Una critica ed un ripensamento del
concetto di handicap intellettivo*
Riziero Zucchi, Comitato per l'integrazione scolastica degli handicappati, Torino
* In "APPUNTI sulle politiche sociali" (via S. D'acquisto 7, 60030 Moie di Maiolati
AN), , n. 1/2003, p. 10.
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Un vademecum per l'integrazione
L'ultimo libro di Mario. Esiste un dovere morale da parte di coloro che
rimangono nei confronti di chi scompare. Raccoglierne il testimone, portare
avanti le sue idee, terminare quanto ha iniziato. E' stato quanto ha fatto Marisa
Pavone che ha curato l'ultimo libro progettato da Mario Tortello, Individualizzazione
e integrazione. Insegnare nella scuola di tutti (La Scuola, Brescia
2002). Sensibilissimo alle situazioni emergenti Mario intuisce la necessità
di approfondire e allargare il campo dell'integrazione. In una situazione difficile
è necessario non difendere le posizioni quanto giocare d'anticipo, rilanciare.
L'attuale panorama dell'integrazione scolastica italiana non è positivo: i tagli
di bilancio diminuiscono i sostegni, un assordante silenzio denuncia la mancanza
di iniziative, l'assenza di ricerca nel campo della diversabilità. Mario è consapevole
che occorre fondare sulla curricolarità dell'integrazione, proporre la normalità
del processo. Non esistono tecniche particolari: la presenza dell'handicappato
in classe è una risorsa per l'apprendimento e la crescita di tutti. Occorre
individuare gli strumenti concreti per realizzare l'integrazione, sottolineare
che per l'handicap sensoriale, come per quello intellettivo, esistono impostazioni
corrette basate sulla comunicazione, realizzabili da tutti gli insegnanti in
qualsiasi ambito disciplinare.
La cultura del compito e della materia. Negli ultimi tempi
della sua vita Mario Tortello, assieme a Marisa Pavone ed a Piero Rollero, approfondisce
il tema del valore dell'apprendimento in classe per i diversabili, secondo le
indicazioni della Legge quadro n°104, art. 12 comma 3: "L'esercizio del diritto
all'educazione ed all'istruzione non può esser impedito da difficoltà di apprendimento
né da altre difficoltà derivanti dalle disabilità connesse all'handicap".
Le indicazioni della Cultura del compito o della materia sottolineano
gli assoluti benefici della partecipazione degli handicappati allo svolgimento
normale dei programmi ed alle prove di tutti, purché organizzata secondo le
esigenze degli allievi. Il pensiero pedagogico di Mario connette la metodologia
dell'integrazione scolastica alle indicazioni di Bruner rivolte a tutti gli
studenti: "Si può insegnare qualsiasi cosa a qualsiasi persona a qualsiasi
età, purchè venga fatto in modo adatto ".
Di qui l'offerta di un manuale, un vademecum per l'integrazione, dedicato a
tutti gli insegnanti in cui si sottolinea l'esigenza di collegare il PEI alla
programmazione adattandola alle esigenze specifiche dei vari handicap, in particolare
l'ambito della cecità, della sordità e dell'handicap intellettivo.
Marisa Pavone presenta un quadro di riferimento all'interno del quale organizzare
l'integrazione secondo le indicazioni della L 104/92. Innanzitutto proporre
la classe come comunità di apprendimento in cui la collaborazione tra gli insegnanti
sia modello per la cooperazione tra gli allievi, con una precisa attenzione
alla cultura dell'accoglienza. Ciò permette di adattare la situazione di apprendimento
a tutte le esigenze, sfruttando le competenze della comunità classe di creare
un'ambiente in cui l'allievo in situazione di handicap trovi una collocazione
attiva. L'autrice identifica nel concetto di cura uno degli strumenti essenziali
per favorire i rapporti di crescita tra allievi e tra questi e l'insegnante.
