Articolo tratto da PROSPETTIVE ASSISTENZIALI n. 148–2004 www.fondazionepromozionesociale.it I costi della vecchiaia Luigi Maria Pernigotti - Direttore Dipartimento Lung’assistenza
e Anziani, ASL2-Torino.
E’ opinione corrente che la parte predominante della
spesa della sanità sia dedicata all’assistenza delle persone anziane e
che i costi della sanità aumentano in proporzione all’invecchiamento della
popolazione.
Ne consegue che nell’immaginario collettivo, il vecchio e la sua vecchiaia
hanno la colpa di essere una parte in causa nella congiuntura economica
del mondo contemporaneo, in particolare nei paesi occidentali, ove l’invecchiamento
della popolazione raggiunge i valori più elevati.
Se pur vero è che le spese per la sanità, negli stati industrializzati
riguardano in modo predominante la cura di malati affetti da patologie
croniche e per di più vecchi, la concezione che questo andamento sia colpa
dell’invecchiamento delle persone e non di altre evidenze è discutibile
ed è un pensiero, almeno in parte, costruito su di una lettura molto superficiale
dei fatti del mondo economico, lontana da una attenta analisi del mondo
reale.
Sui costi della vecchiaia, l’unico dato accettabile come vero, in una
visione impostata secondo il metodo scientifico, è che esiste una povertà
di dati.
Si prenda ad esempio una malattia cronica e cara, la schizofrenia. E’
una malattia che colpisce circa l’1% della popolazione, esiste in forme
ad esordio precoce sotto i 40 anni, ad esordio tardivo, tra 40 e 60 anni,
ed in una forma ad esordio molto tardivo, oltre i 60 anni. Circa un quarto
delle persone che ne soffrono, hanno una forma ad insorgenza tardiva.
Non è una malattia letale. E’ quindi una malattia che interessa le persone
nel corso di tutta i periodi della vita, compresa la vecchiaia, durante
la quale se ne può essere ancora affetti, o, durante la quale, anche se
più raramente, ancora se ne può essere colpiti. Sino al 2003 oltre il
90% dei lavori scientifici pubblicati sulla schizofrenia hanno largamente
escluso le persone anziane con la malattia. Negli Stati Uniti i costi
della schizofrenia salgono da circa 26.000 dollari all’anno, per i malati
sino a 44 anni, a circa 44.000 dollari all’anno per i malati di oltre
75 anni. Ciò può facilmente far immaginare che una parte dei costi per
la cura della malattia nei vecchi possa dipendere da scarse conoscenze
dei suoi trattamenti o dei trattamenti migliori quando gli aspetti neurobiologici
e comportamentali che la caratterizzano si embricano con i processi dell’invecchiamento.
Perché prendere ad esempio la schizofrenia, una malattia apparentemente
non geriatrica?
Per due motivi: il primo per ricordare che l’interesse, scientifico ed
assistenziale, alla demenza, che così tanto ha caratterizzato lo sviluppo
della geriatria, fu portato all’attenzione del mondo scientifico moderno
da Sir Martin Roth, che, 50 anni fa, in un lavoro pioneristico, da un
lato riprendendo da Kraepelin il metodo di studiare i pazienti nel follow-up
a lungo termine, dall’altro aprendo la via agli studi longitudinali, dimostrò,
valutando la durata della permanenza dei pazienti negli ospedali, i decorsi
clinici differenti dei pazienti affetti da Alzheimer Disease, di quelli
con Demenza arteriosclerotica, con mania (disordine bipolare), con depressione
e parafrenia (schizofrenia ad esordio tardivo). Questo lavoro è stato
la pietra miliare degli studi moderni sulla demenza degenerativa evidenziandola
come entità primaria separata dai disturbi affettivi e dalla schizofrenia,
che possono essere presenti nel giovane come nel vecchio, aprendo così
anche la via ai concetti di comorbilità.
Nella comorbilità si indovano le cause della vecchiaia più malata e più
cara, ma non per via di una sommatoria dei costi di ciascuna delle cure
di ogni singola malattia, ma per lo svilupparsi di insiemi di complicate
e costose complessità diagnostiche, terapeutiche ed assistenziali che
affliggono, in modo individualmente segnato il vecchio malato.
