In "Handicap & Scuola", n. 106, novembre-dicembre
2002 (via Artisti 34, 10124 Torino)
La valorizzazione dei disabili attraverso il lavoro
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Andrea Canevaro, docente di Pedagogia Speciale, Università di Bologna
Uno dei personaggi più interessanti e importanti dell'educazione attiva - Baden
Powell, il fondatore dello scoutismo, che va ricordato come una delle componenti
più notevoli proprio dell'educazione attiva - ha affermato che in ogni individuo
vi è un 5% di elementi positivi, sicuramente, e sta a noi, sta a chi si occupa
di educazione, ma anche sta a chi è in relazione, la capacità di scovare quel
5% e di valorizzarlo. Baden Powell ha parlato in termini di percentuale.
Dalle percentuali di invalidità alle percentuali di validità
Ritroviamo questa espressione di percentuale in un altro contesto, quello che
ha caratterizzato a lungo, e in gran parte caratterizza, la definizione di disabilità,
che per la vecchia legge che tutelava il diritto al lavoro delle persone disabili
era espressa in termini di percentuali, per cui si parlava di una percentuale
di invalidità, senza specificare il contesto in cui questa invalidità si produceva
e non facendo riferimento alla percentuale di validità che ogni individuo può
avere. Affermando, ad esempio, che un individuo aveva il 70% di invalidità non
si poteva capire nulla circa il 30% di validità, e se questo potesse o meno
essere valorizzato in un contesto lavorativo o anche in un contesto sociale.
Gli elementi di riferimento in percentuali, quindi, sono contrapponibili: da
una parte un modo di esprimersi sicuramente con una volontà in sintesi da parte
di un educatore che fa riferimento alla grande corrente dell'educazione attiva
e dall'altra una misura di tutela che ha quindi, a volte, i limiti della protezione
eccessiva che sconfina con l'assistenzialismo, cioè una volontà di assistere
ma non di valorizzare. Nella prospettiva dell'assistenza molte volte si è dato
per scontato che una persona con una disabilità non avesse molte possibilità
se non quelle di essere sopportata - sopportata proprio - dalla società. È per
questo che la vecchia legge - riferendomi all'Italia - del collocamento obbligatorio
faceva riferimento alle grandi aziende dove era ritenuto possibile che un posto,
ogni tanti posti di lavoro, fosse in qualche modo sacrificato per sostenere
socialmente un individuo a cui non era richiesta, tutto sommato, nessuna prestazione.
Si poteva quasi considerare che un posto di lavoro ogni tanti posti potesse
essere perduto per ragioni sociali. Cambiando la legge si deve cambiare anche
il parametro e la condizione di conoscenza, ed è interessante che questo percorso
che sembra così recente abbia invece delle lunghe battaglie culturali alle spalle.
Una lunga storia di battaglie culturali per il cambiamento
Vorrei citare unicamente il nostro illustre antenato nella famiglia degli educatori,
Edouard Séguin. Edouard Séguin, nel 1846, sosteneva che era una grave colpa
- e la attribuiva soprattutto ai medici -quella di non rendersi conto di dipingere
sempre lo stesso ritratto, non avendo tempo di conoscere le differenze individuali.
Parlava di quelli che allora venivano definiti gli idioti - parola, questa,
che non aveva alcuna connotazione peggiorativa ma voleva rappresentare con la
derivazione greca una condizione di non identificazione, di non comunanza con
gli altri, voleva rappresentare una singolarità. Edouard Séguin aveva ritenuto
che fosse colpa grave, e la attribuiva appunto ai medici perché allora i medici
avevano soprattutto il dovere e la responsabilità di fornire dei trattamenti
che Séguin desiderava fossero morali, oggi diremmo psicopedagogici educativi,
agli idioti: grave colpa il non prendere il tempo giusto per conoscere le differenze
individuali, e trattandosi di persone che avevano delle condizioni, oggi le
chiameremmo di istituzionalizzazione, cioè di condizioni ristrette ad un solo
luogo che aveva modellato la loro fisionomia e i loro comportamenti, che finivano
per essere prigionieri di uno stereotipo.
Il termine stereotipo è importante nella nostra riflessione, ed è riferito anche
alle categorie. L'abitudine che abbiamo tuttora di ragionare per categorie ci
ha fatto dire a lungo che, per esempio, una persona cieca apparteneva a una
categoria, che aveva alcune possibilità di lavoro di tipo molto stereotipato.
