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Convegno, Mainstreaming in education, Roma 14 giugno 2002 (torna all'indice informazioni) Questo intervento tenta di intrecciare alcuni elementi di storia della costruzione di un modello italiano per l'integrazione e utilizza per questo alcune pagine, utilizzando in parte un metodo che potrebbe definirsi anche antologico. Riprendiamo citazioni di autori che hanno contribuito in maniera determinante a elaborare un modello, quello che stiamo vivendo riproponendolo e, in qualche misura, difendendolo e valorizzandolo. Abbiamo con questo la possibilità di riprendere tracce di un passato recente, che a volte vengono cancellate o perché vi sono altri passaggi che si sovrappongono o perché vengono dimenticate, e non si vanno più a vedere. Come eravamo Negli anni che sono compresi fra il 1960 e il 1970, in Italia vi è un fenomeno di emigrazione interna imponente. Le ragioni economiche dello sviluppo industriale fanno nascere vere e proprie città satellite, e gli spostamenti dalle campagne alle città, dal sud al nord, trasformano la vita di intere comunità. Inevitabilmente, la scuola entra in questo scenario di trasformazioni, dovendo affrontare situazioni che la investono di nuove responsabilità. In un primo tempo, di fronte alle conseguenze che si traducono in difficoltà di apprendimento è l'Italia dei dialetti, e un bambino o una bambina calabrese, o del Veneto, trapiantato a Torino, ha difficoltà notevoli -, la risposta è costituita da percorsi differenziati, ovvero classi differenziali e scuole speciali. L'alto numero di queste soluzioni crea una reazione: accogliere tutti i bambini e tutte le bambine, quale che sia la loro condizione, nelle classi ordinarie. Nasce la prospettiva dell'integrazione. In alcune pagine di Aldo Zelioli, pubblicate nel 1977, troviamo le analisi dei dati che riguardano le classi e il numero dei posti nelle classi speciali. Parliamo dell'anno scolastico 1963-1964. Annota Zelioli: "anno dal quale incominciano a sentirsi gli effetti delle leggi di bilancio sul finanziamento delle équipes psico-socio-pedagogiche e dell'assistenza igienico sanitaria e didattica agli alunni handicappati, [i posti nelle classi speciali] erano 2247". E leggiamo - sempre da Zelioli -che questi posti "registrano un costante incremento negli anni successivi passando a n. 3394 nel 1965-66, a n. 4743 nel 1968-69, a n. 5876 nel 1970-71, fino a giungere nel 1973-74 a n. 6790, che èla punta massima di incremento, per passare nel 1974-75 a n. 6692. I dati non ufficiali del 1975-76 segnano una leggera flessione che però, come vedremo, non prospetta la realtà di quanto è effettivamente avvenuto". Continuiamo a citare Aldo Zelioli, che scrive: "Esaminiamo ora alcuni dati relativi alle classi dzfferenziali, sempre nelle scuole elementari: nell'anno scolastico 1963-64 i posti erano n. 1133, l'incremento negli anni successivi in questo settore è imponente: si passa a n. 1831 posti nel 1965-66, a n. 5106 nel 1968-69 e a n. 6199 nel 1970-71, superando in quell'anno il numero delle classi speciali che era sempre stato maggiore. Si verifica poi un forte calo: infatti nel 1974-75 si registrano n. 3376 posti, ma in realtà sono ancora meno per effetto della graduale trasformazione delle classi differenziali in classi comuni poi in sezioni in cui si operano interventi settoriali a tempo parziale su alunni che presentano deficit particolari, o per effetto dell'utilizzo degli insegnanti in azioni di recupero o di sostegno per i soggetti in difficoltà. Dall'esame dei dati sopra citati si può affermare che fin verso l'anno scolastico 1970-71 essi ci danno un quadro abbastanza fedele della situazione di fatto esistente nel settore dell'insegnamento speciale e differenziale nell'area della scuola elementare. Da allora in poi il quadro che si rivela è falso, mancando la coincidenza fra i dati ufficiali e la realtà, anzi, i dati statistici ci fanno deviare da un giudizio esatto sulla situazione. Perché il quadro è falso? Perché è in atto un processo non programmato di smantellamento delle scuole speciali e di inserimento indiscriminato di alunni handicappati nelle scuole comuni che gli organi ufficiali non riescono a seguire. Aggiungasi una certa riluttanza dei provveditori agli studi a ridurre gli organici delle scuole speciali e a disperdere cosi gli insegnanti specialisti di cui, d'altro canto, si sente grandissimo bisogno. Aggiungasi la resistenza sindacale inevitabilmente presente quando si tratti di dimensionare, magari soltanto spostandoli, i posti di insegnante. Aggiungasi, infine, una estrema incertezza normativa che da adito ai più disparati modi di comportamento in un campo già di per sé tanto difficile da inquadrare in ambiti ben precisi. Le azioni conseguenti alla contestazione delle istituzioni speciali e al movimento per l'integrazione degli alunni nelle strutture scolastiche comuni sono tutti fatti che, per il loro carattere extralegal e, sfùggono alla registrazione statistica. Ed anche quando sono registrati, non sono comparabili perché derivano non da azioni amministrative programmate, ma da moti spontanei di reazione di assestamento che solo in tempi successivi potranno essere studiati, razionalizzati e misurati con criteri obiettivi. Per ora, se vogliamo conoscere qualcosa, dobbiamo tralasciare la statistica scendendo sul terreno per verificare quanto avviene nelle singole zone e nelle diverse istituzioni. L'ondata della contestazione nei confronti delle scuole speciali, definite discriminanti e segreganti, all'inizio degli anni '70, ha investito più o meno tutte le province del nostro paese con effetti diversi a seconda delle diverse condizioni socio-culturali e delle diverse strutture scolastiche esistenti. Le punte polemiche più acute fra i fautori dell'integrazione degli alunni "diversi" nelle scuole comuni e i sostenitori della necessità della permanenza nella scuola almeno per i soggetti più gravi, polemiche spesso