Ciò permette di inserire i processi di apprendimenti in un ambito cooperativo
che proietta verso il progetto di vita le dinamiche della classe. Cardine dell'integrazione
diventa l'attività didattica curricolare che stimola le componenti affettive,
identificando nell'unità dell'intervento educativo l'unicità della persona.
Partecipare per apprendere, uno degli ultimi slogan coniati da Mario
Tortello, diventa la chiave di volta di un'integrazione tesa a sviluppare le
competenze intellettive di tutti. Nel libro si sviluppano tre capitoli riguardanti
rispettivamente, l'alunno cieco, quello sordo e chi ha ricevuto una diagnosi
di handicap intellettivo. L'articolazione dei tre contributi segue lo stesso
schema e propone il concetto di unità della persona, sviluppando le indicazioni
di Vygotskij: "Le leggi che dominano lo sviluppo tanto del bambino normale
che di quello anormale sono fondamentalmente le stesse ". Ogni contributo
è articolato secondo un'impostazione generale sui postulati di base fondati
su esperienze concrete e libri che vengono definiti suggestivi, carichi
di riferimenti e di suggerimenti precisi. Naturalmente vengono poste in luce
le soluzioni per le condizioni particolari, soprattutto comunicative, che permettono
un corretto inserimento, tenendo conto delle risorse esistenti. E' da queste
che occorre partire "interrogando l'esperienza", fondando le proposte
didattiche e l'impostazione metodologica anche su quelle che Mario chiama le
risorse della storia: l'esperienza dei grandi pedagogisti, da Montessori a Freinet,
a Freire.
Il concetto di handicap intellettivo. I contributi sull'alunno cieco,
sordo e con diagnosi intellettiva sono simmetrici, con la stessa impostazione
e gli stessi titoli, eppure c'è una differenza: dopo i Libri suggestivi ed
i Postulati di base, vi è La condizione di cecità e La condizione
di sordità, ma non vi è La condizione di handicap intellettivo. Non poteva
esserci, è sostituita dal paragrafo Per una revisione del concetto di handicap
intellettivo. Il progresso scientifico e soprattutto l'esperienza concreta
dell'integrazione non permettono più di parlare di Condizione per quanto riguarda
l'handicap intellettivo. Da tempo si stanno scoprendo gli errori scientifici
che hanno permesso orrori storici, come il Quoziente di intelligenza, in base
al quale migliaia di persone sono state sterilizzate, a partire dall'America
degli anni 20. L'accettazione della diversità ha permesso di valorizzare il
pensiero divergente, già individuato come potenziale creativo da Edward De Bono,
o il concetto bruneriano di "mano sinistra".
Il dibattito internazionale. Applicare nella pratica scolastica la
Revisione del concetto di handicap intellettivo significa realizzare le indicazioni
nate durante il dibattito internazionale sull'argomento. Vuol dire dare contenuto
alle conclusioni inglesi, sottolineate da Gary Thomas, curatore per la Open
University Press della collana Inclusive Integration ed autore del saggio: Deconstructing
Special Education and Constructing Inclusion . Seguire le indicazioni del manuale
The Handbook of Education and Human Development, curato da David Olson e Nancy
Torrance, dove si pone l'accento sulla revisione del concetto di handicap mentale
. In Francia le ricerche della scuola di Charles Gardou a Lione , di Nicole
Diederich sociologa a Parigi e di Jacqueline Gateux-Mennecier dell'Università
Descartes di Parigi portano alle stesse conclusioni dei ricercatori inglesi
e statunitensi. Inoltre il pensiero di Vygotskij, che considera l'uomo e la
sua intelligenza il risultato di un insieme di rapporti umani ,sta diventando
l'impalcatura metodologica sulla quale si basa gran parte del pensiero pedagogico
contemporaneo.
E' utile riportare alcuni delle principali considerazioni e conclusioni riportate
nella parte riguardanti gli alunni diagnosticati con handicap mentale.
