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Lucrezia Stellacci Direttore generale scolastico regionale Emilia Romagna Una scuola a misura di tutti e di tutte, in una regione accogliente 14 febbraio 2003 in occasione dell’apertura dell’Anno Europeo delle persone disabili (torna all'indice informazioni) Io sono onorata di lavorare in una regione che ha una lunga tradizione e una buona pratica di accoglienza e di integrazione per tutti. L’Emilia Romagna è per sua natura inclusiva, prova a non mandar mai via nessuno. Nostra passione educativa è non solo tenere tutti, ma anche dare ad ognuno il massimo di chanches per una buona vita, un buon futuro, con lo sviluppo di tutti i potenziali individuali. Nel libro di Robert Putnam "la tradizione civica nelle regioni italiane" si sostiene la tesi, storica e sociologica, che questo tessuto di civismo e solidarietà ha radici ben più antiche della contemporaneità, va lungo fin dall’epoca delle società comunali. Fin dai liberi comuni, l’idea della democrazia orizzontale (quando c’è un problema, ci organizziamo in comune a risolverlo) ha dominato in questa regione su quella verticale (se ho un problema, cerco qualcuno che possa risolvermelo), più tipico delle tradizioni feudali. Posso ben dirlo io, che provengo da una regione meridionale, come sono stata ben accolta, e come ben volentieri opero in una regione nella quale, al di là delle opinioni politiche individuali, c’è in tutti questo fortissimo tessuto connettivo profondo di solidarietà e di impegno civile. Questa regione, ad esempio, ha il più alto numero di cooperative sociali di tipo B. Se dovessi, come ho in programma, incontrarmi in un sola volta con tutte le associazioni regionali, provinciali, comunali, locali, di quartiere che si occupano di handicap, non mi basterebbe un cinema. Non è un caso che il padre pedagogico dell’integrazione scolastica sia un vostro conterraneo, che mi onoro di conoscere e stimare, il prof. Andrea Canevaro. Se vi devo parlare di disabilità, o meglio come si dice ora di "diversa abilità" e di integrazione scolastica non posso non partire dal contesto sociale, ma soprattutto valoriale entro cui questi fenomeni sono vissuti nel nostro sistema scolastico e sociale. Per la verità, anche se in forme non sempre buone come in questa regione, il patrimonio civile, educativo e culturale di tutta l’Italia tratta l’integrazione scolastica ormai come un fatto acquisito, del tutto incardinato nella tradizione comune, soprattutto irreversibile nelle sue tendenze complessive. La relazione del Sottosegretario on. Aprea del novembre scorso alla Commissione Bicamerale sui diritti dell’infanzia su questo è assolutamente chiara. Nessuno intende tornare indietro né riaprire scuole speciali. Nelle parole del Sottosegretario, e anche in molte argomentazioni operative, c’erano per la verità questioni simili alla Relazione al Parlamento ‘2000, predisposta dai precedenti governi e che analizzava la situazione dell’integrazione scolastica lungo tutti gli anni 90. A me pare che il valore dell’integrazione scolastica come "speciale normalità" delle nostre scuole sia molto più che bipartisan, è ormai italiana e basta. Questo è un punto d’onore del nostro paese, va ricordato sempre, pur non nascondendo i tanti problemi perché l’integrazione funzioni, ma riconoscendoci una conquista di civiltà, oltre che di efficacia concreta. Nell’anno europeo della disabilità, il nostro paese è più europeo degli altri su questo tema, e più vicino allo spirito della Carta di Nizza. Abbiamo qualcosa da insegnare agli altri.
Ma c’è di più. Prendiamo a confronto il nostro paese e la Germania. In quel paese non esiste l’integrazione scolastica, ma una miriade di scuole speciali che separa i bambini per diagnosi, problema, patologia. La discussione tra i nostri due diversi modelli è molto accesa. Illuminante però è, ad esempio, l’esito della ricerca del prof. Renzo Vianello, psicologo dell’Università di Padova, che ha misurato il Quoziente Intellettuale dei bambini Down italiani e tedeschi. Ebbene, l’esito è per noi confortante: i nostri bambini hanno un QI mediamente superiore del 30% a quello dei loro pari tedeschi. Ma c’è di più: secondo il prof. Vianello questo miglior esito non è dato tanto (o solamente) dall’insegnamento, ma probabilmente dalla grande forza cognitiva e relazionale che ha lo stare in mezzo a tutti gli altri bambini. Scoperta forse per noi quasi banale, ma illuminante. Lo stare insieme tra diversi rende più intelligenti. Ma c’è di più ancora: il modello tedesco costa quasi il doppio del modello italiano. E infine: è forse un caso che in Italia non esistono classi speciali per disabili e neppure per i bambini stranieri, mentre in Germania esistono tutte e due le situazioni? Insomma l’accoglienza e l’inclusione sono l’esprit comune della nostra tradizione sociale e scolastica.