enfatizzate dalla stampa con prese di posizione politica di assai dubbia opportunità, sembrano un poco sopite ovunque. Permane tuttavia uno stato di disinformazione sui reali problemi dell'educazione speciale che non facilita certamente la loro soluzione. Il dilemma 'integrazione o 'segregazione' ha portato, in modo invero assai semplicistico, ad un altro dilemma: abolizione o mantenimento delle scuole speciali? Questo è un falso dilemma perché tutte le ragioni, e sono molte, che oggi fanno propendere per l'integrazione più ampia possibile dei soggetti handicappati nelle scuole comuni non portano necessariamente allo smantellamento delle scuole speciali e nel passato hanno sperimentato positivamente l'affinamento di quelle tecniche di trattamento individualizzato che bisognerebbe portare anche nelle odierne scuole aperta alla integrazione" (A. Zelioli, 1977, pp.1 05-107). Il testo che abbiamo ampiamente citato contiene molti degli elementi che fanno pensare a un modello in continuo divenire e che deve tenere conto di spinte dal basso e di necessità organizzative e legislative - di cui lo stesso Aldo Zelioli fu interprete in quegli anni, ed è oggi un testimone prezioso straordinariamente efficaci. Aldo Zelioli che criticava le posizioni assunte - extralegali, che sfuggono quindi alla possibilità di un computo istituzionale - era però anche, all'epoca, l'ispettore che guardava con più speranza e più fiducia alla possibilità di creare un sistema di integrazione nelle scuole ordinane. Erano gli anni di grande mobilità interna della popolazione; gli anni della costruzione di intere nuove città periferiche, e vi era quindi una mobilità che portava ad avere a nord bambini del sud, nelle città bambini e bambine delle campagne, con tante questioni aperte ad esempio - per l'apprendimento della lingua italiana, della scrittura. I riferimenti culturali di bambini e di bambine erano in contesti diversi da quelli in cui avevano potuto crescere i loro genitori, vivere e avere una loro contestualizzazione culturale. Le difficoltà di apprendimento, in questo senso, erano certamente numerose ma avevano come conseguenza, anche per meccanismi amministrativi, la costituzione, che abbiamo visto essere divampata, di classi differenziali e di classi speciali. Le due situazioni, 'classi differenziali' e 'classi speciali', facevano però parte di una costruzione "separata" che veniva posta sotto accusa. In quegli anni, un altro funzionario tecnico del Ministero della Pubblica Istruzione, Antonio Augenti, aveva la possibilità di rilevare l'inadeguatezza dei provvedimenti realizzati e la moltiplicazione delle classi differenziali e delle scuole speciali, moltiplicazione che "viene considerata la macchia di una politica scolastica tendente alla emarginazione e alla segregazione" (A. Augenti, 1977, p. 21). Vi era la percezione collettiva delle classi speciali come macchia, come elemento che non consentiva di esserne fieri, e Antonio Augenti, dirigente superiore, consigliere ministeriale presso il Ministero della Pubblica Istruzione, lo rilevava con convinzione, ritenendo che bisognasse lavorare per un superamento di quella che veniva definita "segregazione". Ma Aldo Zelioli, uno dei fautori dell'integrazione, sosteneva che la contrapposizione fra classi speciali e integrazione fosse un falso problema, perché occorreva integrare le competenze degli insegnanti "speciali" nel quadro delle classi ordinarie. E' da li che nasce un modello che ha subito diverse necessità di aggiustamenti, e che lo stesso Aldo Zelioli ha contribuito a realizzare, con l'interpretazione di un supporto speciale, e quindi di un sostegno specialistico, all'interno delle classi normali, e non dell'eliminazione della struttura speciale in sé: piuttosto la sua disseminazione perché raggiunga il soggetto in un contesto di socializzazione, con la possibilità di essere, in una classe ordinaria e di mantenere la risposta ai propri bisogni speciali in maniera precisa e con personale tecnicamente preparato. Nelle pagine di Aldo Zelioli si trovano già concentrati tutti gli elementi che hanno reso felice e anche faticosa la costruzione del modello. Si nota, per esempio, le resistenze e le difficoltà ad accogliere innovazioni con lo spirito giusto, con la possibilità di vederle anche come una valorizzazione di ruoli in un modo diverso da quello che era stato fino ad allora praticato. Sono gli elementi che permettono di costruire ma anche di mediare ad esigenze diverse. Ed entrano in gioco quelle discipline, quelle dimensioni scientifiche che erano anche nella dizione degli 'istituti socio-psico-pedagogici'; con la possibilità che la stessa dizione diventasse una disseminazione di elementi sociologici, psicologici e pedagogici. Il cambiamento di quadro concettuale La conoscenza dei soggetti disabili in un contesto ordinario porta al cambiamento di parametri e di concetti di riferimento. Non sono elementi inediti, ed hanno radici profonde (ad es.: le vicende del "sauvage" e di Itard, all'inizio dell' '800...). Per certi aspetti, in maniera dapprima empirica e poi in parte concettuale, vi è un anticipo di quell'impostazione diagnostica che oggi emerge dall'ICS. Ovvero dalle indicazioni diagnostiche internazionali che segnano il passaggio da un giudizio statico ed individuale, in termini quantitativi (ad es.: la "quantità" di intelligenza di un soggetto), ad un giudizio basato sulle possibilità di realizzare dei "funzionamenti adattivi". La diagnosi non è una sentenza senza appello, ma un processo di cui la stessa diagnosi è un passaggio e non una stazione d'arrivo. Questo cambiamento ha diverse conseguenze importanti. Ne sottolineiamo due: la possibilità che la prospettiva dell'integrazione, o "inclusiva", crei un processo di attenzione alle strategia adattive e cognitive, con benefici nei confronti di tante difficoltà diverse (disgrafia, dislessia, HLD, ecc.), ora meglio conosciute; e nei confronti di altre situazioni problematiche che possono