L'integrazione
scolastica in Italia: un'esperienza che viene da lontano
Marisa Pavone, Università di Torino
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Riportiamo la relazione che l'autrice ha tenuto al Convegno nazionale "Disabilità:
dall'integrazione scolastica all'inserimento lavorativo", promosso dalla FADIS
(Federazione associazioni docenti per l'integrazione scolastica) ad Ancona il
9 marzo 2002.
L'integrazione scolastica degli allievi disabili è un processo che viene da
lontano e va lontano. In questo cammino non si accontenta di trovare delle risoluzioni
circoscritte, come ad esempio l'applicazione di una particolare tecnica riabilitativa,
o di una specifica tecnica di istruzione quale, ad esempio, la comunicazione
facilitata, o i differenti linguaggi e metodi riferiti alle diverse tipologie
di deficit. L'integrazione di un allievo in difficoltà non coincide con questi
aspetti, anche se sono imprescindibili; non si esaurisce neppure nella elaborazione-realizzazione
di un piano educativo individualizzato, per quanto ben costruito questo possa
essere. Non si accontenta di un intervento di tipo monodisciplinare, monoistituzionale,
monoprofessionale, monotematico.
L'integrazione coinvolge più ambienti e interlocutori. La complessità dei bisogni
educativi di un allievo con minorazione - complessità non riducibile alla categoria
del deficit - propone, non impone purtroppo - un dialogo, un confronto, un cammino
da percorrere insieme ad altri. E' un'esperienza che viene da lontano nel tempo,
una storia cominciata trent'anni fa, all'inizio degli anni '70 e che strada
facendo ha agganciato altre storie.
Lontano nel tempo
Una scrittrice di favole Clarissa Pincola Estess, autrice de Il giardiniere
dell'anima dice: "Come matrjoske, le storie stanno l'una dentro l'altra.
Una storia è una persona viva e cara, sicché ci pare affatto sensato, così come
un amico invita un altro amico a unirsi alla conversazione, che una certa storia
ne richiami un'altra, la quale, a sua volta, evoca una terza e di frequente
anche una quarta e una quinta e talvolta parecchie altre storie ancora, finché
la risposta a un'unica domanda ha la lunghezza di tante storie in fila".
All'inizio degli anni '70 la preoccupazione prevalente era avere assicurazione
che l'allievo disabile fosse "istruito" nella scuola comune; di conseguenza,
poteva accadere che, in funzione delle difficoltà di accesso all'istruzione
da parte del disabile, si potesse commentare: "forse non sta bene nella scuola
insieme agli altri". Nel giro di pochi anni, ci si è resi conto che la finalità
univoca dell'istruzione delineava una prospettiva asfittica, troppo chiusa,
riduttiva. E' diventato importante, direi necessario, dilatare l'obiettivo dell'integrazione
scolastica, superando i confini del concetto di istruzione, tanto da prevedere
anche la dimensione della formazione, della educazione, che copre un ambito
più omnicomprensivo, pluridimensionale. A questo proposito, penso agli interventi
normativi orientati ad arricchire i curricoli didattici, di progetti educativi
individualizzati, di attività integrative, di sostegno.
