Dalla Riforma ter ai Livelli essenziali di
assistenza
Fabio Ragaini, Gruppo Solidarietà
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La recente emanazione del Decreto sui Livelli Essenziali di Assistenza
sanitaria, nella parte riguardante l’integrazione socio sanitaria avrà pesanti
ripercussioni sui cittadini più deboli e in particolare di quelli colpiti da
malattie croniche e non autosufficienza.
"La riforma sanitaria prevede che tra gli standard essenziali della sanità,
dunque pagati dalla sanità, vi siano i servizi che riguardano i malati cronici,
i portatori di handicap gravi e gravissimi, dunque i servizi che per ora sono
considerati figliastri, che nessuno vuole riconoscere e che molte volte vanno
a finire sulle spalle dei comuni. Ebbene, nell'articolo che riguarda l'integrazione
socio-sanitaria del testo al nostro esame, si fa riferimento ad un provvedimento
legislativo che è entrato in vigore, il quale prevede esattamente che vi siano
servizi a carico della sanità" (1). Queste affermazioni di Livia Turco, allora
ministro degli Affari sociali, durante la discussione del testo di riforma dell'assistenza
nella seduta alla Camera del 18 gennaio 2000, a distanza di due anni sono, purtroppo,
ben lontane dalla realtà.
La riforma sanitaria
Riprendiamo il percorso della riforma sanitaria cui fa riferimento Livia
Turco. Con legge 30 novembre 1998, n. 419, "Delega al Governo per la razionalizzazione
del Servizio sanitario nazionale e per l'adozione di un testo unico in materia
di organizzazione e funzionamento del Servizio sanitario nazionale. Modifiche
al decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502" (G. U. n. 286 del 7.12.98),
il governo era stato delegato ad emanare un decreto legislativo che prevedesse
anche "tempi, modalità e aree di attività per pervenire ad una effettiva integrazione
a livello distrettuale dei servizi sanitari con quelli sociali, disciplinando
altresì la partecipazione dei comuni alle spese connesse alle prestazioni sociali;
stabilire princípi e criteri per l'adozione, su proposta dei Ministri della
sanità e per la solidarietà sociale, di un atto di indirizzo e coordinamento,
ai sensi dell'articolo 8 della legge 15 marzo 1997, n. 59, in sostituzione del
decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 8 agosto 1985, pubblicato
nella Gazzetta Ufficiale n. 191 del 14 agosto 1985, che assicuri livelli uniformi
delle prestazioni socio-sanitarie ad alta integrazione sanitaria, anche in attuazione
del Piano sanitario nazionale" (Art. 2, comma 1, lett. n). La riforma ter (Decreto
legislativo 19 giugno 1999, n. 229, "Norme per la razionalizzazione del Servizio
sanitario nazionale a norma dell'articolo 1 della legge 30 novembre 1998, n.
419", Sup. G.U. n. 165 del 16.7.1999), riprendeva tali indicazioni e all'articolo
3-septies "Integrazione sociosanitaria" (2), definiva le prestazioni sociosanitarie,
distinguendole in prestazioni sanitarie a rilevanza sociale e in prestazioni
sociali a rilevanza sanitarie. Si stabiliva, che con successivo provvedimento
entro 3 mesi si sarebbe specificato quali prestazioni sarebbero state ricondotte
alle due tipologie di interventi. Si indicavano inoltre le prestazioni di esclusiva
competenza sanitaria, definite sociosanitarie ad elevata integrazione sanitaria,
assicurate dalle aziende sanitarie e comprese nei livelli essenziali di assistenza
sanitaria "caratterizzate da particolare rilevanza terapeutica e intensità
della componente sanitaria e attengono prevalentemente alle aree materno-infantile,
anziani, handicap, patologie psichiatriche e dipendenze da droga, alcool e farmaci,
patologie per infezioni da HIV e patologie in fase terminale, inabilità o disabilità
conseguenti a patologie cronico-degenerative".
Tutto ciò faceva supporre una chiara responsabilità del servizio sanitario anche
negli interventi riguardanti malattie croniche.