essere individuate dietro le difficoltà di apprendimento. Senza confondere disabilità e disagio, o disabilità e differenze culturali, può risultare utile capire un percorso metodologico basato sulle strategie cognitive, e non su un modello unico. La possibilità di vivere in continuità le situazioni definite "gravi o "gravissime" e le situazioni di disabilità e di normalità. Se un bambino o una bambina con una situazione di immobilità, senza strumenti di comunicazione, senza controllo degli sfinteri, vive con i suoi coetanei, in una scuola ordinaria, cosa può accadere? I coetanei possono imparare molto di più e meglio. Certo: dipende dall'azione didattica. E' possibile imparare come puo funzionare il nostro organismo, con quali strumenti può comunicare con il contesto, come può esprimere il "si" e il "no", ovvero come può controllare le interazioni con l'ambiente, e molte altre importanti funzioni che un organismo vivente realizza, ciascuno a suo modo, e ciascuno con bisogni originali di aiuto. La reciprocità dei benefici è ormai provata: un bambino immobile è raggiunto da un pallone in un gioco modificato per includerlo, e chi lo lancia controlla la forza, lui che lo riceve è stimolato. Più grande, quel ragazzo riceve un ausilio per comunicare; e i suoi compagni sviluppano le conoscenze nei diversi settori disciplinari sulla lesione cerebrale, e quindi sulla neurofisiologia, sulle forme di ausili, ecc. E' un potenziamento reciproco delle competenze cognitive. Il quadro concettuale cambia e non cambia in una data precisa; per certi versi si potrebbe immaginare che ha già avuto dei grandi cambiamenti negli studiosi e diventa un riferimento più concreto nell'organizzazione quando vi sono elementi di cambiamento che costringono a prendere in considerazione un diverso modo di pensare la persona handicappata, disabile. La sintesi del cambiamento può essere espressa in questi termini: il passaggio da una concezione della disabilità come un dato quantitativo misurabile in termini statici, e quindi elemento che accompagnerà tutta la vita di un soggetto; a una considerazione che guarda piuttosto ai funzionamenti adattivi, e quindi alla necessità di pensare sempre in rapporto a un contesto, e meglio ancora ai diversi contesti. E' il momento in cui si specifica meglio la possibilità di rendere l'educazione punto di passaggio tra il soggetto con le sue caratteristiche e l'ambiente, con la possibilità che si creino delle mediazioni tra il soggetto e l'ambiente e degli adattamenti reciproci per ridurre gli handicap. Si può risalire al mito fondatore dell'educazione degli handicappati: a Itard e alla vicenda del bambino 'selvaggio'. Itard si scontra e siamo al passaggio del secolo tra il 1700 e i primi anni del 1800 - con Pinel, il luminare della psichiatria dell'epoca, personaggio carismatico per certi aspetti, e capace di realizzare un cambiamento epocale: che i ricoverati per cause psichiatriche non vengano incatenati. Pinel, nonostante questa sua visione aperta al progresso, quando esamina il sauvage, lo considera ineducabile. La sua è una diagnosi definitoria ma non assoluta, nel senso che non è così chiuso nella sua convinzione da non permettere al suo giovane allievo Itard di sviluppare un'altra ipotesi, circa l'educabilità del ragazzino, e quindi la possibilità che vi siano adattamenti reciproci, termini non usati all'epoca ma che usiamo noi. Nel tempo si è verificata la possibilità che una vicenda come questa potesse favorire una maggiore possibilità di educazione, una maggiore ampiezza del termine stesso di 'educazione'. E noi ritroviamo questo dibattito, o questo contrasto, in un percorso lungo che va dall'epoca dell'Illuminismo fino ai giorni nostri, con momenti in cui sembrano chiare le indicazioni diagnostiche statiche, i momenti in cui una certa medicina - non certamente la medicina - sembra avere il sopravvento, ad altri momenti in cui sembra che il sopravvento lo abbiano gli educatori e le educatrici. Non possiamo non ricordare che la storia contiene le pagine tragiche degli stermini, delle considerazioni di soggetti umani come "prodotti guasti", che devono essere o fatti vivere poco, e senza costi, o soppressi. Sono pagine da non dimenticare, e che rendono ancor più importante la scelta della prospettiva dell'integrazione. Noi dovremmo avere un certo interesse allo sviluppo delle organizzazioni locali con i rischi delle chiusure localistiche - con molte figure importanti messe, individuabili con nitidezza se si guarda alle microstorie. E' quanto è accaduto in un lungo e contraddittorio periodo, che arriva fino a noi. Sono presenti nella storia dell'educazione delle "avventure" - se così si può dire - che fanno riferimento a sensibilità e competenze umane e scientifiche previste e prevedibili in un contesto molto preciso: in una città, in una campagna, in cui i riferimenti non possono più essere gli assoluti dei grandi livelli accademici della medicina; sono piuttosto coloro che conoscono le risorse dei bambini e delle bambine che incontrano, e le risorse locali, che sanno formarle, plasmarle. E questo procede e va oltre gli atti dei governi. Ha possibilità di flussi sotterranei continui, di percorrenza lunga. I nomi possono anche rifarsi a Maria Montessori, a Sante De Santis, ma sono anche figure meno conosciute come lolanda Cervellati, Maria Teresa Rovigatti: grandi personaggi che alimentano una capacità locale di far fronte alle tematiche poste dalle disabilità. Il nostro paese ha la vicenda del ventennio di governo fascista, e quindi di svolta epocale con la fine del conflitto dal '39 al '45. Quella è l'epoca in cui si riprendono contatti operativi, non solo di studio, con la didattica e l'educazione attiva, con l'educazione nuova o, se si vuole usare il termine nella sua originaria dizione idiomatica, i 'éducation nouvelle. E' il momento in cui il modello per l'integrazione ha i presupposti più interessanti, più importanti; sia dal punto di vista organizzativo