"Trasformare gli obiettivi civili in militari"
Truman prese la decisione di utilizzare le armi atomiche, e il 6 agosto
del 1945 Hiroshima fu bombardata. Poche settimane prima vi era stato l'esperimento
riuscito e condotto dagli scienziati di Los Alamos. La decisione di Truman
si basava su alcuni presupposti:
- se la guerra fosse continuata ci sarebbe stato un lungo periodo ancora
di morti da entrambe le parti, quindi anche da parte americana, e il numero
dei morti sarebbe stato incalcolabile;
- la guerra non sarebbe finita se non con un atto importante, un evento
distruttivo, dimostrativo che il potere e la potenza erano tutte da una
parte;
- la necessita' di vincere la gara contro il tempo nei confronti di altre
potenze - ovvero l'Unione Sovietica, anche se non veniva nominata -, Germania
e Giappone, nella costruzione di armi micidiali.
Veniva dichiarato che gli obiettivi su cui concentrare il bombardamento
atomico erano obiettivi militari, quindi avrebbero distrutto il potenziale
bellico del nemico e non fatto vittime civili.
Tutti i presupposti dichiarati erano falsi.
Si dimostrava, ancora una volta, che la prima vittima di una guerra e'
la verita'.Viene alterata con degli obiettivi dichiarati e che non sono
reali. L'Unione Sovietica non veniva citata ma in realta' l'obiettivo
maggiore era quello di potere concludere il conflitto in condizione di
forza dimostrata, avendo cosi' in mano la possibilita' di dettare legge
al tavolo della pace. Nella riflessione sul paradigma della produzione
sociale di vicinanza e della produzione sociale di lontananza, ci interessa
la trasformazione di un obiettivo civile in obiettivo militare. Il fatto
che Hiroshima e, due giorni dopo, Nagasaki fossero bombardate significava,
secondo la dichiarazione ufficiale, distruggere obiettivi militari. La
realta' era ben diversa: veniva colpita la popolazione civile e le due
citta' di Hiroshima e Nagasaki non avevano caratteristiche di strutture
militari ma erano citta' normali, con il loro abitanti e le loro attivita'
che, in tempo di guerra, convivevano con delle strutture militari, ma
non tali da giustificare l'affermazione che fossero obiettivi militari,
funzionale alla loro distruzione.
Trasformare pero' un obiettivo civile in obiettivo militare liberava la
possibilita' di utilizzo di un'arma nuova il cui effetto non era ancora
dimostrato sugli umani. Vi erano delle cautele da prendere: i piloti dovevano
azionare il dispositivo per il bombardamento tenendosi ad una distanza
di sicurezza per non subire le conseguenze della loro azione. I piloti
dovevano azionare un dispositivo di estrema semplicita', e questo richiama
le riflessioni di Hans Jonas circa quello che lui defini' il principio
responsabilita'.
La responsabilita' e' lontana. "E' noto che gli uomini che agiscono in
seguito a comandi sono capaci delle azioni piu' orribili. Quando l'autorita'
che li comandava viene abbattuta e li si costringe guardare da vicino
cio' che hanno fatto, essi non si riconoscono. 'Io non ho fatto questo'
dicono, e non e' affatto vero che siano sempre consapevoli di mentire"
(E. Canetti, 2004, p. 401).
Per Jonas, il principio responsabilita' e' necessario in un tempo in cui
le tecnologie avanzate permettono di produrre una trasformazione - in
questo caso una distruzione - di enorme portata con il minimo sforzo.
Banalizzando, basta premere un bottone per produrre un effetto enorme,
di proporzioni imparagonabili con lo sforzo muscolare richiesto per l'attivazione.
Anche premere il grilletto di un fucile puo' essere considerato un minimo
sforzo che produce un effetto micidiale; ma i 200.000 morti istantanei
per le bombe atomiche dei bombardamenti dell'agosto 1945 non hanno avuto
bisogno di 200.000 colpi di fucile. Erano bastati due soli gesti, uno
per ognuna delle due bombe. Non c'erano stati 200.000 gesti.