D'altra parte anche la stessa legge di riforma dell'assistenza all'art. 15 (Sostegno
domiciliare per le persone anziane non autosufficienti), ribadiva "Ferme
restando le competenze del Servizio sanitario nazionale in materia di prevenzione,
cura e riabilitazione, per le patologie acute e croniche, particolarmente
per i soggetti non autosufficienti (..), la competenza del settore sanitario
negli interventi rivolti anche a soggetti malati e non autosufficienti.
L'Atto di indirizzo sull'integrazione e il Decreto sui Livelli Essenziali
di Assistenza
Con un ritardo di oltre un anno e mezzo è giunto l'Atto di indirizzo sull'integrazione
socio sanitaria (3) e successivamente il Decreto sui livelli essenziali di assistenza
(4). Quest'ultimo è stato emanato ai sensi dell'articolo 6 del decreto legge
18 settembre 2001 n. 347, poi convertito in legge 16 novembre 2001, n. 405 (G.U.
n. 268 del 17 novembre 2001), in accordo con la "Conferenza permanente per i
rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano",
intesa del 22 novembre 2001 (5). Nell'allegato 1.C "area integrazione socio
sanitaria", vengono indicate le prestazioni di esclusiva competenza sanitaria
e quelle "nelle quali la componente sanitaria e quella sociale non risultano
operativamente distinguibili e per le quali si è convenuta una percentuale di
costo non attribuibile alle risorse finanziarie destinate al Servizio sanitario
nazionale". La tabella riprende in gran parte i contenuti dell'atto di indirizzo
sull'integrazione, accentuando il trasferimento degli oneri dal settore sanitario
a quello sociale.
La chiara tendenza dell'Atto di indirizzo di ricondurre la totale competenza
sanitaria solo nell'acuzie e nella post-acuzie (e dunque per periodi molto limitati
nel tempo), relegando nell'area delle prestazioni socio sanitarie (sanitarie
a rilievo sociale o anche sociali a rilievo sanitarie) tutto ciò che "definito
estensivo" si può tradurre come stabilizzato, cronico, non più guaribile, viene
fortemente rafforzata dal Decreto sui LEA trasferendo sui comuni, le famiglie
e gli utenti pesanti oneri. In questa prospettiva quei pochi (per la verità)
servizi sanitari (diurni e residenziali) che ospitano permanentemente soggetti
gravemente malati, appaiono come intollerabili privilegi da dover al più presto
correggere.
Tra gli oneri aggiuntivi a carico degli utenti e dei comuni il Decreto prevede:
- che nei servizi ADI gli oneri al 50% a carico dei Comuni siano estesi anche
alle prestazioni di aiuto infermieristico,
- il 60% dei costi nell'accoglienza in strutture residenziali a bassa intensità
assistenziale per soggetti con malattia mentale (basti pensare cosa ciò può
significare in una struttura con un costo retta giornaliero di 80-100 euro).
Più in generale nelle percentuali a carico del settore sociale c'è il costante
riferimento ad oneri per prestazioni terapeutiche, di cura,
di riabilitazione. L'applicazione delle percentuali riportate con
i consistenti aumenti di oneri a carico dei Comuni può avere come risposta o
l'automatico trasferimento sugli utenti o la necessità di abbassamento del costo
retta con riduzione degli oneri per il personale e dunque gravi ricadute sulla
qualità del servizio stesso.