Ripensare il concetto di handicap intellettivo
La confusione e l'incertezza delle diagnosi. "Il concetto di ritardo
mentale è il concetto più indeterminato e difficile della pedagogia speciale.
Fino ad ora non possediamo alcun preciso criterio scientifico per determinare
il vero carattere ed il grado del ritardo e non riusciamo in questo campo ad
uscire dai confini di un approssimativo e rozzo empirismo. Una cosa per noi
è fuor di dubbio: il ritardo mentale è un concetto con il quale viene definita
una categoria alquanto eterogenea di bambini. Vi rientrano bambini patologicamente
ritardati, afflitti da insufficienze organiche e ritardati in conseguenza a
ciò. In questa categoria rientrano altre forme e fenomeni eterogenei. Così,
accanto al ritardo patologico vediamo bambini fisicamente normali, ritardati
e sottosviluppati a causa di condizioni ambientali ed educative difficili e
sfavorevoli. Sono bambini socialmente ritardati. Così il ritardo non è sempre
un fenomeno preciso...molto spesso è il risultato di un'infanzia infelice…Ad
esclusione delle malattie, nei fenomeni di ritardo mentale abbiamo a che fare
con un sottosviluppo e nient'altro ".
Così scriveva nel 1924 Vygotskij, facendo coraggiosamente un bilancio del
concetto di ritardo mentale e la sua affermazione è tanto più importante poiché
fatta in un periodo dominato dalla frenesia per la misurazione dell'intelletto.
Negli USA L. M.Terman, sviluppando la scala Stanford-Binet, sogna una società
'razionale' che assegni le professioni in funzione del punteggio in Q I e Yerkes
pone le basi dell'Immigration Restriction Act del 1924, che assegna una quota
bassa di ammissione agli immigrati dai paesi afflitti da corredi genetici mediocri
.
La sociologa Nicole Diederich che si è attivamente occupata di handicap mentale,
stigmatizza la reificazione delle persone etichettate handicappate mentali ed
il pericolo che l'individuo si identifichi con la diagnosi: "La situazione
di 'utente' di istituzioni speciali o di 'paziente' nei servizi psichiatrici
può portare ad uno spossessamento di sé che talvolta arriva ad un paradossale
adattamento all'immagine stereotipata riflessa dall'ambito istituzionale ".
Ed è quanto può avvenire a scuola se il docente si lascia condizionare
dalla diagnosi.
Classificazione e dignità umana. Occorre reagire alle classificazioni, come
invita Charles Gardou, Docente di Scienze dell'educazione all'università Lumière
di Lione, presidente del Collettivo di ricerca sull'handicap e l'educazione
speciale. Egli è coordinatore di una collana di studi sulla soggettività della
disabilità: "Le handicap en visages", in cui vengono raccolte le testimonianze
vive delle persone in situazione di handicap e di quanti ne condividono l'esperienza.
"E' necessario prendere a calci i clichés e gli altri stereotipi, rifiutare
le categorizzazioni reificanti, uscire dai soliti schemi cognitivi, contestare
la tirannia dei significati sbagliati dell'handicap che sono per coloro che
li formulano un mezzo di dominio e per coloro che li subiscono un'ulteriore
causa di smarrimento ".
Come ogni persona in grado di "guardare in faccia" la disabilità,
Nicole Diederich si dimostra in grado di "ripensare il concetto di
handicap intellettivo", attribuendo dignità alle persone, dimostrandosi
in grado di accettarle e di accogliere la loro sofferenza rispettandole come
persone: "Le persone handicappate che ho potuto incontrare durante le mie
ricerche sono coscienti, senza talvolta poterlo esprimere, che la mancanza di
considerazione in cui sono tenute deriva in gran parte dall'inserimento in categorizzazioni
stigmatizzanti. E' per questo che persone 'handicappate mentali', contestano
sempre di più l'etichetta loro attribuita. 'Dire di qualcuno che è handicappato
mentale e come offenderlo', dice Filippo, diagnosticato intellettivo grave,
'noi vorremmo solo esser chiamati esseri uman'. Alcuni adulti rievocano gli
insulti di cui sono stati vittime nella loro infanzia. 'Adesso non me ne importa
più', dice Bernard, 'prima, quando sentivo dire che ero deficiente, che ero
in una scuola differenziale, ho reagito a volte violentemente. Ora lascio fare,
ma dentro comincio a tremare, inizio a piangere e.. me ne vado ."