Vi era stato un gesto liberato da ogni scrupolo, avendo dichiarato la
sua necessita' tecnica. Una tecnica della politica della guerra, avendo
"trasformato" degli obiettivi civili in obiettivi militari.
Anni dopo, il 5 febbraio 2003, il Segretario di Stato degli Usa, Colin
Powell, dichiaro' all'assemblea delle Nazioni Unite di avere in mano le
prove che il governo dittatoriale iracheno di Saddam aveva armi segrete
tali da rendere inevitabile e giusta la guerra. Il colonnello Lawrence
Wilkerson dichiaro' in seguito (cfr. "La Stampa" del 21 agosto 2005) che
quel giorno rappresenta il punto piu' basso della sua vita. Il colonnello
Wilkerson, amico da sempre di Colin Powell, era a capo del suo staff all'epoca
del discorso. Aveva invano avvisato che non vi erano prove, e che l'unica
fonte che attribuiva a Saddam la realizzazione di armi micidiali era in
realta' assolutamente inattendibile. La menzogna, mescolata alla verita'
del fatto che Saddam fosse un tiranno, permetteva ancora una volta di
trasformare un obiettivo da civile, e politico, in militare, e bellico.
E di metterlo cosi' in mano ai tecnici giusti, capaci di fare la guerra.
Hans Jonas (1990, 1979) ha sollevato il problema, di ordine filosofico
ed etico, di una tecnologia che permette di ottenere dei massacri con
il minimo sforzo. La sua preoccupazione era anche legata ad una trasformazione
dell'habitat che ha effetti visibili e constatabili solo dopo diverse
generazioni, e di conseguenza permette di avere delle ragioni tecniche
per agire in un certo modo in un momento della storia, avendo lontano
nel tempo un effetto le cui valenze sembrano poco prevedibili se non per
ipotesi. Confinando l'esplorazione ipotetica (A. Semerari, 1991) ai passatempi
dei poeti e dei sognatori, le ragioni tecniche assumono la fisionomia
di realismo.
Certamente la perfezione delle tecniche permetterebbe di proiettare su
uno scenario lontano gli effetti di una scelta tecnica di scarso sforzo
fisico. Ma la proiezione su scenari lontani a volte e' manipolata per
la necessita' del momento: si giudica utile adesso fare un gesto che lontano
nel tempo - non saremo piu' presenti - otterra' dei risultati forse nocivi.
E quel "forse" - che lascia nell'incertezza di un domani remoto, per qualche
cosa che potrebbe non essere cosi' incerto - viene messo a confronto con
la certezza dell'attuale.
La ragione del collegamento con Jonas e' nella possibilita' che la lontananza
produca un fenomeno di dimensione sociale che toglie al singolo la responsabilita';
e' produzione sociale di lontananza, e permette di realizzare un'azione
i cui effetti saranno lontani nel tempo. Hiroshima e Nagasaki sono, a
questo proposito, esemplari: la sottolineatura della trasformazione degli
obiettivi da civili in militari, permette di agire nell'immediato (vicino),
avendo come risultato un'azione di morte.
Nel tempo (lontano) si sviluppano effetti che possono essere considerati
secondari, con un cinismo che e' tipico dei gerghi tecnici: un alto numero
di leucemie, di malformazioni, di contaminazioni nell'umanita' colpita
dalle radiazioni che si prolungano per molto tempo. La doppia produzione
sociale di lontananza permette di compiere un'azione senza assumerne la
responsabilita' che sarebbe ineludibile nella produzione sociale di vicinanza.
Una data, nel mondo a cui apparteniamo, diventa punto di riferimento inevitabile:
l'11 settembre 2001, New York le Torri Gemelle, con tutte le conseguenze
- gia' brevemente ricordate e che vanno completate con la connessione
data per "certa" fra Saddam e Bin Laden - di scelte compiute dal presidente
degli Stati Uniti e che hanno coinvolto l'intero mondo nella guerra senza
linea definita di "scontro di civilta'" che e' il terrorismo.
