con esigenze di controllo degli esborsi;
- sulla constatazione che la spesa complessiva italiana per il welfare è
più bassa degli altri paesi europei (lo stesso governo italiano ammette
che la spesa sociale in settori chiave come l'edilizia popolare è "trascurabile")
e il nostro sistema troppo poco sviluppato anche dal punto di vista dell'efficienza
economica.
Per noi, la crisi demografica andava affrontata in primo luogo con politiche
di sviluppo, riassorbendo la disoccupazione, aumentando l'occupazione (anche
grazie ai flussi migratori), aumentando i tassi di attività, soprattutto
femminile. Anche assumendo un'ottica prettamente ed esclusivamente produttivistica,
però, a tal fine era indispensabile sviluppare gli istituti del welfare,
a partire dagli asili nido per arrivare ad una nuova legge sull'equo canone
(che addirittura permetterebbe alle imprese di contenere le pressioni salariali,
riducendo il peso della rendita sui ceti produttivi).
Proponevamo anche di rafforzare i trattamenti pensionistici di base e garantire
a tutti i lavoratori il versamento di adeguati livelli di contributi, ma anche
di risparmiare gli incentivi fiscali alla previdenza integrativa: il suo decollo
non deve avvenire a scapito del sistema pubblico e non deve essere finanziato
con risorse della collettività.
Il governo di destra si è lanciato sulla previdenza nel senso che avevamo
previsto. Nel 2002 ha portato avanti un progetto pensionistico già in
gran parte liquidatorio del sistema pubblico, ora si propone di peggiorare ulteriormente
il senso della propria proposta con interventi disordinati e punitivi, finalizzati
al solo
scopo di ridurre la spesa previdenziale e creare margini per la successiva riduzione
del costo del lavoro.
La delega previdenziale, già approvata dalla Camera in prima lettura,
contiene innanzitutto una mina a tempo per il sistema pensionistico pubblico,costituita
dalla decontribuzione: la riduzione da 0 a 5 punti dei contributi sociali sui
nuovi assunti provocherà, in ragione del meccanismo di finanziamento
della spesa pensionistica attraverso i contributi dei lavoratori (sistema a
ripartizione) un buco di bilancio degli enti pensionistici di ammontare crescente
nel tempo, mentre ridurrà ulteriormente le prestazioni pensionistiche
dei giovani, già sostanzialmente ridotte dalle riforme pensionistiche
precedenti (salvo aumentare il deficit pubblico strutturale se verrà
mantenuta - ma non lo sarà - la promessa di non ridurre in futuro le
prestazioni pensionistiche). La delega prevede poi il passaggio di fatto obbligatorio
del TFR (le liquidazioni) dei lavoratori dipendenti alla previdenza integrativa,
che li costringerà a privarsi di una componente importante del salario
per rischiare anche loro i propri averi sui mercati finanziari, obbligatoriamente
o, al più, col silenzio assenso, se verrà accettata la contro
proposta dei sindacati confederali, purtroppo appiattiti sulla scelta di puntare
tutto sulla previdenza privata. Infine, la delega pensionistica del governo
prevede l'aumento dei contributi su lavoratori autonomi e parasubordinati, cosa
in sé giustificata dalla finalità di off r i re loro prestazioni
migliori (ed infatti un progressivo aumento delle aliquote era già previsto
dalla normativa vigente), ma che nasconde in realtà soprattutto la volontà
di far cassa anche nell'immediato.
Giudicata dai lavoratori deflagrante, ma da alcuni settori della destra (e anche
da alcuni del nostro centro sinistra) troppo morbida, dato che non tagliava
la spesa pensionistica nell'immediato e non la riduceva abbastanza nel futuro,
la proposta di riforma è ora ulteriormente peggiorata dalla serie di
interventi spot che il governo ha varato come emendamenti alla stessa. I nuovi
interventi dovrebbero da un lato stimolare il rinvio del pensionamento attraverso
incentivi pagati dal lavoratore stesso (continui a lavorare senza contributi,
che ti versiamo in busta paga, ma senza che la tua pensione aumenti), dall'altro
sostanzialmente eliminare dal 2008 le pensioni di anzianità e costringere
tutti a lavorare per 4-5 anni in più, premessa ad una successiva ulteriore
riduzione dei contributi pensionistici e delle pensioni stesse. Non solo, ma
fissando l'età di pensionamento a 60 anni per le donne e a 65 per gli
uomini, la nuova proposta mina un altro dei punti centrali della riforma pensionistica
del 1995, che prevedeva la flessibilità nella scelta dell'età
di uscita (a partire dai 57 anni) in cambio di corrispondenti riduzioni dell'ammontare
della pensione.