Il secondo motivo è che i disturbi psichiatrici nel vecchio sono così
tanti, dalla demenza, alla depressione, al delirium, così variabili, per
la patoplasticità caratteristica del senio, così frequenti, da differenziarsi
con difficoltà dai segni della vecchiaia, quanto dimenticati.
Due terzi delle persone anziane istituzionalizzate soffre di disordini
mentali, un quarto di esse di depressione, due terzi ancora di esse di
demenza. I costi dei malati affetti da schizofrenia, da demenza, da depressione
sono risultati superiori a quelli determinati da tutte le altre malattie
non mentali.
Ciò è vero per le persone di tutte le età ma in modo più marcato per i
malati delle classi di età più avanzata. A fronte di questa epidemia delle
malattie mentali nella popolazione anziana la cura delle persone vecchie
ricoverate negli istituti raramente ha un inquadramento della malattia
specialistico con una differenziazione degli interventi per le turbe comportamentali
che ne conseguono a seconda dei risultati dell’inquadramento.
Ciò può comportare l’aggravamento del peso assistenziale, delle complicanze
somatiche ed in fine dei costi delle cure globali per questi vecchi, come
conseguenza di una concezione comune anche nel nostro paese, detta ageism
con termine anglosassone, che comporta il modo di considerare le malattie
del vecchio come conseguenza della vecchiaia, inutili ad esser trattate,
inopportune per una società in cui i vecchi non hanno spazio.
La mancanza di dati è un male che affligge la visione scientifica della
maggior parte delle malattie dei vecchi e che può comportare due aspetti
contrapposti, ma di simile portata in relazione alle ricadute di far della
vecchiaia una esistenza a caro prezzo. Da un lato l’assenza di studi sulle
malattie del vecchio o nel vecchio può risultare nell’applicazione sulla
persona anziana di protocolli terapeutici ed assistenziali di costo molto
elevato, non dimostrati utili, quando, addirittura, non siano dannosi
ed induttori di costi iatrogeni.
Si faccia un pensiero alle linee guida sulla ospedalizzazione dei vecchi
colpiti da polmonite. Esistono indicatori di gravità della polmonite e
di rischio di morte ben conosciuti, tra i quali l’età del paziente.
Non esistono peraltro studi di follow-up a lungo termine, che evidenzino
dallo studio della sorte dei pazienti più gravi e sopravvissuti all’episodio
i reali vantaggi ed i reali danni della cura condotta in ospedale piuttosto
che a casa o nella residenza abituale. Vengono in mente, in una sorta
di narrative-evidence-based medicine numerosi casi di grandi vecchi che,
superata l’acme dell’acuzie, nella cura in ospedale, sviluppano una sindrome
ipocinetica od uno stato confusionale subacuto, e d’allora in poi si avviano
ad una vecchiaia di costo esorbitante, per tentativi riabilitanti, per
ricoveri residenziali definitivi, per la necessità di un supporto sociale.
Costi non della vecchiaia ma di una sanità distorta, non impostata sulla
base della migliore cura di quelli che sono i suoi principali clienti,
che sono i vecchi. In questo senso, seppur in un altro campo, è stato
recentemente acquisito un dato di evidence-based-medicine: è stato dimostrato
come nelle persone di oltre 80 anni colpite da ictus cerebrale ischemico,
la cura a casa rispetto a quella in ospedale risulti ugualmente efficace
nei confronti di quella ospedaliera, al riguardo della sopravvivenza,
con un corollario di riduzione della depressione post-ictale e di miglioramento
della qualità della vita.
Il dato ha la particolarità di essere stato osservato nel nostro contesto
sociale, qui a Torino, stimolando a perseguire in questa città la domiciliarità
nell’assistenza sanitaria agli anziani.
D’altra parte, i costi della vecchiaia possono essere esorbitanti a causa
di cure negate. L’assenza di una mentalità che cerchi di distinguere la
malattia dal fatale incedere di un invecchiamento è spesso motivo di un
corso verso la perdita dell’autonomia del paziente, dell’evolversi di
malattie evitabili o ancora guaribili, o compensabili, quando sottoposte
ad un trattamento anche se si è vecchi o molto vecchi.