Questo ha accelerato e diffuso la trasformazione di obiettivi civili in
militari. Siamo arrivati ad una strana e tragica situazione in cui il
singolo individuo e' trasformato da obiettivo civile - eventualmente perseguibile
secondo i normali codici, civile per certe responsabilita' e penale per
altre eventuali - in obiettivo militare, oggetto di una possibile azione
di guerra. Anche in questo caso l'interesse della nostra riflessione e'
nei confronti della produzione sociale di lontananza, necessaria per questa
riconversione degli obiettivi.
E' evidente che non si puo' fare un'operazione del genere prescindendo
da quelli che possono essere i legami stabiliti con la rete sociale: il
compagno di lavoro, la persona vicina di casa, il negoziante, le tante
relazioni possibili che non possono essere indagate una per una e che
potrebbero costituire qualche nodo di resistenza nel compiere con disinvoltura
delle azioni militari riferite a dei singoli soggetti.
L'operazione e' compiuta attraverso i mezzi di informazione che hanno
predisposto, quasi senza saperlo, il terreno perche' l'operazione si possa
svolgere efficacemente.
Da tempo viene rilevato, da parte di tutti coloro che in qualche modo
se ne occupano sia come studiosi che come commentatori, che i mezzi di
informazione hanno preso l'abitudine di collegare alcuni episodi di vita
delinquenziale, cronaca nera, violenza, alle etnie; cosi' come hanno fatto
nell'ambito di una geografia piu' ridotta, dell'Italia, riferendosi ad
alcune tipologie regionali per cui i rapimenti vengono associati alla
tipologia sarda, le estorsioni mafiose a quella siciliana, eccetera, in
un'approssimazione stereotipata possibile unicamente nella lontananza.
Le continue evidenziazioni delle etnie permettono di creare l'elemento
minaccioso attraverso immagini stereotipate. Non sappiamo distinguere
un marocchino da un algerino o da altre provenienze nordafricane, considerando
tutti in uno stereotipo che e' stato a lungo riassunto nell'appellativo
"marocchino". Soprattutto in certe zone d'Italia il "marocchino" era gia'
presente per indicare chi veniva dal profondo sud dell'Italia.
La possibilita' di utilizzare uno stereotipo c'era. Ed era un elemento
quasi innocente, parte di una lunga storia culturale. D'altronde, lo stereotipo
e' nelle professioni, e' nella vita civile e a volte costituisce un primo
contatto con l'altro che cosi' viene letto attraverso un'immagine che
puo' confermare le nostre attese e in cui lo collochiamo. Il contatto,
e la produzione sociale di vicinanza, permettono di non fermarsi qui e
di andare oltre. A meno che...
Abbiamo a lungo avuto uno stereotipo minaccioso nella figura dell'"ebreo".
Abbiamo tuttora uno stereotipo minaccioso nella figura dello "zingaro".
Rischiamo di aumentare gli stereotipi con le presenze di altre culture.
Abbiamo lo stereotipo del "rumeno", dell'"albanese", ecc. ecc.
Questi stereotipi, associati all'attribuzione di misfatti, creano la possibilita'
di compiere il passaggio da obiettivo civile a militare; e la creazione
di una lontananza anche nei confronti del vicino di casa. Il gioco e'
fatto. E la possibilita' che nei confronti del vicino di casa vengano
attuate delle azioni militari diventa scontata. E' prodotta da un doppio
effetto: l'allontanamento, che ci fa sentire lontani anche quando abbiamo
distanze molto ridotte, magari solo una parete; e la perdita di ogni competenza
per interessarci del vicino di casa, che e' per gli addetti ai lavori.
E' compito di chi si occupa delle azioni militari occuparsi del tale soggetto.