Il quoziente di intelligenza. Quanto sono intelligenti i test di intelligenza?
R. STERNBERG
"Il pericolo dei test di intelligenza è che in un sistema educativo di massa
gli insegnanti meno sofisticati e più prevenuti si bloccheranno dopo aver classificato,
dimenticando che il loro dovere è educare. Classificheranno il bambino ritardato
invece che combattere le cause della sua arretratezza. In quanto l'intera tendenza
della propaganda, basata sui test d'intelligenza, è trattare le persone con
basso quoziente di intelligenza come individui congenitamente inferiori e senza
speranza ".Così scriveva negli anni '20 un giovane giornalista, Walter Lippmann,
polemizzando con L.M.Terman, che stava diffondendo negli USA i test di intelligenza.
Nella scuola italiana il feticismo del Q I non è diffuso come negli Stati
Uniti, tuttavia per quanto riguarda la disabilità mentale a livello clinico
se ne fa ancora uso, spesso per ancorare diagnosi a dati 'certi', spesso in
contrapposizione con la speranza dei genitori o il desiderio di impegno dei
docenti. Per una presa in carico pedagogica della disabilità mentale occorre
sgombrare il campo da una serie di pregiudizi il primo dei quali è che vi sia
un modello di intelligenza e che sia misurabile mediante test.
L'archetipo dei test è quello elaborato da Binet nel 1904 che partiva da un
punto di vista educativo sbagliato in partenza: trovare strumenti per educare
isolatamente dei ragazzi. Alla luce di un insegnamento sistemico in cui la disomogeneità
ed il rispetto per la diversità sono la garanzia per l'apprendimento strappare
dalla comunità dei ragazzi per un'educazione 'speciale', è un'operazione artificiosa
destinata al fallimento. Questa operazione partiva dal concetto derivato dall'allora
recente colonialismo secondo il quale esistevano apprendimenti 'primitivi',
comparabili quantitativamente con quelli più evoluti. Binet divideva i compiti
che secondo lui potevano esser compiuti a determinate età e li faceva eseguire
ai ragazzi. "L'età associata con gli ultimi compiti che egli poteva effettuare
corrispondeva alla sua 'età mentale' ed il livello intellettivo generale era
calcolato sottraendo l'età mentale dall'età cronologica…Nel 1912 lo psicologo
tedesco W. Stern sostenne che l'età mentale doveva esser divisa per l'età reale.
Nacque così il Quoziente di intelligenza ". L'ipotesi di Binet presupponeva
l'esistenza di un concetto di intelligenza universalmente inteso, una sua misurabilità,
un 'unità di misura, idee attualmente non più accettate.
Il gene dell'intelligenza. "Scoperto il gene delle facili illusioni",
titolava nel Sole 24Ore un articolo di Gilberto Corbellini. Sui giornali ogni
tanto si legge della scoperta di un gene dell'intelligenza, suggerendo implicitamente
che l'intelligenza è inserita nel corredo genetico delle persone e quindi ereditabile.
Secondo uno dei maggiori studiosi di genetica, Richard Lewontin, si tratta di
una visione estremamente ideologica: "A questa società atomizzata ha fatto
da contrappunto una nuova visione della natura, la concezione riduzionistica,
Si è creduto a questo punto che il tutto si sarebbe compreso facendolo a pezzi,
che i pezzi e pezzetti individuali, le cellule ed i geni fossero la causa delle
proprietà degli oggetti interi e dovessero esser studiati separatamente per
comprendere la complessità della natura ".