Un'altra storia importante, ben innestata nella grande storia dell'integrazione,
risale alla fine degli anni '80, con la famosa sentenza della Corte Costituzionale,
con la quale i giudici hanno aperto di diritto le porte della scuola secondaria
di secondo grado agli allievi disabili, affermando principi di alto profilo
umano. Primo fra tutti, che non è valida sul piano scientifico la concezione
di radicale irrecuperabilità: disabile non è sinonimo di incapace; contrariamente
a questa enunciazione, ancora oggi capita di leggere diagnosi mediche pesanti
come un macigno, che non concedono speranze di evoluzione positiva, anche se
riferite a un bambino in tenera età. Ancora, il dispositivo ha sottolineato
che l'integrazione scolastica è molto importante ai fini del recupero, della
socializzazione, dello sviluppo cognitivo. Inoltre, ha affermato che l'istituzione
scolastica, prima di formulare giudizi sulla presunta irrecuperabilità, ha il
dovere di operare per ridurre quegli impedimenti ambientali, organizzativi,
personali, che possono inibire lo sviluppo. Infine, la sentenza ha affermato
che la frequenza della scuola è funzionale all'inserimento lavorativo e sociale,
prefigurando quel percorso di collegamento con l'extrascuola, che oggi chiamiamo
"progetto di vita". Fin qui il processo di inclusione considera che sia l'allievo
in difficoltà a doversi integrare nel contesto: è il caso isolato che si deve
sintonizzare con l'ambiente classe, presumibilmente omogeneo. Un salto di qualità,
una storia nuova, che alimenta il processo integrativo di rinnovate suggestioni
giunge negli anni '90, in virtù di tre aspetti. Primo, la legge quadro sull'handicap,
che pur nella sua complessità, pur fra luci ed ombre, per quel che riguarda
l'ambito scolastico è piuttosto chiara.
Quali, fra le indicazioni più pregnanti della legge quadro, è il caso di ricordare?
Intanto, che il processo di integrazione richiama la programmazione coordinata
di servizi; quindi chiama in causa non solo la scuola, ma altre istituzioni
e le invita ad accordarsi, a procedere come una "mente integrata", secondo un
progetto condiviso. Si tratta di un risultato ben difficile da realizzare, ce
ne rendiamo conto.
Un'altra indicazione molto interessante, è il richiamo alla continuità educativa
e all'orientamento: un processo di orientamento non di tipo "sincronico finale"
- che arriva come un giudizio alla fine della terza media o a conclusione dell'anno
scolastico obbligatorio - ma che, viceversa, deve essere costruito strada facendo;
una funzione orientativa che procede con lo sviluppo scolare stesso, e si attiva
molto prima della scuola media. Un ultimo stimolo importante della legge quadro
è il riferimento all'importanza della flessibilità nell'uso di strutture, di
materiali, di attrezzature.
Seppur fra luci ed ombre, possiamo ritenere che la legge quadro abbia introdotto
un differenziale di qualità, cioè un'indicazione a leggere il processo di integrazione
come un percorso che si costruisce nel tempo, ponendo al centro dell'attenzione
l'esperienza scolastica e sociale dell'allievo in situazione di handicap, ma
coinvolgendo più istituzioni.
Negli anni '90 ci sono almeno altri due momenti della storia dell'integrazione
da considerare. Uno è legato all'autonomia scolastica: una grande risorsa in
favore degli studenti disabili se assume il valore dell'integrazione in senso
strutturale. Ad esempio, se la assume come scelta fondamentale nel piano dell'offerta
formativa della scuola, sia a livello di enunciazioni di principio, sia traducendola
in dimensioni curricolari (quindi nell'insegnamento disciplinare), organizzative
(quindi nella gestione degli spazi e dei tempi della scuola), didattiche (quindi
nel quotidiano dell'esperienza scolastica d'aula).
Una ulteriore suggestione un po' più sofisticata, più difficile da tenere sotto
controllo, viene dagli studi condotti da esperti di fama internazionale, che
invitano a interpretare la particolare condizione dello studente disabile come
appartenente ad una categoria più generale, che compete anche ad altri studenti:
quella di essere soggetti con "bisogni educativi particolari". Non si tratta
di una questione nominalistica. La nuova terminologia suggerisce un atteggiamento
più educativo, più propositivo nei confronti dei disabili (sappiamo quanto siano
importanti le disposizioni mentali!); cioè considerare che la situazione di
handicap esprime un bisogno educativo particolare, alla stessa stregua di quelli
manifestati in classe da altri allievi. Prendiamo ad esempio gli allievi con
disturbi di apprendimento: sappiamo bene quali grosse problematiche aprano,
quali sfide educative propongano agli insegnanti! Non esiste, nella classe,
solo la particolarità dell'allievo handicappato, che comunque va tenuta presente
e rispettata; ne esistono altre. E' allora opportuno che gli insegnanti si dispongano
a pensare che la loro è una classe eterogenea, che ci sono tanti bisogni: alcuni
di questi sono meglio identificabili, richiedono interventi più qualificati.