Meglio: qualora chi e' addetto alle azioni militari si occupi di quel
soggetto, il vicino lascia fare, non ha nulla da dire anzi cerca di prendere
ancora di piu' le distanze, sentirsi ancor piu' lontano, al sicuro rispetto
all'azione militare. Umanamente e' del tutto comprensibile: la minaccia
di essere coinvolti in un'azione militare suscita in noi la necessita'
di porsi al riparo, di cercare rifugio.
2. "Trasformare gli obiettivi umani in tecnico-sanitari" Questa e' una dinamica molto interessante. Ma perche' ce ne occupiamo?
Per chiarezza dobbiamo dire che dall'inizio di questa argomentazione abbiamo
pensato che questa situazione, con le dovute differenze, e' analoga a
una lunga tradizione che ha coinvolto le persone disabili. Non parliamo
di obiettivi militari, ma di obiettivi tecnici, sanitari, assistenziali.
Trasformiamo un soggetto civile in un soggetto per addetti ai lavori a
cui devono rivolgersi unicamente i tecnici. Chiunque sia presente nel
contesto, lascia lavorare i tecnici anche qualora ritenesse che se facessero
a lui, al soggetto che rimane spettatore, cio' che viene fatto al soggetto
disabile, rifiuterebbe e si rivolgerebbe forse alla magistratura per impedire
che vengano fatte alcune azioni. Ma se tali azioni vengono fatte su un
soggetto disabile non c'e' nessuna ragione di protestare: gli addetti
ai lavori sanno e se non sanno e' colpa loro. In definitiva: di che cosa
andiamo ad impicciarci?
E' una condizione su cui conviene fare un ulteriore ragionamento. La situazione
che noi stiamo vivendo ha prodotto un certo numero di associazioni: di
familiari, degli stessi disabili, a volte associazioni nate come associazioni
di familiari e nel tempo trasformate in associazioni di disabili. Alcune
sono con un carattere che viene definito storico, nel senso che hanno
ormai una lunga tradizione e sono conosciute un po' ovunque. Altre sono
piu' giovani, nuove, con nuovi obiettivi, con motivi di rappresentanza
diversi, come e' giusto in un rinnovamento culturale ampio e dinamico.
Le associazioni potrebbero svolgere il ruolo che in altri campi svolgono
le organizzazioni dei consumatori, vale a dire un ruolo di sorveglianza
perche' il commercio, soprattutto i commercio ma anche l'organizzazione
dei servizi e del mercato nel senso piu' ampio del termine, rispetti i
diritti dei fruitori e non speculi, costringendo le persone a subire angherie
occulte o palesi. Un'associazione che si prenda cura dei diritti dei disabili
diventa quindi un interlocutore interessante per coloro che hanno dei
compiti di responsabilita' politica, amministrativa, professionale.
Questo e' un elemento di grande importanza e quindi non possiamo ignorare
o considerare le associazioni unicamente per quella rappresentazione un
po' folkloristica che a volte anche i grandi scenari delle informazioni,
e in particolare le televisioni, ci fanno credere che siano. Invitando
in trasmissione un membro di un'associazione e attribuendo un'immagine
che definiamo in breve pietistica, finiscono per creare una cattiva informazione
su un ruolo importante. Non e' tanto quello della litigiosita' diffusa,
presente nella microconflittualita' che si e' estesa in maniera impressionante
in ogni campo; e' piuttosto l'attivita' promozionale: capacita' di promuovere
delle esperienze positive nella societa'. Per quei difetti gia' illustrati,
legati a visioni fortemente stereotipate - e quindi "lontane" - la presenza
di componenti di associazioni in momenti di grande informazione e' piu'
legata al sopruso subito, e al singolo caso, frantumando la realta' sociale
e non promuovendo un diritto di cittadinanza oltre il caso. Al piu', il
singolo viene promosso arbitrariamente a rappresentante di sconosciuti
inconsapevoli. Il piu' delle volte, il singolo caso puo' farcela, e gli
sconosciuti rimangono tali.