Si tratta di una scelta secondo il biologo funzionale a "spiegare e giustificare
disuguaglianze entro e fra le società e per sostenere la loro ineluttabilità…,
ad esempio: "i problemi della salute e della malattia sono stati collocati
all'interno dell'individuo, cosicché l'individuo diventa un problema che la
società deve affrontare, piuttosto che la società sia considerata un problema
per l'individuo ".
Al di là di scelte ideologiche riguardanti l'impostazione della ricerca
ed i suoi rapporti con la costruzione surrettizia di un'umanità basata sulla
biologia e non sui rapporti sociali occorre sottolineare veri propri errori
compiuti nel ridurre l'intelligenza a semplici geni. Ci può aiutare ad esaminare
gli errori dell'ereditarietà un volume pubblicato negli anni '80 nella Enciclopedia
Scientifico Tecnica della Mondadori, intitolato Il gene e la sua mente, mentre
il titolo originale é Not in our genes (Non nei nostri geni). " Il primo
errore consiste nel ritenere che i geni determinano l'intelligenza, mentre né
per il Q I né per qualsiasi altro carattere si può dire che i geni determinino
l'organismo. Infatti non vi è corrispondenza diretta tra i geni ereditati dai
propri genitori e la statura o il peso o il metabolismo basale, lo stato di
salute o malattia. …Il primo fondamento della genetica dello sviluppo
è che ogni organismo è il risultato dell'interazione tra geni ed ambiente in
ogni momento della vita…. Il secondo errore è rappresentato dall'affermazione
che i geni, pur non determinando l'effettivo risultato dello sviluppo, sono
in grado di determinare il limite effettivo fino al quale esso può giungere…Non
vi è nulla nelle nostre conoscenze sull'azione dei geni che possa suggerire
una possibilità totale differenziale. In teoria vi deve esser una qualche altezza
massima oltre la quale un individuo non può crescere. Ma in pratica non vi è
alcuna relazione tra quel massimo puramente teorico che non viene mai raggiunto
e le effettive differenze tra individui .
L'età mentale Talvolta nella Diagnosi funzionale riguardante un allievo
a cui è stato diagnosticata un'insufficienza mentale troviamo la notazione della
cosiddetta età mentale. Si tratta di un'indicazione entrata nel linguaggio comune
come dato sicuro ed assodato, mentre è una costruzione ideologica che ha determinato
danni a livello educativo e va smontata al più presto. Risale alla stessa impostazione
della scienza positivistica di inizio secolo che ha creato il falso concetto
di quoziente di intelligenza. Mentre questo tipo di misurazione ha fortunatamente
sollevato una serie di critiche, concretizzate in una miriade di ricerche che
ne annullano la validità scientifica, il concetto insidioso di età mentale è
stato meno preso in considerazione. E' legato al concetto di piccolo come inferiore,
inserito in una teleologia che vede il proprio compimento nell'adulto, mentre
il bambino è considerato qualcosa di incompiuto, primitivo . L'età e la crescita
sono considerati come i prototipi di una scala di misurazione da applicare a
situazioni giudicate patologiche ed inferiori. All'inizio del secolo non si
erano ancora diffuse le teorie della Montessori sul rispetto dell'infanzia come
categoria e situazione in sé, non era accettata l'indicazione preziosa del "bimbo
come maestro dell'adulto". Le difficoltà intellettive non venivano interpretate
come diversità ma come incompiutezze ed inferiorità in analogia con la concezione
dell'infanzia. Come eredità del recente colonialismo si ponevano infanti e deboli
mentali sotto la comune categoria del primitivismo. Lo stesso Vygotskij,
come sottolinea Oliver Saks, non è immune da tali classificazioni e definizioni.