Naturalmente, l’oggetto principale di questo mio intervento riguarda l’integrazione scolastica nella nostra regione. Di questo intendo parlarvi approfondendo quattro aspetti cruciali, tra i molti entro cui meriterebbe scavare sull’universo della disabilità. Partiamo, ovviamente, dai nostri bambini e bambine, dai nostri ragazzi e ragazze.
1. I nostri diversamente abili Qualche numero ci aiuta a capire. I bambini le bambine, i ragazzi e le ragazze certificati ai sensi della Legge 104/92 sono in questo anno scolastico 8.700, pari al 2.1% della popolazione scolastica regionale, un po’ sopra la media nazionale, che è vicina al 2%, ma in linea con altre regioni limitrofe. Il numero è aumentato del 40% dal 1992 ad oggi, in percentuale dall’1.4% al 2.1 %. Le ragioni di questo aumento sono tre, molto importanti da studiare per comprendere come agire.
Il poderoso ingresso degli alunni disabili nella scuola superiore è la vera novità di questi ultimi anni in relazione all’aumento percentuale prima descritto. Siamo passati in tre anni ad un aumento di ben il 50%. Significativo, però, è il fatto che l’aumento non riguarda tutta la leva: circa metà degli alunni disabili completa l’obbligo a 15 anni ancora nella scuola media. E qui nasce la più importante sfida di oggi. Non tutto va bene nella secondaria, c’è ancora da lavorare.
Un altro dato significativo è l’aumento delle certificazioni dalla scuola materna (attorno all’1%) alla scuola elementare (attorno al 2%) alla scuola media (attorno al 3%). Si tratta di una questione delicata, effetto di due cause, l’una (positiva) dell’attesa a certificare, l’altra (negativa) data da una pressione della scuola o sociale legata alla distanza tra i comportamenti del bambino e i modelli di "normalità" di una data scuola. Alcuni autori sostengono che spesso quest’ultima certificazione è più effetto di una cattiva scolarizzazione che di una vera e propria disabilità evolutiva, tendendo a rovesciare sull’alunno anche i problemi di difficoltà della scuola ad accogliere e individualizzare. Ma c’è un altro aspetto, forse sottovalutato. Ogni anno circa il 12% degli alunni in situazione di handicap risulta respinto o ripete l’anno. E’ una tendenza diffusa quella di "ritardare" la progressione scolastica, soprattutto negli anni di passaggio tra un ciclo scolastico e l’altro. Vi sono più ragioni, alcune obiettive e spesso meditatamente legate alla scelta di una maggiore lentezza come aiuto alla maturazione. Ma non mancano scelte, spesso dei genitori, legati al timore del passaggio ad altro ciclo se non vi sono buone condizioni di accoglienza. Una buona continuità è fondamentale per i nostri alunni diversamente abili.
Più dell’85% degli alunni certificati sono nella categoria detta "psicofisici", con problemi prevalentemente psicologici. E’ una tendenza in sempre maggiore espansione, da un anno all’altro, quella di certificare situazioni individuali di disagio intellettivo e relazionale, sociale, cognitivo e psicologico in genere. Si spiega così la volontà a ripensare la certificazione secondo la Legge 104/92, che la recente Legge Finanziaria segnala rinviando ad un successivo Decreto del Ministero della Salute, di cui siamo in attesa. Credo sia un errore polemizzare e basta, sostenendo un’indiretta voglia di stringere i cordoni della borsa. La questione è stata sempre all’attenzione di tutti i governi del decennio scorso, con numerose misure di chiarimento, ridefinizione, senza tuttavia esiti significativi. E’ questione delicata, di cui all’intero universo della disabilità conviene riflettere con coraggio e serenità. Il tema delle certificazione di handicap è di complessa interpretazione, mette insieme questioni cliniche e questioni sociali sul significato di handicap, tema presente anche negli altri paesi della Comunità europea con forti differenze interpretative da paese a paese. Vorrei qui solo sfiorare il problema, accennando almeno a due elementi che possono rendere incerta la questione certificazione:
L’effetto è di diversissimi comportamenti da zona a zona, di una relazione tra disagio sociale del territorio e certificazioni. Insomma della presenza di un problema vero (la sofferenza umana e le difficoltà di inclusione) risolto con uno strumento non sempre appropriato. Al mondo della disabilità conviene, a mio giudizio, far chiarezza, se non altro per una maggiore finalizzazione e differenziazione degli interventi più appropriati. Non mi azzardo a dire di più, è questione di competenze diverse dalle mie, ma suggerisco di prestare attenzione ad un evento importante, a livello internazionale, che potrebbe aiutarci. Nel maggio scorso, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha approvato il cambiamento del modello certificativo, da quello chiamato ICD-H (diagnosi cliniche "classiche" indicanti malattie, memonazioni, disabilità come "handicap" in senso negativo) al nuovo modello ICF. E’ una novità che forse ci aiuterebbe a vedere meglio l’intero mondo delle difficoltà che possono determinare esclusione. Infatti l’ICF non separa la persona in menomazioni, ma interpreta l’individuo per "funzioni", insomma per i potenziali legati alle categorie dell’autonomia, della partecipazione, dello sviluppo in relazione ai contesti. Insomma, si parte dalla persona nel suo insieme piuttosto che dai suoi organi singolarmente presi. Questo scenario affascinante, potrebbe aiutare a superare alcune ambiguità sorte dopo l’applicazione della Legge 104/92 e sviluppare nuove modalità interpretative, dove l’approccio clinico agisce assieme a quello sociale, a quello educativo, a quello occupazionale. Sarebbe importante sperimentare l’ICF nella nostra regione.
