Augusto Cavadi (www.augustocavadi.eu)
Sacralità e qualità della vita
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A che conclusioni è arrivato il seminario sull’eutanasia organizzato
qualche settimana fa a Petralia Sottana dalla scuola di formazione “G.
Falcone”? Ai lettori interessati potrebbero riuscire istruttive alcune
considerazioni - sia pur telegrafiche - emerse dalla discussione.
Una prima considerazione, attestata dai medici presenti, riguarda l’iter
formativo universitario: agli studenti si parla di diagnosi, prognosi
e terapie ma si tace rigorosamente sulla morte. L’evento cruciale nella
vita del malato viene rigorosamente tabuizzato: come si poteva diventare
magistrato in Sicilia senza aver studiato neppure per un’ora la mafia,
così si può diventare operatore sanitario (medico o paramedico) senza
essere preparati a rapportarsi con l’esito infausto. Non si tratta, ovviamente,
di un deficit puramente nozionistico: a mancare è un’alfabetizzazione
emotiva così che ogni singolo terapeuta è costretto ad improvvisare il
proprio modo di comunicare con il malato terminale e con la famiglia.
Da qui la necessità, insistentemente evocata, di attivare luoghi e modalità
per una duplice formazione: all’accompagnamento dei morenti sino al passo
estremo e all’accompagnamento di chi - per professione o per legami di
parentela o per scelta di volontariato – esercita tale accompagnamento.
Una seconda considerazione riguarda la prassi quasi unanime del “consenso
informato”. Nonostante la normativa vigente, lo si riduce a pura formalità
burocratica: nel Meridione - ma, a quanto pare, anche altrove in Italia
- al paziente non vengono spiegate né la gravità della malattia né la
gamma delle possibili terapie (con relativi effetti collaterali). In ossequio
alla cultura dominante, che ha eletto la tecnologia a valore indiscutibile,
si dà per scontata la disponibilità del malato ad ogni tipo di intervento
meccanico invasivo pur di prolungare la vita biologica: poi, quando la
spina è stata inserita, ci si pone il problema se staccarla o meno (e
di chi debba assumersi la responsabilità di una scelta così drammatica).
Ma se si ribaltasse l’impostazione? Se si desse per scontato che ognuno
di noi vuole vivere e morire ‘naturalmente’, sì da sottoporre a terapie
straordinarie solo coloro che ne facessero – a voce o per “testamento
biologico” – esplicita richiesta? Nonostante il buon senso di queste prospettive,
esse potrebbero entrare nella mentalità e nella pratica quotidiana solo
a costo di spodestare i medici dal ruolo attuale di padroni del destino
dei malati: una detronizzazione che toglierebbe loro il potere monopolistico
di disporre del corpo sofferente altrui, ma li alleggerirebbe di ogni
eccessiva responsabilità morale.
Questi princìpi orientativi appartengono alla cultura (più diffusa in
ambienti confessionali) della “sacralità della vita” o (più diffusa in
ambienti laici) della “qualità della vita”? Come è facile constatare,
si tratta di criteri di giudizio e di comportamento che precedono ogni
comoda ma fuorviante contrapposizione schematica. In realtà, quando non
si usano le formule come manganelli ideologici per battaglie elettorali
del tutto indifferenti alle tragedie personali, si scopre - è stata questa
una terza considerazione emersa dalla discussione a Petralia – che credere
davvero alla ‘sacralità’ della vita non è appannaggio esclusivo delle
coscienze religiose e, soprattutto, che ciò non esclude - ma al contrario
implica – un’attenzione alla ‘qualità’ della vita. Se la vita è sacra,
lo è dappertutto ed interamente. Lo è dappertutto: nel caso dei
malati di tumore, ma anche dei soldati mandati a combattere in nome della
democrazia e dei civili falcidiati dai bombardamenti; ma anche delle madri
africane prive di medicine contro l’Aids e dei bambini che non hanno cibo
né acqua per sopravvivere; ma anche dei bovini allevati in condizioni
disumane in vista della macellazione e dei volatili sterminati per passatempo...Sarebbe
dunque, anche politicamente, opportuno chiedersi quanto sia giusto investire
risorse finanziarie pubbliche affinché un ottantenne arrivi – zeppo di
tubi ed aghi - a ottantadue anni senza preoccuparsi, prioritariamente,
di evitare che una ragazza attenda dieci mesi per l’asportazione (tardiva)
di un tumore maligno perché non ha il denaro per pagarsi la visita privata
presso lo studio del primario ospedaliero. E se la vita è sacra, lo è
in tutte le sue dimensioni: quando un soggetto ritiene di essere
mortificato irreversibilmente nella sua esigenza di pensare, di esprimersi,
di relazionarsi affettivamente al prossimo, di esercitare autonomamente
le proprie attività fisiologiche, chi ha il diritto di imporgli la sopravvivenza
in nome di princìpi teologici o etici o politici? Perché sarebbe sacra
l’intangibilità materiale di un cuore che batte e non l’intangibilità
spirituale di un cervello che ragiona e decide? E’ davvero paradossale:
ci si aspetterebbe che a difendere ad oltranza la durata fisica della
vita fossero, soprattutto, quanti pensano che l’uomo sia solo un grumo
di materia destinata a dissolversi; invece sono, soprattutto, quelli che
dichiarano di credere in una dimensione spirituale della persona e in
suo futuro ultraterreno. E l’illogicità della mentalità comune arriva
al punto da ritenere lecito alleviare con l’eutanasia ‘attiva’ le sofferenze
di un cane perché è ‘solo’ un animale, ma illecito liberare un soggetto
umano dalle stesse sofferenze con un’eutanasia anche solo ‘passiva’ perché,
in virtù della sua dignità spirituale, è ‘più’ di un animale.
Insomma: siamo in un campo in cui il dialogo fra esseri ragionevoli è
inquinato da pregiudizi e chiusure fanatiche. In questo scenario si aprono,
però, spiragli di luce (e siamo ad una quarta ed ultima considerazione):
un papa che, a un certo punto, rifiuta di sottoporsi ad accanimento terapeutico
e grida il suo diritto di morire in pace; teologi cattolici che, prendendo
le distanze dai monsignori telegenici, assumono un atteggiamento mentale
molto elastico in fatto di eutanasia (almeno passiva); chiese cristiane,
esterne al recinto cattolico, che vanno moltiplicando le prese di posizione
ufficiali a favore di una libertà di dibattito sulla base non di diktat
dogmatici quanto di argomenti razionali.
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