Eppure, in un articolo importante in cui sostiene la piena educabilità dei bambini
ritardati di grado profondo e la loro assimilabilità a bimbi normali, fa un'affermazione
che da sola è in grado di far crollare tutto il castello classificazionista
sul quale si basa il concetto di età mentale. In accordo con Gesell e Mainot
egli sostiene che nei primi anni di vita del bambino avviene un'accelerazione
dello sviluppo fisico ed intellettivo: "A confronto con quello che il bambino
acquisisce nei primi due anni di vita, le rimanenti acquisizioni sono insignificanti.
Sembra che spetti a J.P.Richter il merito di quell'idea, adottata da L.N.Tolstoj,
secondo la quale è maggiore la distanza che separa un bambino che parla da un
neonato che non quella che separa uno scolaro da Newton. K. Buehler ha definito
bene da un punto di vista dinamico questa importanza precipua delle prime tappe
dello sviluppo del bambino, quando ha chiamato tutto il processo di sviluppo
della primissima infanzia il processo di formazione dell'uomo (Menschwerdung)
."
E' merito di Bruner aver rilevato la competenza intellettiva del bambino
, sottolineando le rivoluzioni concettuali e comunicative che vengono compiute
nei primi tre anni di età, con una critica all'impostazione degli stadi piagetiani
. Le ricerche da lui compiute negli anni '60 hanno dato origine ad una vastissima
bibliografia che testimonia il fiorire degli studi sullo sviluppo intellettivo
che avviene nei primi anni di vita, fino ad arrivare a studi che enfatizzano
la brillante intelligenza dell'infanzia, intitolando i risultati delle ricerche:
Lo scienziato nella culla: mente, cervello e come i bimbi apprendono . Anche
la neurologia conferma il potenziale intellettivo dei bambini: "Il cervello
di un bambino di sette anni ha le stesse dimensioni e lo steso peso di quello
dell'adulto, nei lobi frontali ogni neurone possiede un 40% in più di sinapsi
(connessioni tra cellule nervose che permettono la rete neuronale, base
per l'attività cerebrale).
Incommensurabilità della persona. A fronte di queste scoperte com'è possibile
paragonare un genio come il bimbo con una persona con difficoltà intellettive?
Lo esclude l'incommensurabilità della persona umana che non può esser ridotta
a quantificazioni, ma soprattutto l'irriducibilità dei periodi dello sviluppo
umano che hanno una loro unità e specificità. Non si deve prendere come unità
di misura un'età astratta di cui si dichiarano astratti stadi di livello e raffrontarla
ad una persona con una propria storia ed una propria cultura. Questo paragonare
o ridurre la persona con difficoltà a generiche età inferiori ha prodotto immensi
danni a livello educativo. Gli educatori che hanno accettato queste indicazioni
hanno compiuto operazioni disastrose dal punto di vista della crescita umana.
Quando lo hanno fatto hanno proposto livelli minimi umilianti per la dignità
degli allievi, strappandoli alla coorte dei pari, facendoli studiare su testi
delle classi inferiori, inserendoli in una situazione astratta, con compagni
di età inferiore, oppure fuori dalla classe con obiettivi troppo specifici.
Legata a questa concezione, spesso propagandata da neuropsichiatri non in grado
di conoscere le dinamiche educative e didattiche, è l'abitudine di far ripetere
le classi ai disabili intellettivi. Il primo risultato è stato quello di far
perdere a questi allievi il gruppo dei pari dai quali traeva alimento intellettivo
ed un secondo quello di togliere dignità all'allievo stesso tramite la bocciatura.
Quest'ultima non è negativa se l'allievo viene agganciato al programma di classe,
gli vengono proposte prove analoghe a quelle dei compagni, ma non si impegna
e la bocciatura è la conseguenza di negligenza analoga a quella dei compagni
che subiscono la stessa sorte. Ricerche statunitensi hanno dimostrato che a
nessun livello è utile il trattenere gli allievi nelle classi, farli ripetere
più volte. Numerose ricerche, raccolte da L. Shepard e M.L. Smith che hanno
studiato bimbi trattenuti all'asilo un anno o più, non hanno ottenuto maggiori
guadagni o competenze scolastiche rispetto a coetanei entrati in prima, ma hanno
invece sviluppato una visione negativa della scuola e di loro stessi. Gli autori
sostengono che il trattenere i bimbi nei gradi inferiori deriva da una paura
degli educatori di eventuali fallimenti dei loro allievi.