Il "caso" produce una vicinanza. Mediatica. Non reale. Contribuisce a
creare una falsa idea di vicinanza. In realta' e' un mezzo per la produzione
sociale di lontananza. Permette che soggetti "lontani" vengano considerati,
secondo elementi di pregiudizio mescolati a legittime ignoranze, come
incapaci, e parassitari. Se fossero avvicinati, avverrebbe la scoperta
che sono capaci di cittadinanza attiva. E di pagare le tasse, contribuendo
al benessere e all'organizzazione sociale in tutto un paese.
La situazione delle associazioni ha una possibilita' di avviare una politica
partecipativa, se non viene sabotata. Puo' avvenire con una distribuzione
di piccoli favori, di piccole e anche grandi risorse. E' gia' accaduto
che le associazioni che avevano piu' potere di rappresentanza, non numerica,
abbiano ottenuto risorse ingenti rispetto alle altre.
Le associazioni hanno la possibilita' di fare una scelta non una volta
per tutte ma quotidiana: possono contribuire ad un diritto di cittadinanza
diffusa, con strutture organizzate socialmente, per permettere a tutti,
compresi quindi coloro che sono rappresentati dall'associazione, di vivere
con una qualita' degna; oppure diventare corporazioni, che riguardano
solo gli affiliati, permettendo miglioramenti solo per gli associati.
E questi potranno esserlo per convinzione o per i vantaggi che procura.
E' una situazione critica conosciuta anche, ad esempio, dai sindacati.
Il sindacato di categoria, tutelando giustamente i suoi iscritti, rischia
di trascurare regole fondamentali, che riguardano, per esempio, la promozione
dei diritti di tutti senza dimenticare le competenze, e trasformando dei
diritti in privilegi. E dove c'e' privilegio c'e' anche sopruso.
E' una situazione difficile e delicata. Non e' giusto giudicare da una
posizione di comodo condizioni che ci riguardano fino ad un certo punto.
E' per questo che utilizziamo il paradigma della produzione sociale di
vicinanza e della produzione sociale di lontananza: pensiamo quanto sia
importante per chi deve tutelare i diritti di un gruppo produrre vicinanza
a condizioni diverse, evitando di autocentrare il gruppo sulla propria
situazione. Diversamente le condizioni in cui si produce la tutela diventano
conflittuali per altri che in altre situazioni vedono allontanarsi risorse
senza capire. O capendo che le risorse arrivano non seguendo la logica
dell'analisi dei bisogni, ma quella piu' efficace, apparentemente, della
vicinanza ai poteri. Apparentemente: creano quella conflittualita' gia'
indicata, e che impegna una parte delle stesse risorse per difendersi;
e crea subordinazioni ai poteri e allontanamento dalle competenze. I passaggi
sono generalmente sotterranei e non sono cosi' chiari e trasparenti e
quindi non creano dei sensi di colpa o dei conflitti cosi' eclatanti.
Quando vi sono delle condizioni per cui la resistenza ad un cambiamento
e' legata ad una propria condizione di vita, in qualche modo tutelata
dal fatto che esistano delle possibilita' di lavoro, e' piu' che evidente
che la cancellazione di un lavoro diventa estremamente problematica. E'
la condizione che si e' verificata nel superamento dei grandi istituti.
La cancellazione degli istituti voleva dire rivedere la condizione di
lavoro e in qualche caso significava produrne la cessazione. Di qui la
necessita' di far capire le ragioni e di capire la dinamica di cambiamento.
Non e' pero' sufficiente. La comprensione dei valori ideali e la constatazione
quotidiana dell'insufficienza di risorse personali per tirare avanti non
puo' produrre un senso di appagamento e di tranquillita', ma al contrario
rabbia e resistenza al cambiamento. Ed e' li' che le tutele diventano
molto importanti. La resistenza, legittima, va interpretata, per costruire
una negoziazione che permetta un cambiamento senza perdita. Allo stesso
modo, le associazioni hanno bisogno di modificare delle condizioni di
vita in modo tale che la qualita' della vita migliori per tutti.