sia dal punto di vista concettuale - i due elementi non sono divisibili -. Se sul piano organizzativo bisogna dare una grande rilevanza al 1962, anno della scuola media unica. Occorre però accompagnare questo elemento costitutivo, di grande importanza, con le riflessioni. Anche qui useremo un metodo in parte antologico - in parte: perché un'antologia sarebbe corposa e supererebbe le dimensioni di questa riflessione a intreccio con personaggi di grande rilievo. Leggiamo una pagina di uno degli autori nella pedagogia che ha certamente rappresentato un punto di riferimento importante per lo sviluppo di quello che chiamiamo il modello italiano. E' Lamberto Borghi. "La scuola è chiamata a continuare questo duplice intento dell'educazione materna, a guidare il ragazzo consapevolmente e tenendo conto del suo grado di sviluppo, in modo che egli divenga capace di agire e di pensare indipendentemente e di rendersi sempre più intimo agli altri, cioè di pensare e di agire all'unisono con loro e di porre a fine del proprio sviluppo il promuovere un simile sviluppo negli altri. Ora, se da un lato è infinito il processo di formazione del singolo ad attitudini di pensiero, di libertà, e di socievolezza, è infinito dall'altro lato il numero delle persone che, nel nostro 'mondo uno', egli deve aiutare nel medesimo processo di formazione e con le quali è chiamato ad accomunarsi, nessuno lasciando escluso dalla sua perfezionatesi capacità e volontà di intendere e di amare. Libertà, socialità e universalità sono pertanto tra gli aspetti dello stesso processo educativo, della stessa formazione sono tre aspetti dello stesso processo educativo, della stessa formazione della personalità umana" (L. Borghi, 2001, p. 144). Questa pagina - che ha avuto una stampa recente ma che risale indietro nel tempo - illumina bene i concetti su cui si basa l'integrazione educativa. Una necessità tener conto di aspetti etici e di viverli nel contempo come impegno educativo, sia per l'adulto che ha responsabilità di educatore, di insegnante, sia per un bambino, o una bambina, che cresce nella responsabilità di raggiungere dei traguardi e di permettere anche agli altri, nessuno escluso, di raggiungerli. E' importante questa affermazione di Borghi, ed è tanto più importante in quanto lo studioso, come molti altri pedagogisti che in quegli anni avevano un ruolo attivo sullo scenario della pedagogia italiana, non finalizzava la propria riflessione ai soggetti handicappati ma ragionava per tutti i bambini e le bambine, ed era un ragionamento in cui la non esclusione era punto di forza. E questa era l'educazione attiva, la scuola nuova, che aveva radici profonde in tutta la prima parte del secolo e in molte parti del mondo. Esigeva il rispetto del soggetto nella sua originalità e nella sua diversità. Esigeva la considerazione dello statuto del bambino e della bambina, considerato punto importante e da sottrarre al rischio di adulti nostalgici della propria infanzia o all'altro rischio di adulti esigenti nell'imitazione del loro modo d'essere. Lo statuto del bambino e della bambina era visto, ed è visto, come uno statuto nella pluralità dei soggetti, nella loro originalità. Esigeva inoltre che il ritmo dell'infanzia, di chi cresce, e le esigenze di respiro, di ritmi, fosse accompagnata da rituali significativi, capaci di collegarsi all'immaginario, al simbolo, e capace di scandire la giornata, l'organizzazione, tempi e spazi. Esigeva ed esige che il nuovo si organizzi, si raccordi su uno spazio politico - polis - aperto al divenire; e la necessità dell'esperienza educativa porta e comporta una duplice distanziazione: quella scientifica specifica e quella più ampiamente culturale che permetta la possibilità di respiro rispetto ai soggetti che crescono. Questi gli elementi importanti di una costruzione che ha in questi concetti i presupposti per quella che sarà poi l'integrazione, e per quello che è, può essere definito anche, il modello italiano. E le conseguenze sono organizzative. E' sempre necessario tener conto che l'organizzazione è complessa e che nella vastità delle attività scolastiche della capillare organizzazione della scuola vi sono elementi variegati, che è impossibile e non sarà possibile neanche in futuro considerare in un unico modo, ma è importante, è fondamentale nella prospettiva dell'integrazione, che vi sia una scuola. Il raggiungimento della scuola media unica, e quindi di un percorso di base unitario per tutti, è stato un elemento di grande importanza, alle spalle dell'avvio delle esperienze di integrazione. Non può essere dimenticato, e su questo convergono le tre dimensioni scientifiche che esaminiamo, sia pure in forma molto sintetica e non analitica: la dimensione sociologica, quella psicologica e quella pedagogica. Vi è una convergenza di elementi che tendono a individuare in un percorso unitario diverse possibilità per lo sviluppo della prospettiva dell'integrazione. Ma parlando di modello italiano non possiamo evitare di fare riferimento ad una modellazione che ha avuto dei grandi contributi dagli studiosi di altri paesi, i quali hanno riconosciuto nella modellizzazione italiana la realizzazione delle loro idee - non in esclusiva, certamente -. Per questo riteniamo che vi possa essere un equivoco nel parlare di "modello italiano" se questo viene isolato da un contesto di studi, di ricerche e di realizzazioni anche di altri paesi. Il rischio grosso che corriamo è quello di credere che solo il nostro paese abbia realizzato certe cose. Vi è una linea di continuità, e questa ci interessa indicarla come strada che collega le realizzazioni nel modello italiano e gli studi e le realizzazioni di altri paesi. Pensiamo alla statunitense normalLation, che è una individuazione di percorsi inclusivi non esclusivi tipici del Nord America ma anche riconoscibili come simili al percorso che è chiamato 'modello italiano'. Certamente il riconoscimento degli studiosi di altri paesi non è completo, non