Potevano, i ciechi, non molto tempo fa essere indirizzati soprattutto, a seconda
delle condizioni sociali e di genere, se erano uomini o donne, verso tre lavori:
potevano diventare centralinisti telefonici, massaggiatori o massaggiatrici
e maestri di musica, o musicisti.
Questi tre mestieri erano degni, e permettevano una vita dignitosa, ma erano
molto condizionati 13a un'idea stereotipata delle persone cieche.
Oltre lo stereotipo per categorie: l'evoluzione delle condizioni lavorative
e nuove valorizzazioni della personalità
Si è mosso il panorama, lo scenario, anche a causa dei cambiamenti tecnologici
del lavoro: la posizione di standargista, di centralinista è molto più rara,
molto più facile che vi siano centralini elettroni- ci e non con personale,
la situazione dei massaggiatori è diventata molto meno importante per la cura
del corpo perché esistono prodotti, strumenti anche elettrici, che sostituiscono
l'apporto del massaggiatore rendendo molto più flessibile la cura del corpo
che diventa un lucroso affare di vendite, e la musica è prodotta con molti mezzi
e ha molte più possibilità di diventare un consumo generalizzato attraverso
le sofisticazioni elettroniche, e anche qui, quindi, l'esecuzione diretta diventa
meno ambita, meno importante, meno diffusa, soprattutto. Ma la riproduzione
è molto più facilitata. Questo ha voluto dire anche che, se il processo di cambiamento
delle condizioni di lavoro è accompagnato anche da un processo che chiamiamo
di deistituzionalizzazione, le persone cieche si sono trovate a dovere impegnare
le loro capacità, in un ventaglio di possibilità molto maggiore.
È interessante notare che per quanto riguarda le persone trisomiche in Italia
una importante - forse la più importante - associazione di familiari di persone
trisomiche è nata facendo riferimento all'infanzia e ad un certo punto ha dovuto
cambiare il proprio nome per far riferimento anche alle persone adulte, e questo
è significativo da tanti punti di vista, ma lo vogliamo riferire anche all'idea
che vi era, probabilmente, alla base e cioè che le persone trisomiche fossero
soprattutto bisognose di essere trattate come bambini o bambine, come infanzia,
mentre poi ci si è accorti, conoscendo e sviluppando anche dei progetti, che
le persone trisomiche possono essere adulti, con delle differenze individuali
molto ampie.
E allora è cambiato il nome dell'associazione facendo riferimento a persone
che potevano essere non più rappresentate da qualche familiare, ma loro stesse
attive nell'associazione.
E non è casuale che questo cambiamento è avvenuto anche attraverso delle pratiche
educative che avevano come riferimento fondamentale i percorsi dell'autonomia;
vi era cioè, e vi è, la possibilità di progettare l'assunzione di comportamenti
autonomi in persone trisomiche che avevano delle capacità individuali molto
differenti l'una dall'altra, e quindi con la possibilità di avere delle valorizzazioni
della loro personalità non come categoria.
Nello stesso tempo si è trovato interessante, ed ha avuto bisogno di essere
ben spiegata in un paese che ha scelto la prospettiva dell'inclusione, la necessità
di riunirsi tra loro, tra persone trisomiche adulte, per potere costruire insieme
dei percorsi di mutuo aiuto, una sorta - se vogliamo - di originale forma di
gruppo di auto-aiuto, in cui una certa condizione che apparteneva a ciascuno
dei componenti permetteva e permette di sviluppare, poi, delle autonomie molto
maggiori e di valorizzare le proprie differenze.
Per il lavoro questo ha voluto dire molto, vuoi dire ancora molto, e molto ancora
è da sviluppare. Non è pensabile ragionare in termini di caratteri, di personalità,
di una categoria. La stessa équipe, ed in particolare Lejeune, aveva ricordato
che nella sua ampia attività di consultazione di familiari non poteva fare riferimento
a un solo carattere e a un solo profilo di personalità ma aveva incontrato bambini
e bambine, ragazzi e ragazze, giovani trisomici, che avevano lo stesso ventaglio
di profili di personalità e di caratteri che hanno le persone non trisomiche;
è una popolazione che ha delle fragilità, certamente, ma ha anche le stesse
ampie caratterizzazioni individuali di ogni altra popolazione. Come tutte le
popolazioni che sono in qualche modo "minoranza" hanno delle forti possibilità
di essere anche condizionati, e quindi di avere poi una tipizzazione che rende
più opaca la differenza individuale. Ma questo succede come accade anche con
le minoranze linguistiche, che vengono poi interpretate attraverso alcune tipizzazioni
dei loro caratteri, ma se si analizza con più attenzione la loro vita, si capisce
che questo è più il condizionamento esterno che non una realtà fisiologica,
biologica, psicologica, insita in loro. Stessa questione si può trattare con
la popolazione trisomica, e quindi la possibilità è quella di avere certamente
delle differenze individuali, ma bisogna avere anche un progetto.