Non e' sempre facile perche' molte delle situazioni a cui facciamo allusione
vivono grazie al fatto che la tutela produce affiliazione e quindi siamo
in una condizione di circolo vizioso: avendo tanti affiliati, occorre
assicurare loro la possibilita' di essere tutelati. Uno studioso e praticante
della terapia sociale - Diego Napoletani (1984) - ha coniato l'espressione
"delega paradossa". L'espressione e' collocata in un'epoca ben definita,
caratterizzata proprio dalla chiusura degli istituti e dall'integrazione
di persone disabili nei loro contesti di vita. Indica la delega che viene
data ai tecnici perche' si prendano cura di un soggetto particolare; i
tecnici svolgono paradossalmente il loro compito, restituendo al contesto
il soggetto.
La delega paradossa puo' essere ripresa con un senso piu' ampio, avendo
una funzione di cambiamento importante. Le associazioni possono partire
da situazioni in cui il singolo soggetto, ad esempio una famiglia, da'
delega per una protezione particolare o speciale nei confronti di un membro
della famiglia stessa. La delega paradossa puo' sviluppare una capacita'
dialogica che permetta al soggetto famiglia di maturare una convinzione
diversa dall'esclusione. E il rapporto tra coloro che sono collegati dallo
stesso problema puo' avere una funzione dinamica e non solo protettiva.
Diventa piu' complicato se la delega viene esercitata come una protezione-scudo,
come un'armatura che permetta alla singola famiglia i contrasti e di avere
questa sorta di protezione costituita dall'associazione, da una struttura
istituzionale o altro.
La crescita deve essere operata accettando il punto di partenza e attivandolo
verso un'altra prospettiva. Lo strumento del dialogo e' privilegiato.
La dimensione di reciprocita' favorisce un processo di empowerment collettivo
in cui anche il soggetto che guida un certo disegno apprende dalle situazioni
che deve curare.
E continua la produzione sociale di vicinanza in cui l'elemento vicinanza
diventa allargamento di possibilita' e di opportunita'. Cio' che il singolo
operatore potrebbe conoscere attraverso una visione stereotipata, si moltiplica
in conoscenze piu' precise, la possibilita' di rivedere lo stesso modello
di conoscenza in un'operativita' complessa.
"Trasformare gli obiettivi organizzativi in affaristici" La metafora della rete neurale puo' far capire l'importanza di un
progetto culturale in cui, nella rete, vi sono le sinapsi. Senza le sinapsi
i contrasti diventano immediatamente paralisi. In una societa' complessa,
vi sono serie possibilita' di paralisi se non curiamo i mediatori-sinapsi.
Ma questa necessita' puo' essere trasformata in affare, o meglio in affarismo.
L'estate 2005 ha messo in luce questo aspetto attraverso un tema insolito
in relazione a quello che stiamo trattando, confermandoci che il nostro
argomento e' collegabile all'intera realta' nella sua piu' vasta articolazione.
E' il calcio e la sua crisi economica. Diverse squadre di calcio si sono
trovate in difficolta', e alcune non hanno avuto le carte in regola per
la normale iscrizione al campionato. Una di queste e' stata il Torino.
E un bel giorno, i giornali hanno rivelato che un possibile acquirente
della societa' avrebbe potuto essere "il re degli infermieri".
Con una disponibilita' di investimento che i giornali hanno indicato con
cifre molto elevate che permettono fideiussioni e acquisto di una maggioranza
di azioni, un signore di 41 anni, laureato in psicologia, si presenta
come un imprenditore singolare: importa migliaia di infermieri dall'Est
Europa. Il suo percorso sembra sia passato dalla gestione di un paio di
comunita' residenziali per il recupero di tossicodipendenti alla gia'
citata attivita'. E tutto questo deve aver permesso a una persona giovane
di diventare in poco tempo un signore con ampie disponibilita' economiche
e finanziarie.