ha la possibilità di affrontare e di individuare i percorsi italiani, con ricerche divulgate anche all'estero. L'italiano non è parlato in molte parti del mondo, e le traduzioni sono, tendenzialmente, dai mondi anglosassone e, in parte, francofono al mondo italiano, e non viceversa. Vi è però la necessità di tenere conto delle linee di continuità, dicevamo, e su questo vogliamo porre l'attenzione. I punti forti del modello La possibilità di spostare l'attenzione sull'apprendimento anziché sull'insegnamento, e quindi di cogliere la pluralità dei soggetti più dell'unicità insegnante; la coevoluzione, che permette di vivere anche il limite come risorsa; la valorizzazione della vita sociale, nei suoi aspetti che esigono competenze nella quotidianità. Ogni giorno dobbiamo lavarci, rifare il letto, ecc. in attività che non hanno una progressione lineare, ma una ricorsività propria delle attività di cura: con la cura dei tempi e degli spazi di tutti i giorni. Questa competenza viene tante volte trascurata o data per scontata: è come costruire in altezza (progressione cognitiva) senza avere una buona e larga base su cui poggiare. Per questo, l'integrazione può portare un beneficio a tutti: richiama l'attenzione di tutti sulle cure ricorsive. Inoltre, la coevoluzione e la partecipazione alla vita insieme, crea i presupposti per un migliore sviluppo nella vita attiva adulta. In un progetto europeo Leonardo, abbiamo potuto constatare quanto sia possibile in Italia avere un certo numero di "storie di vita" di donne e uomini trisomici presenti nel lavoro normale; mentre in altri due paesi europei presenti nello stesso progetto, questo è risultato molto problematico, e le "storie di vita" raccolte sono state poche. Le Università hanno presenze rilevanti di studenti disabili, come in passato non era neanche immaginabile. L'Università in cui lavoro - Bologna - ha un numero di studenti disabili che si aggira attorno ai 400. Ma in tutte le Università, e con una distribuzione che interessa tutti i corsi di studio, sono presenti studenti disabili in numeri che non possono passare inosservati. Per questo, ogni Università ha un "delegato" del Rettore, ovvero un docente, che assume il dovere di permettere lo svolgimento degli studi agli studenti disabili; e i servizi per il diritto allo studio devono assicurare che ogni studente disabile possa avere corrisposte le esigenze di base, indispensabili per la sua vita universitaria. Anche queste sono notizie che derivano dalla diffusione dell'integrazione e dai concetti che la accompagnano. Tutto bene, dunque? Il lavoro è ancora lungo, e i problemi sono tanti. Ma un modello è individuabile. Non separato dalle prospettive di altri paesi e soprattutto dalle "buone pratiche", che coinvolgono tutta l'Europa. Un modello per l'integrazione che a sua volta si integra. E che è appassionante, tale da dare un senso alle fatiche. Ervin Goffinan, sociologo, ha costituito un punto di riferimento importante per comprendere l'esclusione e per comprendere quelle strutture che fungevano da elementi di separazione tra la società esterna e l'interno delle istituzioni. Le istituzioni dell'esclusione che erano rappresentate dalle istituzioni totali ma anche da meccanismi amministrativi, e da piccole strutture che delineavano percorsi separati. Ed è proprio sui percorsi separati che si è posta l'attenzione da parte del mondo della scuola. Il fenomeno, poi, era anche esaminato dai nostri studiosi sociologi in rapporto a un'esclusione particolare che veniva a rappresentare quei grandi numeri già indicati legati alla migrazione interna. I due fenomeni hanno costituito un punto di riferimento per gli studi, di stretta e rigorosa marca sociologica, della comprensione dei fenomeni di esclusione microstrutturale. Non quindi solo quelli che avevano rappresentazioni di grande portata e di grande immagine come le grandi istituzioni ma anche le relazioni e l'organizzazione degli spazi che venivano a delineare la codifica di preclusioni e di stereotipi. Gianni Selleri (1978) rilevava come Goffman individua due gruppi in cui una persona handicappata accede pensando di trovare un sostegno e una comprensione. Il primo è legato allo stigma, ovvero è composto da coloro che hanno la stessa immagine, che sono handicappati nello stesso modo, si direbbe, e che diventano handicappati nello stesso modo - aggiungiamo sempre sulle orme di Goffman - proprio perché subiscono un unico modellamento. Il secondo gruppo è invece rappresentato da persone normali che si offrono alla partecipazione della vita segreta dell'handicappato: sono i tecnici, i familiari, gli amici eccezionali, i volontari, e con questi un soggetto handicappato sembra non provare né vergogna, né sentirsi handicappato ma può illudersi di essere una persona normale, o normata. Selleri ha evidenziato gli aspetti negativi di queste microesclusioni che non hanno più bisogno delle grandi strutture dell'esclusione perché possono tranquillamente insinuarsi o collocarsi in un'apparente integrazione. E' quindi emerso, proprio nel campo sociologico ma con buone sintonie con gli studi psicologici, come la possibilità dell'esclusione non abbia bisogno di vistose manifestazioni ma possa appartenere a una normale quotidianità, e non abbia bisogno sempre di segnali aggressivi, vistosamente negativi, ma possa manifestarsi anche attraverso il pregiudizio positivo, la possibilità di far vivere alla persona handicappata eccezionali favori da parte di un contesto in qualche modo selettivo, selezionato, privilegiato. Queste riflessioni sono tanto più interessanti in quanto si può immaginare che le leggi compiano degli enormi passi avanti per assicurare una normativa adeguata alle prospettive inclusive ma non possono determinare gli atteggiamenti e le micro relazioni; queste devono essere piuttosto conquistate da altre convinzioni e da autenticità di rapporti. L'enfasi che a volte viene messa sugli aspetti della relazione rischia di provocare poi