Plasticità del cervello, plasticità dell'intelligenza: cosa dicono le scienze
neurologiche Se vi sono state nel secolo appena trascorso scienze che hanno
avuto uno sviluppo impetuoso sono senza dubbio le neuroscienze, che in tutte
le ricerche hanno dimostrato la plasticità del nostro sistema nervoso centrale
e periferico. Questo porta a concludere in termini positivi alla domanda che
tutti ci poniamo sulla possibilità di 'nutrire' e far crescere la nostra intelligenza.
E' ancora radicata nella nostra cultura la concezione dell'intelligenza come
entità fissa, statica e misurabile al punto che un libro che pone l'accento
sulla possibilità di far evolvere, arricchire e diversificare l'intelligenza
che in originale portava nel titolo The making of intelligence (La costruzione
dell'intelligenza) l'indicazione del contenuto, è stato rozzamente tradotto:
Che cos'è l'intelligenza . Di estremo interesse è l'opera del neurofisiologo
inglese Ian Robertson, Mind sculpture, Scolpire la mente, correttamente tradotto
in italiano Il cervello plastico . L'autore si collega alla teoria del 'darwinismo
neuronale', proposta dal Nobel per la medicina Gerald Edelmann ed ormai generalmente
accettata. Il cervello viene visto come una rete interconnessa di neuroni continuamente
modificata dall'esperienza e dal ragionamento che subisce una continua evoluzione
dalla nascita alla morte. Possiamo utilizzare le parole di un altro grande neurologo
Oliver Sacks: "(Occorre) una nuova concezione del cervello da intendere
non come qualcosa di programmatico e statico, ma piuttosto come un sistema adattivo
sommamente efficiente, dinamico ed attivo, equipaggiato per l'evoluzione ed
il cambiamento, costantemente impegnato ad adattarsi alle necessità dell'organismo
(prima fra tutte quella di costruire un sé ed un mondo coerenti, indipendentemente
dalla presenza di difetti o disturbi della funzione cerebrale). Il fatto che
il cervello sia differenziato sin nei minimi dettagli è un chiaro dato reale,
ci sono centinaia di minuscole aree cruciali per ogni aspetto della percezione
del colore e del movimento fino, forse, all'orientamento intellettuale dell'individuo).
Il miracolo sta nel modo in cui tali aree cooperano e sono reciprocamente integrate
nella creazione di un sé. Quest'idea della grande plasticità del cervello, capace
degli adattamenti più impressionanti, perfino nelle circostanze particolarissime
(e spesso disperate) di handicap neurale o sensoriale, è arrivata a dominare
la mia personale percezione dei miei pazienti e delle loro vite, al punto che
a volte sono spinto a chiedermi se non sia necessario ridefinire i concetti
stessi di salute o malattia per considerarli non più nei termini di una norma
rigidamente definita, ma in quelli della capacità dimostrata dall'organismo
di creare un ordine ed un'organizzazione nuovi, adatti alla sua disposizione
ed alle sue esigenze, così particolari ed alterate "
In perfetto accordo con Sacks, il neurologo Robertson dimostra come ci siano
innumerevoli esempi di come il cervello può recuperare ed adattarsi a situazioni
più difficili, dal recupero della deprivazione socioaffettiva di due gemelli
dovuta a continui maltrattamenti che avevano bloccato il loro sviluppo psicofisico,
al ripristino del linguaggio in un bambino il cui emisfero cerebrale era stato
atrofizzato da una rara malattia. Le indicazioni della neurologia concordano
quindi con l'estrema fiducia con la quale Vygotskij considera la possibilità
di potenziare, tramite la cooperazione, le funzioni mentali superiori ed aprono
alla pedagogia un amplissimo campo d'azione nel recupero degli handicap intellettivi.