Dobbiamo forse ringraziare il calcio e la sua crisi per averci messo sotto
gli occhi un fenomeno che merita qualche riflessione, oltre che non poche
domande.
La prima considerazione riguarda il fatto che la societa' organizzata
con mediatori (le sinapsi) e' davvero una necessita', e c'e' gia'. Non
e' una nostra invenzione, magari viziata dal fatto che ci interessiamo
e ci occupiamo di problemi specifici particolari. Questo potrebbe essere
considerato un limite. E le ragioni potrebbero anche sembrare buone: in
definitiva, i soggetti di cui ci interessiamo hanno bisogno di aiuti,
che assomigliano e possono essere scambiati per mediatori.
La lontananza rispetto ai disabili, prodotta socialmente, esiste. Vorremmo
dire: esiste ancora. Con la speranza che sia un fenomeno in corso di estinzione.
Ma non e' facile. E la lontananza permette di considerare il tema delle
persone disabili come separato, di una categoria. I problemi delle disabilita'
sono di una categoria speciale e separata. Se noi parliamo di societa'
delle mediazioni organizzate e' perche' siamo portati a vedere nelle necessita'
di una parte (i disabili) le necessita' di tutti.
Ma abbiamo capito che la societa' organizzata con mediatori (le sinapsi)
e' una necessita', e c'e' gia'. Non ha un progetto politico-culturale
fondato su valori di equita' e giustizia. Che si possono tradurre in termini
piu' pragmatici: nei bilanci delle amministrazioni pubbliche, i bisogni
delle persone disabili sono separati e non integrati alle necessita' di
sviluppo e cura strutturali e infrastrutturali.
Questo permette di ragionare in termini di riduzione della spesa anche
attraverso i meccanismi degli appalti. Le gare di appalto, al di la' di
criteri di qualita' che sembrano sempre appartenere alla sfera dell'opinabile,
hanno certezze nei numeri. E quelli della ragioneria contabile sono sicuri.
Questo e' un problema e un rischio che puo' mettere in forse la nascita
di un progetto culturale e politico, riducendolo ad un adattamento alle
ragioni degli affari.
La vicenda calcistica ci permette di sapere che vi sono realizzazioni
finanziarie di rilevo collegate alle necessita' di aiuto ed alle mediazioni.
Nascono domande che non hanno risposta documentata, ma solo inquietanti
sospetti. Vi e' il rischio che la solidarieta' ed i servizi socio-assistenziali
possano diventare coperture per attivita' d'affari e affarismi. Ancora
una volta, a scapito delle competenze, che esigono rigore e trasparenza.
Il ritardo di alcune professioni "di aiuto" (ad esempio: l'educatore sociale)
e' collegabile a questo problema. E' un po' come per il lavoro dei clandestini:
tutti dichiarano severita'; ma i clandestini permettono guadagni. Cosi'
certe professioni: finche' rimangono senza un profilo preciso, senza uno
statuto di competenze, senza una strutturazione che ne permetta l'esercizio
per l'intera vita lavorativa, permettono affari a soggetti istituzionali
in grado di offrire servizi a costo stracciato. Gli interessi mediatici
- che sono altri affari - tengono i riflettori accesi su vicende come
quella ricordata. Ma per illuminare la questione calcistica. Se questa
si risolve, il resto non conta. Noi ci terremmo che contasse, per vederci
chiaro. E soprattutto per alimentare la volonta' di un progetto politico
e culturale di societa' dei mediatori organizzati e competenti, basata
su equita' e giustizia.
Note bibliografiche E. Canetti (2004, 1960), Massa e potere, Milano, Adelphi
H. Jonas (1990, 1979), Il principio responsabilita', Torino, Einaudi
A. Semerari (1991), I processi cognitivi nella relazione terapeutica,
Roma, Carocci (gia' La Nuova Italia Scientifica - Nis)
Napoletani (1984), Al di la' dell'individuo, "Ruolo Terapeutico", 36,
pp. 20-26