Questo suggerisce dei criteri meno emarginanti, per esempio, nell'assegnazione
delle risorse, o nell'approccio alle situazioni individuali. L'integrazione
è un processo che viene da lontano nel tempo; ho cercato di indicarne alcune
tappe: gli anni '70, gli anni '80, gli anni '90.
Lontano nello spazio
Viene da lontano anche in senso spaziale e strutturale, perché i circuiti per
realizzarla sono trasversali. Di nuovo si evidenzia che l'integrazione non si
alimenta di prospettive circoscritte, per esempio circoscritte al rapporto a
due - insegnante di sostegno/allievo in situazione di handicap - "meglio" se
in una piccola auletta ben identificata, o in un laboratorio attrezzato. Tale
scelta "separatista", segregazionista, costituisce un limite all'integrazione
che, come abbiamo detto, deve coinvolgere l'intero contesto e i suoi cardini,
la globalità della proposta formativa della scuola.
Nel piano dell'offerta formativa scolastica dovremmo trovare scelte conclamate
a favore dell'integrazione degli allievi con bisogni educativi particolari,
non solo degli handicappati: è da considerarsi po' sospetta la dichiarazione
di principio per cui solo i disabili devono essere integrati. E gli altri? Il
processo di integrazione non riguarda solo una categoria di studenti, concerne
invece tutti gli aspetti della vita della scuola e tutti gli attori. Viene allora
da lontano questa idea di integrazione, perché si espande, si allarga al tessuto
connettivo della scuola.
Alcuni studiosi - tra questi Andrea Canevaro - suggeriscono criteri per l'individuazione
della qualità di una integrazione scolastica. Con chi sta l'allievo handicappato?
Con chi stanno gli allievi con bisogni educativi particolari? Soltanto con l'insegnante
di sostegno? Con quali altri insegnanti? Con l'educatore, con l'assistente?
Dove sta l'allievo handicappato? Quali spazi utilizza? Spazi a lui dedicati
e solo quelli, oppure gli spazi comuni a tutti? Utilizza i materiali di tutti?
E i materiali e le attrezzature sono accessibili a tutti, o sono materiali e
attrezzature che selezionano di fatto l'accessibilità per alcune categorie di
studenti? Con quali finalità educative e su quali obiettivi disciplinari è elaborata
la progettazione? Obiettivi individuali?
Sappiamo bene che il progetto educativo individualizzato può trasformarsi in
uno strumento sofisticato di isolamento dell'allievo, se non si procedere ad
un lavoro puntuale di raccordo tra il PEI e la programmazione di classe, a cura
degli insegnanti del team. L'integrazione dell'allievo handicappato dovrebbe
coinvolgere anche la dimensione delle regole - diritti e doveri - che organizzano
la vita degli attori della scuola. Integrazione che attraversa strutturalmente
l'assetto della scuola: non solo coinvolge la dimensione organizzativa interna,
e i rapporti con l'extrascuola, ma anche l'esercizio professionale dei tecnici
e degli attori che interagiscono.
Lontano perché interessa più attori
E' un'esperienza che viene da lontano anche perché interessa più attori:
gli insegnanti - non solo quello di sostegno o l'educatore ad personam-
ma anche gli insegnanti cosiddetti curricolari.
Da chi viene elaborato il piano educativo individualizzato? Solo dall'insegnante
di sostegno? O coinvolge la responsabilità educativa di tutti i docenti di classe?
Così dovrebbe essere. Il piano educativo individualizzato viene elaborato solo
dagli insegnanti? O coinvolge anche la famiglia dell'allievo? Si chiede la firma
ai genitori solo al momento in cui il documento deve essere ttrasmesso agli
uffici amministrativi? La sua stesura coinvolge gli specialisti, l'educatore?