2. La nostra offerta scolastica Per principio, parlando ora dell’offerta della scuola, non voglio partire dagli insegnanti di sostegno (di cui parlerò successivamente), perché l’integrazione è tema che riguarda tutta l’intera comunità scolastica. Voglio qui proporre, invece, alcune riflessioni sul clima e la qualità dell’integrazione desunta dalle nostre ricerche e dalle valutazioni dei tecnici esperti della nostra regione.
3. Gli insegnanti Solo dopo quanto detto finora, possiamo parlare con maggiore equilibrio sulla questione degli insegnanti. Nella nostra regione, attualmente vi sono più di 4.000 docenti che svolgono attività di sostegno. Il rapporto è di un insegnante ogni 2.2 alunni. Ma lo scarto è troppo forte da provincia a provincia. Si va dal 2.50 di Bologna all’1.75 di Rimini. Reggio Emilia è a mezza via, attorno al 2. La questione va approfondita, se non altro per ragioni di equità. L’epidemiologia non può avere eccessivi scarti, vanno capiti meglio i meccanismi di distribuzione. D’altra parte questo è lo sguardo regionale che la nostra Direzione Generale deve necessariamente avere. Meriterà però anche ricordare che sono insegnanti di alunni disabili più di 25.000 docenti della nostra regione. Insomma quasi 30.000 docenti vivono l’esperienza dell’integrazione, 3 su 4. Merita infine ricordare che 4 classi su 10 hanno un compagno di banco disabile, 6 nella scuola elementare. Ma il rapporto tra docenti e docenti di sostegno funziona? Vediamo assieme alcune questioni
4. L’integrazione dell’integrazione Un ultimo grande tema su cui mi voglio soffermare è l’integrazione territoriale di tutti i servizi alla persona. Abbiamo una legge importante, che cambia lo scenario e la filosofia dei servizi sociali, la Legge 328 del 2000, che parte dal "progetto di vita" di ogni persona, obbliga ad integrare i servizi nei "Piani di zona", dà spazio e diritti agli utenti e ai cittadini. Abbiamo le scuole autonome costituzionalmente garantite, e i nuovi spazi di flessibilità e responsabilità. Abbiamo il D.Lvo 112 che sui temi della disabilità affida nuove responsabilità ai comuni e alle province. C’è un diffuso sentire sulla necessità di dare maggiore ruolo alle famiglie, al mondo asssociativo, al sistema sociale più ampio, al sistema dell’economia e delle imprese. Tutto ci chiede una sola cosa: integrare meglio l’integrazione. Dobbiamo ammettere che spesso le difficoltà maggiori non le hanno i nostri alunni, ma noi adulti, quando ad esempio è difficile trovare orari compatibili di incontro tra insegnanti e psicologi, perché abbiamo diversi contratti e organizzazioni del lavoro. Tutto va, invece, verso una logica di "sistema integrato delle competenze", di governance, insomma di un modo nuovo e originale di rapportarsi tra servizi, uffici, enti, bilanci e competenze. La scuola è pienamente dentro a questa nuova sfida per la qualità. Le stessa Legge 104/92 appare obsoleta su molti punti, pur essendo stata dieci anni fa anticipatrice di sistemi di integrazione. In molti aspetti è già superata dalle nuove norme. Il nostro impegno va su tre percorsi principali:
Gli ambiti prioritari di impegno sono molti, a partire:
La nostra regione è pronta alla sfida. La quantità di servizi è notevole, la qualità può essere ampliata. Noi sistema-scuola siamo pronti e partecipi ad una sfida che ha un valore grande per ognuno di noi. Noi sappiamo che la vita ci consegna l’incontro con la differenza, e insieme con il dolore, la sconfitta, la solitudine, l’esclusione. Uscirne insieme è la democrazia e una società veramente giusta. Uscirne da soli, ognuno per conto proprio, è l’egoismo. La solidarietà non è un atto di carità, è l’anima stessa della civiltà, non ha colore politico. E’ di tutti e per ognuno di noi necessaria come l’aria. Rende ognuno di noi migliore. Come l’integrazione scolastica, che non è servita solo a "loro", ma serve a tutti noi, ogni giorno, a sentirci più cittadini di questo mondo, di cui condividiamo il destino comune.
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