Dallo stereotipo "positivo" al progetto individuale valorizzante
Evitiamo, quindi, il trionfalismo che fa dire: "Tutto era un equivoco, basta
accogliere e tutto funzionerà nella migliore delle maniere". Non è esattamente
così, è necessario avere un progetto, è necessario avere un'organizzazione perché
il progetto proceda. La possibilità, certamente, è quella di cadere nello stereotipo
positivo, mettendo fortemente in luce degli aspetti, positivi che ci sono, ma
non sono di tutta una categoria.
Se, ad esempio, ci attestiamo sullo stereotipo positivo del buon carattere,
affermando che tutte le persone trisomiche hanno un carattere gioioso, affettuoso,
gentile, e che quindi possiamo pensare con grande facilità che la loro collocazione
nel mondo del lavoro abbia delle buone possibilità laddove c'è bisogno di avere
persone con queste caratteristiche, noi diciamo una verità non esatta: non è
vero che tutti i trisomici sono capaci di una gentilezza a 360 gradi. Hanno,
come tutti, delle simpatie, delle capacità di giovialità ma hanno, come tutti,
delle antipatie, delle permalosità, delle incomprensioni che possono portare
anche a delle manifestazioni di cattivo carattere.
La valorizzazione è altra cosa; ha bisogno di un impegno, ha bisogno di sfuggire
alla superprotezione ma non deve cadere nel suo opposto: l'abbandono, il lasciar
sola una persona; ha bisogno certamente di un'organizzazione stabile ma non
può diventare un'organizzazione estremamente e solo ripetitiva. Ha bisogno di
tenere conto di una serie di variabili che sono proprie di una possibile fragilità,
e che hanno la necessità di essere esaminate, situazione per situazione, individuo
per individuo. Il cambiamento di collocazione di un'azienda ha sviluppato in
un individuo trisomico che vi lavorava con molta tranquillità ed efficacia va
sottolineato questo aspetto ha provocato una disaffezione improvvisa al proprio
lavoro. La condizione in cui si trovava, la nuova collocazione aziendale, era
in una di quelle zone industriali in cui mancano totalmente le piccole infrastrutture
residenziali precedenti.
La precedente collocazione era, invece, in una zona in cui vi erano altre attività
di piccolo commercio: vi erano bar, vi erano tabaccai, vi erano negozi, e la,
possibilità, andando al lavoro, negli intervalli uscendo dal lavoro, di avere
scambi sociali era uri elemento sostanziale per questa persona trisomica. In
un nuovo contesto in cui mancavano questi scambi sociali vi era stato un improvviso
calo, ma molto forte, di motivazione ad andare a lavorare, per cui questa persona
trisomica evitava di sentire la sveglia della mattina, non sentiva i familiari
che lo volevano avviare verso il lavoro, e c'è voluto di nuovo una riorganizzazione
molto attenta alla rimotivazione per riprendere il suo lavoro, che è stato poi
fatto con soddisfazione sia sua che di tutti, perché il suo ruolo, nell'azienda,
era attivo, era positivo, quindi la sua assenza non era indifferente.
Vicende di questo genere sono continue; si può trattare di qualcosa che sfugge
all'occhio di chi lavora perché avviene nell'ambito familiare; un cambiamento
di organizzazione della famiglia, di invecchiamento dei familiari, il matrimonio
di una sorella, di un fratello, e quindi l'uscita di casa di un membro del nucleo
familiare, tutto comporta una possibilità di cambiamenti con ripercussioni sul
lavoro che forse sono improvvise, per cui non si è chiarito, non è chiaro che
cosa è accaduto per cui quella persona trisomica, uomo o donna, improvvisamente
ha dei processi di deterioramento delle proprie condizioni, delle proprie prestazioni.
Ed è facile ricadere in spiegazioni che sono stereotipate, parlando ad esempio
di4nvecchiamento precoce, di inevitabile usura che la trisomia comporta, di
fatti misteriosi che sono propri di una situazione deficitaria. Tutto questo
non è poi vero, e quasi ogni volta usiamo quasi perché non siamo mai per gli
assoluti ma potremmo dire tutte le volte che abbiamo potuto esaminare con maggiore
attenzione la situazione ci siamo resi conto che non c'era questa fatale dinamica
di declino dovuta alla trisomia ma erano fattori di contesto.