Per giustificare l'accelerazione sulla riforma pensionistica, il governo ha
dovuto smentire se stesso (verifica pensionistica del 2001 e Rapporto di strategia
nazionale sulle pensioni del 2002) e gli organismi internazionali (Ocse e Unione
Europea), affermando che la spesa pensionistica è insostenibile e che
è l'Europa ad imporci la riforma. Ha dunque drammatizzato la situazione,
con l'appello di Berlusconi a reti unificate, che ha rappresentato una situazione
molto lontana dal vero. Il sistema non è allo sfascio, malgrado tutto
quello che stanno effettivamente facendo per portarcelo (quanti non si precipiteranno
in pensione appena possibile, a fronte delle ripetute minacce di blocco dei
pensionamenti e di modifiche alle modalità di calcolo della pensione?).
I più accorti nel governo, che sanno benissimo che la spesa pensionistica
è sotto controllo, se la sono presa col debito, eredità del centro-sinistra,
che imporrebbe comunque di ridurla . scordandosi del fatto che sugli interessi
sul debito pubblico quest'anno abbiamo risparmiato 9 miliardi di euro rispetto
alle previsioni, e molti ne risparmieremo ancora nel 2004. Visto però
che la propaganda è la propaganda, e che l'adagio "la spesa pensionistica
è insostenibile" è continuamente riproposto come
dato di fatto, riprendiamo, con qualche minimo aggiornamento, quanto avevamo
scritto sul tema nel 2002. Non senza ricordare, prima, che malgrado Berlusconi
abbia praticamente giurato in TV di essere il
primo a fare la riforma pensionistica in Italia, ben tre riforme, strutturali,
pesanti e sostanziali sono già state realizzate, ad opera del centro-sinistra
nel 1992 (riforma Amato), 1995 (riforma Dini), 1997 (riforma Prodi).
Nel passato il sistema pensionistico è stato gravato da norme pensionistiche
eccessivamente generose e dall'utilizzo degli istituti previdenziali come ammortizzatori
sociali, che ha fatto sì che su di esso si siano scaricati i costi dei
prepensionamenti e del riconoscimento di diritti pensionistici minimi a categorie
che non
avevano potuto contribuire in maniera adeguata. La spesa pensionistica è
poi iniziata a crescere a tassi sostenuti quando hanno iniziato a maturare l'età
per la pensione generazioni numerose e che avevano maturato diritti pensionistici
elevati. Tale crescita si sarebbe ulteriormente accentuata con gli anni, e la
spesa
avrebbe raggiunto livelli difficilmente sostenibili (Graf. 1, tratto da Italy's
convergence towards EMU, Ministero del Tesoro, 1998) a causa del processo di
invecchiamento della popolazione, italiana, che, secondo i dati UE, farà
aumentare il rapporto fra anziani (sopra i 65) e adulti (fra 20 e 64 anni) fra
il 2000 e il 2050 dal 28,8% al 66,85%.
Il fatto di sperimentare prima degli altri paesi l'aumento della spesa pensionistica
e la crisi demografica, in una situazione di finanza pubblica già di
per sé molto problematica, ha tuttavia spinto l'Italia ad essere fra
le prime ad intervenire, con le tre citate riforme degli anni `90, per stabilizzare,
con successo, l'andamento
del rapporto fra spesa pensionistica e PIL. Già nel 1998 si calcolava
che le riforme avrebbero sostanzialmente permesso di eliminare la cosiddetta
"gobba della spesa pensionistica". Il dato di fatto è dunque
inequivocabile. La "gobba" tanto decantata è scomparsa con
le riforme degli anni '90, rimane al più una gobbetta quasi impercettibile,
attorno al 2030, facilmente gestibile e sulla quale non sarebbe probabilmente
il caso di mettere così tanta enfasi con trenta anni di anticipo. a meno
che l'obiettivo vero non sia la stabilizzazione della spesa pensionistica nel
2033 quanto, piuttosto, la sua riduzione nell'immediato futuro, che aprirebbe
spazi da un lato per la riduzione dei contributi pensionistici e del costo del
lavoro delle imprese, dall'altro per il d o w n s i z i n g del sistema pensionistico
pubblico a favore della previdenza privata.
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