Un esempio di questo problema può essere fatto al riguardo delle persone
affette da traumi all’anca con frattura di femore. Il destino degli ammalati
operati e guariti somaticamente, dopo intervento chirurgico, è spesso
condizionato da una riluttanza, una resistenza, una difficoltà collaborativa
nella riattivazione. Così l’intervento, uno dei i più costosi tra quelli
ospedalieri, segna l’inizio di un corso che si risolve in una definitiva
istituzionalizzazione del paziente, con costi annuali approssimativi di
oltre 40.000 euro per anno di sopravvivenza.
Questi percorsi sono spesso la conseguenza di una psicopatologia latente,
che esplode di fronte al trauma delle ossa, e che spesso resta latente
anche ai medici che dimettono il paziente dalla corsia ospedaliera.
E’ ipotizzabile che un intervento geriatrico e psicogeriatrico accanto
a quello del chirurgo possa modificare favorevolmente i percorsi e ridurre
i costi conseguenti alla perdita di autonomia e alla istituzinalizzazione,
successive all’impianto di chiodi o protesi che pur correggono appieno
il danno del soma.
In termini più generali riferendosi alle analisi anagrafiche e demografiche
è da considerare l’inesattezza di ascrivere ai vecchi la colpa della congiuntura
economica, che peraltro rischia di allontanare proprio da loro stessi
i benefici del patto sociale.
La società accusa il peso dei vecchi, dalle pensioni, alla sanità, non
per un incremento del costo che questi elementi comportano, ma per la
colpa dei giovani che hanno rimpicciolito la loro presenza e la loro globale
forza contributiva, insita nel patto sociale.
La discolpa del costar tanto, può giungere anche dall’analisi psico-sociologica,
dalla quale emerge un risultato sintetizzabile nel morire stanco che caratterizza
l’uomo di oggi differenziandolo da quello di ieri, che affrontava la morte
sazio della vita. Ciò deriva dal fatto che la società ha etichettato l’anziano come
soprannumerario, in omaggio ad un primato dell’efficientismo produttivo
che premia il giovane e costringe il vecchio nelle retrovie, altrove.
L’umanità è nata con il concetto del gruppo, l’espulsione dal gruppo equivale
all’inesistenza, e così capita che il vecchio di oggi conduca una vita
vissuta a sua insaputa, in una sorta di agonia psicologica. L’origine di tanta espansione della depressione dell’anziano, e dei
suoi costi, può nascere nella psico-pato-metamorfosi che questa malattia
ha subito passando da una essenza basata sui sensi di colpa ad una basata
sulla incapacità funzionale, sulla inefficienza nella corsa produttiva
in cui si è stati coinvolti. Da questa analisi emerge il cosiddetto pensiero debole che caratterizza,
secondo alcuni, la società contemporanea, segnato dal crollo dei pilastri
ideologici che sostenevano la vita di tutti, superando le barriere dei
gruppi, dei gruppi generazionali, in particolare. Già molti anni fa si
scriveva dell’eutanasia da abbandono che in una società siffatta segna
la fine dei vecchi, ipocritamente mantenuti in vita senza essere degni
di essere curati, ma solo custoditi, oltretutto a costi elevati.
In questo contesto la richiesta di risposte sulle quali far poggiare
la coesione sociale potrebbe comportare lo sviluppo di un senso di pietas
che riconosca quanto del costo della malattia vecchiaia, dipenda dalla
concezione che da parte nostra si fa della stessa.
Talora forse sarebbe necessario immettere idee nella vecchiaia per dare
giustificazione al vivere da vecchi: ciò in fondo significa ribaltare
il pensiero debole della nostra società in un pensiero forte.
Questa può essere l’arma delle società tecnologicamente più avanzate,
impreparate di fronte ad una lotta di generazioni, imprevista, mai sostenuta
in precedenza, che ha sostituito quelle di classe che avevano a sostegno,
appunto, idee forti, crollate, al loro termine.
In conclusione, quindi, solo rimettendo la forza delle idee nella società
si potrà discutere dei costi reali delle cure alle persone anziane, del
loro buon governo e, non come oggi, dei costi di un abbandono chiamato
vecchiaia.
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