Marcello Cini: chi ha ucciso le mezze stagioni?
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 18 settembre 2003. Marcello Cini,
nato a Firenze nel 1923, e' docente universitario di fisica, e autorevole ricercatore;
ha partecipato attivamente alle discussioni degli ultimi decenni sulla storia
della scienza, i temi epistemologici, la critica della scienza e della sua pretesa
neutralita'; collabora al quotidiano "Il manifesto". Opere di Marcello
Cini: L'ape e l'architetto. Paradigmi scientifici e materialismo storico, Feltrinelli,
Milano 1976 (con G. Ciccotti, M. de Maria, G. Jona-Lasinio); Il gioco delle
regole, Feltrinelli, Milano 1982 (con D. Mazzonis); Un paradiso perduto. Dall'universo
delle leggi naturali al mondo dei processi evolutivi, Feltrinelli, Milano 1994]
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Poco piu' di un anno fa abbiamo assistito nel nostro continente alle maggiori
inondazioni che si ricordino. Abbiamo visto in televisione Dresda e Praga sommerse
da metri d'acqua. Per contro, questa estate il termometro e' rimasto fisso oltre
i trenta gradi in tutta Europa per due mesi. Ai primi di settembre, in compenso,
sono gia' arrivate le prime alluvioni autunnali. Non e' difficile prevedere
che ne arriveranno di piu' intense e distruttive. Questa estate i giornali ci
hanno detto tutto sui ghiacciai che si sciolgono, sulla siccita' che inaridisce
i campi e sui fiumi che si riducono a rigagnoli. Tra non molto ci spiegheranno
con dovizia di particolari gli effetti devastanti delle acque che tutto travolgono.
Che il clima stia rapidamente cambiando, dunque, nessuno può più
negarlo. La discussione invece si accende sulle origini del fenomeno. Quanta
parte di questo cambiamento e' dovuta all'attivita' umana e quanta invece può
essere spiegata da variazioni di carattere naturale? E se fosse vera la prima
spiegazione che dobbiamo fare? Molti miei colleghi (ma in genere non sono quelli
che si occupano professionalmente di clima) si danno da fare per negare l'origine
"antropica" della faccenda. Non piu' tardi di tre settimane fa, ad
esempio, l'ineffabile Zichichi - che sa quel che dice perchè, come e'
noto, ha una linea diretta con Colui che, letteralmente e metaforicamente, fa
il bello e il brutto tempo a casa nostra - li ha opportunamente riuniti nel
suo feudo di Erice per far loro proclamare solennemente che di questo casino
gli uomini non hanno alcuna colpa, e dunque che possono continuare a bruciare
allegramente tutto quello che vogliono. Ma, al di la' del folklore mediatico
di cui questo personaggio e' maestro (chi volesse saperne di piu' su di lui
non dovrebbe perdersi il recente delizioso volume di Piergiorgio Odifreddi pubblicato
dalle edizioni Dedalo intitolato Zichicche), l'argomento dell'origine antropica
del mutamento climatico deve essere affrontato tenendo conto di una molteplicita'
di fattori. Molte cose sono state dette in proposito anche sul "Manifesto"
questa estate, e non e' il caso di ripeterle. Voglio solo aggiungere qualche
ulteriore considerazione in proposito.
La prima e' soltanto una battuta sul facile ottimismo di chi, ricordando che
il pianeta Terra ha una lunga storia di mutamenti climatici anche estremi, interpreta
i recenti fenomeni come dovuti unicamente all'inizio di una fase di riscaldamento
naturale. C'e' stata, ad esempio, negli ultimi due o tre secoli una fase di
riscaldamento dopo il periodo di freddo particolarmente intenso che l'Europa
attraverso' tra il '600 e il '700, come testimoniano, oltre alle cronache, i
quadri di Bruegel e del Canaletto che mostrano frotte di uomini e donne che
camminano su fiumi, laghi e lagune ghiacciati. Non dovrebbe sfuggire tuttavia
a chi e' abituato a maneggiare strumenti di misura accurati e categorie concettuali
sottili, la differenza che c'e' fra
le lente variazioni di questi fenomeni naturali e i tempi sempre piu' accelerati
dei mutamenti intervenuti in questi ultimi dieci o venti anni, in concomitanza,
guarda caso, con il vorticoso incremento dell'immissione di
anidride carbonica nell'atmosfera. Chi si richiama continuamente all'autorita'
di Galileo non dovrebbe confondere la velocita' con l'accelerazione.
La seconda considerazione riguarda la tesi di gran moda, sostenuta, ad esempio
da Bjorn Lomborg, autore del libro L'ambientalista scettico (che e' diventato
la bandiera dei neoconservatori antiecologisti) secondo la quale la crisi ambientale
e' colpa dei poveri, non dei ricchi. Come sottolinea Duccio Bianchi nell'edizione
2003 di Ambiente Italia, Lomborg basa le sue ottimistiche previsioni su una
affermazione propagandistica priva di fondamento, e cioe' "che nei prossimi
decenni vi sara' una riduzione dei consumi energetici, un maggior ricorso alle
fonti rinnovabili e una riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra".