Progettare l'intreccio della "rete sociale" …..
Vi è quindi la possibilità di arrivare a vedere come sia utile organizzare,
progettare l'intreccio di due elementi che sono da una parte la rete sociale
e dall'altra quelle che vengono definite le buone pratiche. Ora, la rete sociale,
molte volte si dice essere in crisi, nel senso che la rappresentazione che avevamo
delle reti sociali non è più molto presente nelle quotidianità. Si trattava
di reti sociali costituite da vicini di pianerottolo, da caseggiati, da cortili,
da negozi che permettevano alle persone di incontrarsi prendendo il pane. Le
abitudini sono cambiate, le persone il più delle volte usano le automobili per
spostarsi, mezzi pubblici, gli orari di lavoro fanno sì che vi siano più concentrazioni
di spesa nei grandi magazzini, dove si incontra chiunque, ma nessuno che potrebbe
essere proprio coloro che costituiscono la rete sociale, lo stesso caseggiato
diventa più un'organizzazione perché il cortile sia occupato dal posteggio,
dalle macchine, la scala sia anche considerata con qualche rischio di brutti
incontri.
Mancano quindi delle occasioni che un tempo c'erano e vi sono più dei grandi
mezzi di comunicazione a impegnare il tempo libero: si parla molto della televisione,
certamente, anche i videogiochi fanno la loro parte, e chi cresce, e poi chi
è cresciuto, non ha apparentemente più nessun supporto dalla rete sociale.
Anche questo potrebbe essere un modo di leggere le cose stereotipato, è un'immagine
della rete sociale, forse bisogna pensare ad altre immagini, nascono le associazioni,
che hanno dei grandi meriti.
Le associazioni dei familiari hanno i grandi meriti di ripensare le reti sociali;
devono porre attenzione a non pensarle per categoria, non chiudere per categorie,
ma ad aprire, a permettere una riorganizzazione anche attraverso le forme che
vengono chiamate di volontariato, parola che poi si sviluppa in molti modi;
ci sono molti modi di fare volontariato, ed è bene che sia cosi.
Le reti sociali, quindi, sono importanti, gli stessi operatori che hanno delle
specifiche competenze devono pensare che non è più il tempo, grazie alla prospettiva
dell'inclusione, per cui di trisomici si occupano unicamente gli specialisti,
ma devono essere complementari, quindi sapere interagire con competenze diffuse
che sono anche quelle di chi serve da bere il caffè, gli aperitivi, in un bar,
devono essere complementari a chi si occupa di trasporti pubblici, devono sapere
interagire e a loro volta coloro che hanno dei compiti di altro genere conduttori
di autobus, camerieri di caffè, venditori di negozi devono sapere che possono
incontrare delle persone trisomiche o più in generale delle persone disabili,
delle persone in carrozzella, e devono non pensare che non sia loro- compito
saper trattare, nel ruolo certamente, queste persone quindi devono rivolgersi
eventualmente anche agli altri operatori per sapere come fare, ma deve esserci
anche una diffusione di conoscenze che permetta a tutti, non solo ad alcuni,
di mettere in crisi gli stereotipi che accompagnano la nostra vita.
Per questo è utile pensare a delle forme di conoscenza che siano a disposizione
di coloro che non sono specialisti ed e in questo senso che abbiamo lavorato
per costruire un ipertesto, su CD-ROM, che permetta la conoscenza di storie
di vita, la conoscenza delle regole del lavoro, ma delle variabili individuali
che sono all'interno della popolazione trisomica e che permettono di evitarne
una tipizzazione categoriale.
…… e delle "buone prassi"
Dall'altra parte le buone pratiche: alcune buone pratiche sono già state
introdotte. Di cosa parliamo intendendo per buone pratiche? Parliamo di qualcosa
che permetta di evitare di considerare la singolarità come un incidente, ma
di ammetterla in una riorganizzazione del lavoro, delle mansioni sociali del-
1 organizzazione sociale stessa, riorganizzata in termini tali da consentire
la pluralità che siamo di avere pratiche costanti, che tenga conto delle singolarità.