I due decreti partono dalla chiara volontà-necessità di comprimere e ridurre
le spese sanitarie, caricando conseguentemente sugli utenti e sui comuni costi
di natura sanitaria. Se è vero che tali provvedimenti sono atti di natura amministrativa
e dunque non modificano le leggi vigenti (6), è evidente che ai contenuti degli
stessi si riferiranno le regioni e le Aziende sanitarie e che progressivamente
le percentuali presenti nelle tabelle allegate ai due decreti verranno applicate
nella gran parte dei servizi extraospedalieri. Ed è ciò che sta già avvenendo
nel rinnovo di molte convenzioni tra Asl e Comuni nei servizi. Ciò che è sempre
più chiaro è che il settore sanitario attraverso le ASL, anche per le continue
pressioni delle regioni ai fini del contenimento della spesa sanitaria, cercano
in tutti i modi di ridurre ogni onere riguardante spese che si prolungano nel
tempo non solo riducendo, il periodo di tempo (acuzie e post acuzie) in cui
gli oneri sono a suo completo carico, ma cercando di evitare, attraverso la
negazione del bisogno sanitario, anche partecipazioni minime al costo retta
nelle cosiddette fasi di lungo assistenza. Sempre più rapidamente i servizi
diurni e residenziali per soggetti malati e non autosufficienti tenderanno ad
afferire al settore sociale (prestazioni sociali a rilevanza sanitaria), con
un supporto sanitario riconducibile al pagamento delle prestazioni delle figure
sanitarie operanti. Tale incidenza, nel costo retta, sarà assolutamente marginale,
con quote sociali che tenderanno, conseguentemente, a gonfiarsi sempre di più.
Se, come pare assai evidente, l'incubo di ministri, assessori regionali e direttori
generali è sempre più quello del ripianamento del disavanzo, almeno si abbandonino
enfatiche affermazioni come quella della prospettiva della tutela della salute
e si abbia il coraggio di dire apertamente che ci si propone di offrire alcuni
servizi in determinate fasi della malattia e nient'altro. Perché a quei tanti
gravi malati non autosufficienti ricoverati in ospizi, neanche autorizzati per
ospitarli, difficilmente qualcuno potrà dire, che il sistema sanitario ad ogni
livello sta lavorando per tutelare la loro salute.
L'applicazione dei Decreti nella Regione Marche
Nella regione Marche si è ancora in attesa dell'atto di recepimento del
DPCM 14/2/2001. In più occasioni abbiamo avuto modo di illustrare la situazione
dei posti letto di riabilitazione e lungodegenza e dei cosiddetti servizi socio
sanitari (7). E' così gravemente indecente la situazione nella nostra regione
che per molti servizi l'applicazione dei due decreti risulta migliorativa rispetto
alla situazione attuale (sempre che la situazione di malattia e di non autosufficienza
si voglia continuare a non vedere quando queste persone sono ricoverate in strutture
non autorizzate, vedi case di riposo, per accoglierle). Ovviamente in altre
situazioni andrà a crearsi una situazione di forte sofferenza per gli utenti,
le famiglie ed i Comuni. In particolare nella regione Marche:
- nei Centri socio educativi e negli interventi domiciliari (assistenza
educativa e domestica) per persone in situazione di handicap, nella stragrande
maggioranza dei servizi gli oneri sono a completo carico dei Comuni; del tutto
opposta è, invece, la situazione riguardante il sistema residenziale quasi tutto
(nonostante gli sforzi di questi ultimi anni della regione nella costituzione
d comunità alloggio a titolarità sociale) di natura sanitaria attraverso le
prestazioni delle strutture ex art. 26 ora riclassificate in RSA disabili (8).