Coinvolge in qualche misura i compagni di classe? A tale proposito, oggi si
parla molto di esperienze che impegnano gli allievi come fonti di insegnamento,
in situazioni di apprendimento cooperativo o di tutoring.
L'integrazione è un'esperienza che viene da lontano perché dovrebbe coinvolgere
il punto di vista di tutte queste professionalità, senza sollevare nessuno di
loro dalla "responsabilità" della cura educativa. Spesso avviene il contrario:
ad esempio, si sollevano dalla responsabilità educativa gli insegnanti curricolari
perché "tanto c'è l'insegnante di sostegno"; si sollevano dalla responsabilità
della cura educativa i genitori, perché "tanto ci pensa la scuola". Se qualcuno
degli interlocutori viene tenuto ai margini, probabilmente la qualità dell'integrazione
ne risente.
L'integrazione viene da lontano e stimola a guardare lontano, perché nel momento
in cui ciascuno - insegnante, genitore, specialista, altre figure educative,
i compagni - propone il suo progetto, deve tenere presente che ci sono altri
progetti, altri tempi e spazi. Occorre ricordare che l'allievo che frequenta
la scuola ha anche esperienze al di fuori dell'ambiente scolastico, con i genitori,
gli amici, i terapisti. Si deve tenere presente che la scuola dura per un certo
arco di tempo nella giornata; questo dovrebbe invitare gli insegnanti a superare
l'autoreferenzialità, tenendo conto che esistono altri tempi e spazi al di là
dell'esperienza scolastica. Il discorso vale anche per gli specialisti della
sanità: nel momento in cui propongono interventi riabilitativi - e sappiamo
che la vita di uno studente disabile dedica molte ore nella riabilitazione -
lo specialista dovrebbe tenere conto che c'è anche un tempo della scuola e un
tempo della ricreazione; quest'ultimo troppo spesso assente dall'esperienza
esistenziale del disabile.
Concludo ricordando che l'esperienza di integrazione viene da lontano e va lontano,
nel senso che non possiamo mai ritenere che sia giunta al termine, come una
conquista finalmente raggiunta. Ci saranno momenti di regressione, di entropia,
corsi e ricorsi; ma la ricchezza sta nella disponibilità a stimolare ulteriori
ricerche, considerando ogni traguardo come una tappa che può essere superata
da altre tappe. Come giustamente ha sottolineato Adriano Milani Comparetti,
fratello di don Milani, la disponibilità che ogni istituzione mette in campo
per far posto alla creatività propositiva dell'allievo disabile, si esprime
con un aumento della creatività propositiva dell'istituzione stessa. L'integrazione
è un'esperienza che dovrebbe far crescere tutti, un'esperienza generativa, complessa,
una sfida piuttosto difficile e nello stesso tempo debole: si costruisce nelle
esperienze del quotidiano. La legislazione dispone che gli handicappati devono
essere integrati nelle classi scolastiche comuni, ma sappiamo bene che i doveri,
le idealità fanno i conti con le difficoltà che incombono giorno dopo giorno.
Occorre perseguire una sempre migliore armonia tra le idealità e le realizzazioni
concrete. Secondo me questa è la sfida di ricerca che un'integrazione che vuole
andare lontano, oggi propone.
Ho aperto con una metafora, un pensiero di Clarissa Pincola Estess, paragonando
l'integrazione a una storia che richiama altre storie. Traggo la metafora conclusiva
dall'ambiente musicale, il Bolero di Ravel. Tutti lo conosciamo: è' una bellissima
esperienza musicale che prende le mosse in sordina, con il suono di un flauto;
piano piano, senza che quasi ce ne rendiamo conto, strumento si accompagna a
strumento, fino a concludere con una celebrazione d'orchestra, in cui tutti
gli strumenti musicali suonano in armonia. Mi sembra che l'integrazione scolastica
possa convivere bene con questa metafora: nasce nel piccolo e passo dopo passo,
anche se non obbligatoriamente, si può espandere fino a comporre una sonata
d'orchestra.
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