In altre parole, che il mondo migliorera' da solo.
"Questo nuovo senso comune - continua Bianchi - dice che l'attuale sistema
economico e' gia' sostenibile, che la spontanea innovazione tecnologica riduce
gli effetti ambientali e che la diffusione della ricchezza (e dell'american
way of life?) comportera' un contenimento dei danni ambientali e un miglioramento
della salute e della tutela dell'ambiente. Anzi, ci dicono, estendendo la ricchezza
e lo sviluppo economico, aumenterà l'efficienza tecnologica, crescera'
nei consumatori il desiderio di aria e acqua pulita, si libereranno risorse
economiche da destinare alla protezione dell'ambiente come e' gia' avvenuto
nei paesi sviluppati. Da qui ne deriva che 'basta' lo sviluppo economico a favorire
la protezione dell'ambiente. Perciò non bisogna introdurre 'esagerati'
vincoli normativi o imporre 'eccessivi' costi di protezione scoraggiando lo
sviluppo produttivo".
La terza considerazione riguarda la conclusione che questo new look comporta:
affidiamoci al mercato, che ci pensera' lui ad aggiustare tutto. In che modo?
L'esempio piu' lampante di cio' che fa il mercato lasciato a se
stesso e' il boom delle vendite dei climatizzatori in questa torrida estate.
Secondo gli economisti che ne hanno scritto sui giornali importanti e' un buon
segno. Anzi, hanno detto, bisognerebbe subito por mano alla costruzione di nuove
centrali, meglio se nucleari, per soddisfare la crescente domanda. Ma piu' climatizzatori
significa piu' consumo di energia, e piu' consumo di energia, con le fonti tradizionali,
significa piu' effetto serra, cioe' ulteriore aggravamento della crisi climatica.
Alla fine del giro tutto e' peggiorato. E' un tipico esempio di feedback positivo,
che tende a destabilizzzare il sistema. Ma e' un fenomeno che gli economisti
non sanno trattare, e per questo lo ignorano. Per loro le forze del mercato
tendono sempre a ristabilire l'equilibrio tra domanda e offerta turbato da eventi
imprevisti esterni al sistema economico. Si tratta pero' di un equilibrio statico,
non dinamico, e questo fa una bella differenza. Questa semplificazione cosi'
drastica della realta' somiglia molto alla nota storiella dell'ubriaco che cercava
sotto un lampione la chiave di casa
perduta al buio altrove, perche' almeno, diceva, li' poteva vederci. Essa e'
doppiamente sbagliata. In primo luogo perche', essendo appunto il feedback un
fenomeno dinamico, la sua eventuale natura destabilizzante non appare mai. In
secondo luogo perche', per applicare la teoria, bisogna ridurre il futuro al
presente, cioe' confrontare costi e benefici di possibili eventi futuri con
quelli delle differenti scelte che potrebbero produrli. E' un confronto che
non solo comporta valutazioni ampiamente soggettive, influenzate da una quantita'
di fattori diversi, ma rischia di diventare puro gioco d'azzardo, come dimostra,
per l'appunto, il cosiddetto mercato dei futures. Per di piu', ridurre l'intero
ecosistema terrestre ai modelli di economia ideale all'equilibrio di Pareto
o di Nash e' pura follia (senza allusioni per la storia personale di quest'ultimo)
soprattutto per ragioni piu' generali. E' infatti insensato ridurre a quantita'
- attribuendo un prezzo
ad ognuna di esse - la infinita varieta' qualitativa delle diverse sue componenti
materiali e immateriali, inerti o viventi; ma, peggio ancora, e' pericoloso,
oltre che eticamente ingiustificabile, ridurre a merci
appropriabili privatamente i beni comuni che costituiscono la base indispensabile
per la sopravvivenza della nostra specie. Si tratta della ben nota "tragedia
dei beni comuni", che sorge quando i vincoli di solidarieta' che tengono
unita una comunita' e ne assicurano la stabilita' futura, si allentano a tal
punto da far prevalere l'interesse immediato di ogni individuo su quello della
collettivita'. I piu' furbi, i piu' forti, i piu' spregiudicati si appropriano
di cio' che era di tutti, lasciando che gli altri si arrangino. Cio' che e'
avvenuto nell'ex Unione
Sovietica dopo il collasso delle sue istituzioni insegna. Non e' vero - sottolinea
a questo proposito il Nobel dell'economia Amartya Sen nel suo libro La ricchezza
della ragione - che la mano invisibile del mercato e'
sufficiente per provvedere al bene comune a partire dagli interessi individuali
dei singoli cittadini. Sono necessarie anche quelle cose che lo stesso Adam
Smith, padre riconosciuto di quella mano invisibile, chiamava "simpatia",
"generosita'" e "senso della collettivita'".