Spesso abbiamo utilizzato, per capirci una rappresentazione di quella che può
essere una stazione ferroviaria; una stazione ferroviaria può avere due modelli
di riferimento: uno è quello che permette a una persona disabile di avere dei
servizi a parte e tutti disposti per favorire l'accesso alla stazione e l'accesso
ai treni, la costruzione del suo percorso di viaggio attraverso dei rapporti
più accoglienti e senza utilizzare, forse, lo sportello abituale perché forse
o non vi arriva o non sente, ecc., quindi una sene di disposizioni particolari.
Ma noi sappiamo come la grande quantità delle persone che si servono di una
stazione appartiene non solo ai disabili come categoria ma anche a coloro che
hanno delle difficoltà transitorie, ad esempio una signora incinta ha sicuramente
delle difficoltà che sono analoghe simili a quelle di alcuni disabili. La persona
anziana la persona con grandi bagagli e bambini da accudire la persona immigrata,
quello che è andato a sciare e si e rotto una gamba, tutti hanno, quindi delle
possibilità di avere delle differenze, e la buona prassi vuoi dire seguire,
allora, non più un modello di per- corso separato per chi ha delle necessità
particolari ma un'organizzazione per tutti che preveda queste differenze.
Queste sono le buone prassi.
Esperienze nella nuova organizzazione del collocamento obbligatorio
Sul lavoro è la stessa cosa: pensiamo al reclutamento, all'individuazione,
quindi, delle competenze che rispondano alle necessità di un'azienda Nella nuova
organizzazione del collocamento obbligatorio per l'Italia vi è proprio la necessità
di avere delle banche dati che permettano di collegare con efficacia le qualità
di un individuo, le competenze da sviluppare, anche quindi non inerti ma con
un impegno di un individuo, con le necessità che ha una piccola grande azienda.
E vi è la necessità di passare attraverso una conoscenza diversa. Abbiamo l'esperienza
che la conoscenza che molto spesso si crede di avere può essere iniziata dallo
stereotipo e quindi molto utile abbiamo ritenuto nelle nostre esperienze dirette,
permettere, favorire, delle conoscenze parziali attraverso, per esempio, delle
borse-lavoro degli stages in azienda che non impegnino immediatamente l'azienda
a prendere una decisione definitiva ma che permettano invece una conoscenza
diretta. Allora, poi, bisogna avere molta cura nel non fare accedere alle aziende
le persone che sono assolutamente inidonee a quel lavoro quindi l'orientamento
diventa molto, molto importante e interessante, e la possibilità che una persona
possa prestare un servizio parziale in un'azienda e mettere insieme un tempo
pieno lavorativo attraverso un servizio che si svolge in più piccole aziende,
e quindi la possibilità di utilizzare in maniera positiva quello strumento che
viene definito anche "il lavoro in affitto", che spesso ha molte critiche, che
sono anche condivisibili, perché può sviluppare delle forme di sfruttamento.
Può essere però anche utilizzato, invece, positivamente quando vi sia un intermediario
forte, e le cooperative sociali possono avere questo ruolo importante per mettere
in grado una persona disabile - parliamo più specificamente d'una persona trisomica
- di svolgere dei compiti che valorizzano la stessa persona ma che non sono
tali da poter impegnare a tempo pieno in una piccola azienda; hanno bisogno
di più aziende che hanno quel bisogno e tutte, quindi, hanno la possibilità
di una valorizzazione dell'individuo, uomo o donna trisomica, ma c'è bisogno
di qualcuno che assuma una regia'e anche un'organizzazione del lavoro, e queste
persone possono essere le cooperative sociali.
Questo è un elemento che può essere sviluppato e anche approfondito molto meglio
in dettaglio in altre occasioni ma che va a rinforzare l'idea che le buone prassi
sono necessarie non per consentire le eccezioni ma per assorbire, integrare
le eccezioni in una organizzazione per tutti.
E così anche va ricordato che questo rinforza l'idea che ci voglia una capacità
di progetto; gli avvenimenti non vanno da soli avanti in un senso positivo perché
abbiamo deciso che c'erano degli equivoci, li abbiamo chiariti e tutto procede
per il meglio. No, i trisomici rimangono trisomici, rimangono con delle caratteristiche
tali per cui c'è bisogno di un'attenzione particolare questa attenzione particolare
non può e non deve ricadere in forme di stereotipi, ha bisogno di essere capace
di incontrare le singole persone nella loro originalità e anche, se si può dire,
nella loro libertà perché abbiamo bisogno di sentire questo non come un vincolo
che ci impedisca di sviluppare le nostre caratteristiche, ma come un segno grande
di forza della libertà.
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