una sorta di pendolarismo, alternando periodi nei quali vi è una grande attenzione alle dinamiche di socializzazione con periodi che invece privilegiano l'apprendimento e quindi anche l'insegnamento. In realtà le due dimensioni hanno bisogno di essere unite in una reciprocità che potrebbe bene essere rappresentata dalla dizione apprendere per socializzare e socializzare per apprendere; ovvero apprendere socializzando e socializzare apprendendo. E questa reciprocità è alla base della dimensione psicologica che fa venire avanti le strategie di apprendimento e l'attenzione al 'meta': le strategie metacognitive. Si allarga la capacità, da parte del corpo insegnante, degli educatori, delle educatrici, di avere una buona padronanza di questi termini anche per la disponibilità di un materiale di formazione, dì letture, di scambio che è non solo nelle librerie ma anche nelle reti informatiche. E questo è un elemento che sicuramente è dovuto alla ricerca nel campo della psicologia italiana e di altri paesi; è un altro punto in cui si possono trovare delle linee di continuità tra quello che chiamiamo il 'modello italiano' e i contributi di ricerca applicata, le esperienze, di molti altri paesi. E su questo occorre richiamare l'attenzione anche sugli aspetti importanti che nell'apprendimento ha l'imitazione, la possibilità di avere più modelli, quindi di vivere la presenza dei pari come un'occasione di acquisizione di una pluralità di modelli, ciascuno dei quali può essere un contributo, può portare un contributo per la costruzione del proprio modello di identificazione e quindi con la possibilità che accogliendo dagli altri vi sia uno sviluppo originale. Ma questo, a volte, è bloccato proprio dallo stereotipo che viene anche ad essere introiettato dal soggetto handicappato. Per questo, negli anni in cui si è sviluppata la prospettiva dell'integrazione, l'approccio psicologico ha messo molto in rilievo il valore della dinamica di reciprocità attraverso l'empatia. Vi sono due versanti con cui questo termine può essere collegato: uno più strettamente relazionale, e l'altro più legato allo sviluppo di quelle prospettive cognitive che hanno avuto in Vygotskij e in Lewin dei punti di riferimento importanti. Ancora una volta riteniamo che il modello italiano sia collegato "in rete" - come si usa dire - con molte fonti che vanno ben oltre i confini del nostro paese: costruzione di strategie di apprendimento che hanno bisogno non solo di una forza della scuola unica, a cui abbiamo già fatto riferimento segnalandone la grande importanza, ma anche la forza di affermazione della scuola dell'infanzia: della possibilità che l'accoglienza fra pari avvenga in un periodo della vita in cui le azioni imitative e gli scambi attraverso il gioco, le possibilità di esplorazioni delle proprie abilità e delle offerte dagli ambienti e dai contesti sono particolarmente importanti. Scrive Sergio Neri: "E' vero che la valorizzazione del ruolo dei coetanei è un fattore determinante dell'impresa scolastica, tanto che le attività nel piccolo gruppo e le tante forme di collaborazione sono, in questa scuola, particolarmente coltivate, tanto da diventarne un elemento distintivo. E' vero pure che la lentezza (ma non la pigrizia, la sciatteria, il lasciar correre, il semplice intrattenimento) è una cifra dello scorrere del tempo e del modo di operare, consentendo così a ciascuno di provare e riprovare, di sbagliare senza sentirsi subito misurato e giudicato, di cercare la sua strategia per la soluzione del problema, di trovare piano piano il senso e la misura della sua azione e della sua crescita. Tutto questo corrisponde ad una scelta precisa, intenzionale e perseguita con metodo dalla scuola dell'infanzia, ma non al suo specifico legato all'età dei bambini o alla sua collocazione in una sorta di limbo prescolastico, in cui tutto è permesso perché non esistono vincoli programmatici o diplomi di cui rispondere. E' una scelta che nasce dall'aver polarizzato l'attenzione sull'apprendimento invece che sull'insegnamento, sul bambino invece che sull'insegnante, sulla strategia costruttiva e responsabilizzante rispetto a una ripetitiva, sulla necessità di mobilitare le risorse dei bambini, i rapporti di collaborazione e di cooperazione rispetto alle prestazioni individuali e parallele, sull'ambiente in cui si svolge la vita quotidiana e sulla promozione di interazioni attive, sulla dominanza della logica dell'inclusione rispetto a quella dell'esclusione, sulla strategia dell'intreccio rispetto a quella dei percorsi paralleli: ciascuno per sé e Dio per tutti. Tutto è dunque facile nella scuola dell'infanzia? La presenza di un bambino in situazione di handicap non desta problemi, non pone difficoltà, non esige un maggiore dispendio di fatica, intelligenza, risorse, mezzi? Questa modalità di fare educazione si identifica nella scuola materna e non può essere riutilizzata, riadattata e rimodellata nei successivi gradi scolastici senza per questo infantilizzare gli allievi? O non è forse questo un modo di fare scuola per tutti, un modo in cui tutti gli allievi stanno meglio, anche gli handicappati?" (5. Neri, 2002, pp. 19-20). Queste parole di Sergio Neri contengono elementi interessanti e importanti per capire il modello inclusivo italiano. La possibilità di spostare i 'attenzione sull'apprendimento anziché sull'insegnamento contiene la pluralità. E' evidente che l'apprendimento è di ciascuno dei soggetti che apprendono, e ciascuno ha un proprio stile di apprendimento. E' necessario quindi passare da una strategia dell'insegnamento - una, perché uno è l'insegnante - alle strategie degli apprendimenti o dell'apprendimento, perché ciascuno ha una propria strutturazione del percorso di apprendimento. Questo favorisce una possibilità di vedere nella presenza di un compagno o di una compagna in situazione di handicap una risorsa per la costruzione delle strategie di apprendimento. E' chiaro che impegna in una sfida che non è