- all'interno dei servizi ADI, la quasi totalità delle Aziende sanitarie
non prevede l'erogazione della cosiddetta assistenza tutelare. I servizi di
igiene alla persona vengono ricompresi quasi sempre all'interno dei servizi
SAD (quando ci sono) erogati dagli enti locali. E' facile capire che tutti quegli
utenti che nei servizi comunali, in base al reddito, sono esclusi dalla possibilità
di usufruire di questo servizio, non potranno mai fruire delle prestazioni di
assistenza tutelare, se non pagandole direttamente;
- la più volte citata "lungoassistenza residenziale", è quasi completamente
costituita da residenze assistenziali (circa 5.000 posti dei quali il 65-70%
"occupato" da persone non autosufficienti); autorizzate per l'accoglienza di
persone autonome. Una situazione fotografata dalla Delibera Regionale 272/1995
"Constatato che nel settore delle strutture destinate all'assistenza agli
anziani (..) la legislazione nazionale e regionale in atto non permette una
emanazione di norme che da un lato, garantiscano la legittimità delle stesse
e, dall'altro, rispecchino la realtà marchigiana; che il contrasto è
particolarmente evidente per le case di riposo che secondo l'art. 41, della
l.r. 43/88 sono strutture destinate agli anziani autosufficienti,
ma nelle quali, per la maggior parte, vengono ospitati anziani la cui autosufficienza
è estremamente ridotta, quand'anche non sia del tutto mancante; che l'aver
interconnesso il provvedimento di autorizzazione con l'emanazione degli indirizzi
e d'altro canto l'essere costretti ad emanare indirizzi che, o sono illegittimi,
o non rispondono alla realtà marchigiana, ha creato una situazione di stallo
in cui alla regione pervengono richieste di autorizzazione all'apertura e al
funzionamento (..) la regione non autorizza per mancanza di indirizzi,
gli indirizzi non vengono emanati per non incorrere nella duplice alternativa
o di essere illegittimi o di non rispondere alla realtà; che, come conseguenza
inevitabile, è che gli enti sia essi pubblici o privati operano senza autorizzazione
(..) gli organi di vigilanza e controllo non possono fare riferimento
ad alcun atto amministrativo (..) gli operatori rimangono nell'incertezza
se siano o non autorizzati (..)". In queste residenze le ASL non
intervengono nel costo retta con la cosiddetta quota sanitaria, ma al massimo
e non sempre, attraverso il fondo regionale destinato alla Assistenza domiciliare
integrata, pagano alcune ore di assistenza infermieristica giornaliera. Una
situazione che assume aspetti paradossali e tragici allo stesso tempo. Infatti,
valutazioni di natura esclusivamente economica (aziendale), indurrebbero nella
fase di post acuzie (ad esempio esiti di ictus) il massimo di interventi volti
al recupero della autonomia e della diminuzione della dipendenza, perché ciò
determinerebbe successivamente - in teoria - un minor onere del settore sanitario.
La situazione sopra descritta ci dice invece che questa preoccupazione non ha
ragione di presentarsi ed anzi più si accorcia il periodo di gestione riabilitativa
nella post acuzie, più il sistema risparmia; infatti se si deve ricorrere alla
struttura residenziale, indipendentemente dal grado di autosufficienza, tranne
pochissimi casi l'onere è di tipo esclusivamente sociale, stessa situazione
se in condizioni di non autosufficienza si rientra al domicilio;
- i posti "convenzionati", denominati "protetti", nei quali la ASL paga una
parte del costo retta, non dovrebbero superare i 400 complessivi (ripetiamo
non conteggiando quelli che pur definiti "protetti", utilizzano fondi ADI);
- le strutture classificate come RSA anziani (3-400 posti), quasi tutte derivate
dalla riconversione di presidi ospedalieri disattivati e che prevedono una partecipazione
giornaliera a carico dell'utente di circa 26 € dopo novanta giorni se in dimissione
ospedaliera, dal primo se proveniente dal domicilio, nei fatti gestiscono quasi
esclusivamente la post acuzie e vicariano, l'assoluta carenza dei posti letto
ospedalieri di riabilitazione lungodegenza (c'è da chiedersi peraltro come si
inseriranno alla luce dei due decreti strutture di questo tipo nella quali non
c'è coerenza tra classificazione e funzione e per le quali anche oggi è prevista
dopo 90 giorni la partecipazione al costo del servizio da parte dell'utente).
Vedremo nei prossimi mesi come la regione Marche applicherà nel proprio territorio
questi decreti e più in generale se intenderà continuare a non affrontare i
problemi posti dallo stato degli interventi rivolti ai cittadini più deboli,
ovvero se vorrà continuare in un comportamento così fortemente omissivo che
avalla un sistema di evidente illegittimità. Finora il non affrontarli ha evitato
ulteriori spese per il settore sanitario ed è questo ciò che si voleva. Ci permettiamo
di ricordare che con la stessa responsabilità con cui si intende affrontare
il problema delle risorse e del ripianamento dei debiti si dovrebbe affrontare
anche quello della tutela della salute dei soggetti più deboli. Ad oggi, se
questa attenzione esiste, appare del tutto invisibile.
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