Che fare dunque per contrastare l'ideologia neoliberista, centrata sulla parola
d'ordine "Tutto il potere al mercato", che sta conducendo al deterioramento
irreversibile dell'ecosistema terrestre, e con esso
all'imbarbarimento della civilta' umana e dei suoi valori fondamentali sanciti
dalle Costituzioni di tutti gli stati democratici e recepiti nella Carta dell'Onu?
E' questo il tema che Peter Singer - un filosofo australiano che insegna bioetica
a Princeton - affronta nel suo libro One World che porta il sottotitolo L'etica
della globalizzazione. Esso si apre con un confronto che
puo' apparire provocatorio. Da un lato, il crollo delle Torri gemelle del World
Trade Center causato dai terroristi, e dall'altro l'emissione di anidride carbonica
dai tubi di scarico delle auto sportive che divorano
benzina. Il primo ha causato la morte tragica e istantanea di tremila persone.
La seconda contribuisce a un cambiamento climatico che quasi certamente uccidera'
in modo lento e impercettibile un numero di persone
assai superiore a quello causato dall'episodio piu' impressionante. Dal punto
di vista di un'etica che ponga sullo stesso piano il valore di ogni vita umana
questi eventi sono dunque ugualmente condannabili. Non lo sono tuttavia per
l'opinione pubblica mondiale, soltanto perche' nel secondo caso il legame tra
causa ed effetto viene accuratamente nascosto dai padroni del mondo.
Eppure - argomenta Singer - quando Bush figlio afferma: "non faremo nulla
che danneggi la nostra economia, perche' prima di ogni altra cosa vengono le
persone che vivono in America" (ribadendo il concetto espresso da Bush
padre al summit sulla Terra di Rio de Janeiro del 1992 con le parole "lo
stile di vita americano non e' negoziabile"), dice semplicemente che questo
obiettivo sara' perseguito "anche se mantenerlo provochera' la morte di
milioni di persone soggette a un clima sempre piu' imprevedibile e alla perdita
della terra usata da altre decine di milioni di persone a causa dell'aumento
del livello degli oceani e di inondazioni locali". Non e' forse questa
la risposta piu' ovvia alla domanda "Perche' ci odiano tanto?" che
gli
americani si ponevano angosciati e sbigottiti nei giorni successivi all'undici
settembre? Singer non e', tuttavia, un pericoloso estremista. Dice solo pane
al pane e vino al vino. In particolare, per quanto riguarda l'effetto serra
(ma non soltanto di questo argomento il libro si occupa), le sue proposte sono
assolutamente ragionevoli, graduali e persino moderate. Non e' il caso qui di
entrare in dettagli. Mi limito a riferire che la regola suggerita da Singer,
dopo aver discusso esaurientemente quattro diversi principi possibili e le loro
ripercussioni sulle economie dei paesi piu' o meno industrializzati del mondo,
e' semplicemente: "ciascuno puo' accampare sulle quote del bacino atmosferico
lo stesso diritto di qualunque altro", eventualmente temperata all'inizio
dalla possibilita' di consentire la compravendita dei diritti di emissione tra
paesi che superano la quota consentita e paesi che non la raggiungono. Questo
scambio permetterebbe infatti sia ai paesi industrializzati che a quelli "in
via di sviluppo" di affrontare la transizione con reciproco vantaggio.
Ci si puo' domandare a questo punto se le analisi e le proposte di Singer siano
soltanto un intelligente esercizio di fantasia di un filosofo impegnato, o se
possano anche in qualche modo contribuire concretamente a far crescere l'opposizione
sociale al processo in atto di privatizzazione del mondo descritto con straordinaria
efficacia nel recente libro con questo titolo dello studioso e uomo politico
svizzero Jean Ziegler. Il futuro ci dara' la risposta.
Piu' semplicemente e concretamente, limitandoci ai nostri problemi immediati,
sarebbe gia' una buona cosa se riuscissimo ad ottenere che i temi discussi da
Singer entrassero a far parte della cultura delle forze
politiche del centrosinistra. Purtroppo il loro silenzio sullo scempio di tutta
la legislazione vigente di protezione ambientale che l'attuale ministro dell'ambiente
Matteoli ha iniziato a fare e si appresta a compiere
non e' un buon segnale. Sarebbe il caso che l'Ulivo - che continua ad affermare
la necessita' dell'elaborazione di un programma concreto da presentare agli
elettori come alternativa alla sfrontata demagogia populista
di Berlusconi e dei suoi "ragazzi" - cogliesse l'occasione per dire
la sua su questi temi. Perche' non cominciare, tanto per fare un esempio, a
proporsi di seguire l'esempio della Germania, che e' gia' vicina a
raggiungere l'obbiettivo di Kyoto, accogliendo l'invito di Schroeder a ridurre
entro il 2020 le emissioni di anidride carbonica di un ulteriore 20%?
*Ripreso dalla news letter del Centro di ricerca per la pace di Viterbo, nbawac@tin.it
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