solo quella di una convivenza qualsiasi ma della convivenza finalizzata agli apprendimenti; e quindi con la necessità di trovare i mediatori, i sussidi, i materiali che permettano a quel bambino, a quella bambina, in situazione di handicap, di apprendere. E questo viene osservato certamente ma anche compreso con l'aiuto degli adulti da parte dei compagni e delle compagne che realizzano quello che abbiamo letto in Lamberto Borghi: la possibilità di comprendere che la propria realizzazione è anche la realizzazione degli altri, non solo in termini vagamente sentimentali ma anche con la concretezza degli obiettivi di apprendimento. Lo sviluppo possibile dalla scuola dell'infanzia, auspicato da Sergio Neri, ha qualche rischio, perché non si ritiene possibile una evoluzione di questo stile quanto piuttosto una riproduzione dello stile; e quindi si immagina o con favore dettato dalla generosità, o con molto timore dettato dal senso del dovere di insegnare, che mentre tutti gli altri soggetti possono percorrere delle strade di apprendimento che evolvono, il soggetto, bambino o bambina in situazione di handicap, debba, per ragioni che sono connesse alla sua propria situazione, mantenere quella modalità di affrontare gli apprendimenti che era propria della scuola dell'infanzia, anche se l'ha già lasciata, e forse da una pezzo. E allora vi sarebbe una divaricazione fra la propria modalità di vivere gli apprendimenti e gli sviluppi degli apprendimenti e delle modalità di svolgerli da parte degli altri nel gruppo classe dei coetanei, e in generale. Ora questo è il punto su cui anche si corre il rischio di riprodurre una situazione di sostegno che non ha una forma evolutiva. L'evoluzione in un contesto di socialità dovrebbe essere, e così la vogliamo interpretare, coevoluzione. Questo è un altro punto importante del modello italiano, o che chiamiamo tale, ossia la possibilità che vi sia coevoluzione nella comprensione, e quindi anche nello sviluppo cognitivo, della presenza di un deficit nella vita di un soggetto e di handicap per un contesto di contesti. E vi sia quindi la necessità e la possibilità di integrare nei percorsi disciplinari la conoscenza del deficit per accettarlo, e la conoscenza degli handicap per ridurli. La conoscenza, però, lo rende più capace di essere padroneggiato, e non rimane un elemento misterioso. Ora, dovrebbe essere evidente - ma non sempre lo è - che una tale linea coevolutiva presenta delle differenze a seconda dei deficit: un deficit visibile, perché è tale da ridurre ad esempio la mobilità di un soggetto, è affrontato in un certo modo, mentre un deficit invisibile o di carattere psichico o di carattere sensoriale ha bisogno di approcci differenziati. E' la pluralità; sono i percorsi plurali, all'interno di una scuola unica. Questo è uno degli elementi fondamentali che trasforma la riflessione pedagogica e didattica e permette di tentare di porre nel passato un'impostazione che chiamiamo didattismo. Nel modello del didattismo, diffuso senza che questo nome si sia fissato nella mente di chi lo pratica, l'iniziativa è assoluta da parte dell'adulto, per quanto riguarda l'organizzazione del programma, la progressione, le tecniche di studio, e ha la possibilità di essere ripetuto nello stesso modo, quali che siano i soggetti presenti nel gruppo classe. Vi è una separazione netta delle materie che non si collegano se non per caso nell'intreccio dei nuclei tematici, l'autorità è quella di chi insegna, e vi è un uso quasi unico, come tecnica di studio, della memoria che è riproduttiva. Così le tecniche di controllo e di valutazione risultano essenzialmente fondate sulla riproduzione mnemonica della trasmissione dell' insegnamento. Queste caratteristiche possono essere attenuate, possono essere rese più difficili nella loro applicazione dalla riottosità dei soggetti e in genere, se questo è il modello che gli insegnanti seguono, la riottosità non mette in causa tanto il modello quanto gli alunni. Questo modello ha anche una caratteristica importante che è il naturalismo: viene ritenuto il modo - non un modo - di insegnare e il modo di apprendere. Le polemiche che vi sono state, e non solo nel nostro paese ma in altri paesi circa la pedagogizzazione dell'insegnamento, del clima scolastico, a volte hanno creato degli equivoci, ad esempio il grossolano equivoco di ritenere che in tale pedagogizzazione vi fosse la cancellazione delle discipline, delle materie. Non è cosi: è una grossolana lettura della problematica che rompe lo schema del didattismo e crea l'attenzione agli apprendimenti, e una delle ragioni per cui questo è accaduto è anche l'integrazione di soggetti in situazione di handicap. Vi possono essere due letture di questa rottura. Una che è decisamente negativa: nel naturalismo non si inseriscono i soggetti in situazione di handicap, creano delle difficoltà e -grossolanamente diciamo - la colpa è loro, non dovrebbero essere dove sono. Ma l'altra lettura, che ci sembra la più frequente, e quella di adottare - grazie alla presenza del soggetto o di soggetti in situazione di handicap - delle prospettive costruttive nel campo delle conoscenze, e quindi di capire che i problemi posti da un soggetto in situazione di handicap altro non sono che i problemi latenti o in qualche modo mascherati che pongono anche gli altri; e il vero nocciolo è quello di passare dalla illusoria omogeneità di chi apprende alla pluralità dei soggetti che apprendono, e quindi a una costruzione di didattiche disciplinari capaci di affrontare la pluralità e di viverla come risorsa. Questa è la ragione importante della coevoluzione; non possiamo immaginare l'utilità di una forte scuola dell'infanzia se non in rapporto a una coevoluzione che è anche degli strumenti didattici e che pone agli insegnanti tutti, e non con delega ad insegnanti particolari (specializzati per il sostegno, incaricati di un sostegno o altro ancora) la necessità di affrontare la propria personalità con maggiori competenze, maggior rigore. Questo stesso problema si pone ai formatori, e sappiamo quanto è stato tormentato, e tuttora è tormentato, l'iter formativo degli insegnanti in generale e degli insegnanti specializzati per il sostegno all'interno di questo quadro generale. Dobbiamo lamentare una difficoltà ulteriore, che è poco comprensibile e poco tenuta presente da chi si occupa di scuola perché riguarda il quadro universitario. E potrà sembrare, in questa riflessione, un elemento un po' forzato. Ci riferiamo al fatto che i raggruppamenti disciplinari per i concorsi non permettono di avere una buona omogeneità per le competenze. Per una brevissima stagione il raggruppamento che riguarda le pedagogie speciali ha avuto una sua identità, immediatamente ricancellata per tornare ad essere un elemento apparentemente omogeneo, ma in realtà molto disomogeneo, in un raggruppamento che comprende didattica e pedagogia speciale, con la possibilità che vi siano concorsi in cui le competenze di pedagogia speciale nella stessa commissione siano o minoranza o non vi siano - può anche capitare questo - e che vi siano quindi delle possibilità di riconoscere livelli di competenze senza avere gli strumenti per tale accertamento. Nella confusione la pedagogia speciale può rimanere una materia marginale e tale da permettere una confusa accettazione di competenze che riguardano differenze non legate alle situazioni di handicap. E' tale, ad esempio, la considerazione che rientri nella pedagogia speciale la differenza di genere, la differenza culturale, l'intercultura, la multicultura, le differenze di ritmi di apprendimento - e questa potrebbe già essere più vicina - ma le differenze in generale. E addirittura vi è chi pensa alla pedagogia speciale avendo un percorso di studi e di ricerche che riguarda, ad esempio, le difficoltà legate alla criminalità minorile. Temi sicuramente importanti ma che nulla hanno a che vedere - se non per elementi di analogia che ci sono in tutte le discipline - con la tematica precisa della differenza legata alle situazioni di handicap. Questo è un punto debole perché non permette di garantire formatori efficaci. Bisogna assumere delle responsabilità in questo e avere il coraggio di rivolgersi a chi ha delle competenze dettate dall'esperienza. Qui entriamo in un settore molto delicato perché è evidente che non basta l'esperienza ma questa esige anche una riorganizzazione e riformulazione tale da garantire la possibilità di fornire formazione e non semplicemente fornire se stessi e la propria esperienza agli altri. Questa è una parentesi d'obbligo in questa riflessione perché ci fa capire come il modello italiano, per quanto abbia dei punti di riferimento molto diffusi, e quindi ha qualche elemento di solidità, abbia bisogno ancora di molte attenzioni per il suo consolidamento e pcr il suo pieno sviluppo. Mentre preparavamo queste riflessioni abbiamo avuto la notizia della morte di Gadamer, il filosofo dell'ermeneutica, che ha come affermazione di base per lo sviluppo della sua filosofia questo assunto: l'individuo è linguaggio, l'essere è linguaggio. Presentiamo questa figura come in punto emblematico della nostra prospettiva. Vorremmo, nello stesso tempo, intendere che Gadamer aiuta una riflessione che va completata: non basterebbe essere dei conoscitori approfonditi della filosofia di Gadamer; bisogna vederne lo sviluppo applicativo, e quindi capire quanto è importante considerare chi è in situazione di handicap con la possibilità di aiutare allo sviluppo del linguaggio perché è aiutare ad essere. Significa esplorare i campi percettivi, comprendere quali strumenti di sviluppo di un'evoluzione linguistica possa essere permesso a un soggetto, favorito a un soggetto, valorizzato in un soggetto, e come vi sia una profonda, radicale differenza tra comunicazione e linguaggio, perché nel linguaggio si vive una presenza all'interno di una comunità, e quindi vi è la possibilità di avere una struttura simbolica evocativa e di previsione, di ipotesi, che lavora nella mente di un individuo per permettere una codifica, cosa che la comunicazione non rende possibile se non in termini molto, molto limitati. Vuol dire sottrarre all'assistenzialismo chi non accede al linguaggio. Lo sforzo quindi è quello di tradurre Gadamer, se vogliamo avere un referente nella filosofia e avere in quel referente anche un fondamento epistemologico che deve avere degli sviluppi operativi e capaci di organizzare. E' necessario tener conto che i termini 'organizzazione' e 'competenze' sono preziosi nel modello italiano dell'integrazione. Abbiamo più volte sottolineato come tale modello italiano non ha una struttura chiusa ma è collegato come una rete neurale alle ricerche che sono nel mondo. Abbiamo bisogno di mantenere questa curiosità nei confronti di quello che accade al di fuori delle nostre mura, al di fuori della nostra cerchia, perché grazie a questa curiosità eviteremo di presentare il nostro come "il" modello e avremo la possibilità di integrarlo agli altri e di costruire una prospettiva integrativa o inclusiva più vasta, più forte, e certamente più problematica, capendo che la problematicità è la stessa ricchezza di ciò che abbiamo vissuto e che vorremmo continuare a vivere. Note bibliografiche Zelioli A., Il problema degli handicappati nella legislazione italiana, in R. Zavalloni, a cura di, Il problema degli handicappati, Edizioni Istituto Psico-pedagogico Pio XII, Cesena, 1977 Augenti A., La questione scolastica dei ragazzi handicappati, Le Monnier, Firenze, 1977 Moravia S, Il ragazzo selvaggio dell 'Avevron - Pedagogia e psichiatria nei testi di J ftard, P.H Pinel e dell 'Anonimo della Décade, Laterza, Bari, 1972, Goffman E., Asvlums, Emaudi, Torino, 1968, Idem, Stigma, Laterza, Bari, 1970, Selleri G., Per una psico-sociologia dell 'handicap, in "Quaderni della riabilitazione", notiziario AIAS, Roma, dicembre 1978. Neri S., Guardare vicino e lontano, Fabbri Editori, Milano, 2002. |