La Pedagogia dei genitori e la misurazione dell'intelligenza. La classificazione
e la misurazione della persona urta contro la sensibilità e la consapevolezza
della pedagogia dei genitori che da sempre sottolinea l'unicità e l'identità
dei figli. La loro esperienza non solo si rivolge alla totalità delle capacità
dei figli, ma anche alle loro possibilità che essi da sempre conoscono e sollecitano.
Lo testimonia L. Pernoud, pediatra ed autrice di volumi sull'infanzia che in
un articolo intitolato La révolution du regard sostiene che "in poco meno
di un secolo il neonato è passato dallo status di tubo digerente a quello di
persona". Questo da parte degli studiosi, ma nell'ultima parte dell'articolo
sottolinea che: "Quanto alle madri da sempre erano coscienti che il neonato
che tenevano in braccio era un essere sensibile ed emotivo, pensante".
A fronte di questi genitori vi è il tecnico con la sua batteria di test,
le scale psicometriche i cui risultati non possono esser capiti né accettati
dai genitori, si oppongono alla diagnosi. Deve esser stata una situazione frequente,
se Terman,che diffuse i test di intelligenza in tutta l'America, si sente in
dovere di rivolgersi ai genitori, come sottolinea S.J. Gould: "Terman inesorabilmente
metteva in risalto i limiti e la loro inevitabilità. Gli bastava meno di un'ora
per annientare le speranze e sminuire gli sforzi di genitori, dotati di 'buona
intelligenza', in lotta con la sorte, perché afflitti da un bambino con un Q
I di 75": Strano a dirsi, la madre è incoraggiata e piena di speranze perché
vede che il suo ragazzo sta imparando a leggere. Non sembra capire che alla
sua età dovrebbe esser iscritto da tre anni alla scuola superiore. In particolare
un test di quaranta minuti ha detto, circa le capacità mentali di questo ragazzo,
più di quanto l'intelligente madre sua sta in grado di apprendere in undici
anni di osservazioni fatte quotidianamente ora per ora. Dato che è un debole
di mente non riuscirà mai a completare la scuola elementare, non sarà mai un
lavoratore efficiente o un cittadino responsabile". Questo scriveva L.M.Terman
nel suo libro The Measurement of Intelligence, pubblicato nel 1916.
Cultura diversa o handicap mentale?
Il fallimento degli istituti speciali. Nel volume collettivo
L'Ecole face aux handicaps, vi sono testimonianze sull'integrazione che permettono
di strutturare una mappa della situazione dell'educazione degli allievi handicappati
in Europa. Il bilancio che altri paesi fanno della loro esperienza mette a fuoco
problematiche ancora aperte in Italia in particolare quelle riguardanti l'handicap
mentale lieve ed il problema della povertà e dell'immigrazione. In Belgio una
legge del 1970 a cui ha messo mano anche Ovide Decroly, ha istituzionalizzato
le scuole speciali che vengono divise in otto categorie a seconda delle tipologie
di handicap decise dagli 'esperti', Jean Louis Chapellier, ricercatore dell'Università
di Mons, presso il Centre de recherche et d'innovation en sociopédagogie familiale
et scolaire, analizza la situazione del suo paese in un intervento dal titolo
significativo: L'éducation spécialisée. Une école de pauvres en Belgique . Egli
sottolinea l'assurdo dell'educazione 'speciale' per di più parcellizzata, sostenendo
che "come ogni categorizzazione, quella adottata dal legislatore belga che
prevede otto categorie di handicap per otto tipologie di insegnamento
ha la sua parte di contestabile e di arbitrario. La critica diventa urgente
se osserviamo attentamente la popolazione compresa in tre categorie: la tipologia
n°1 (bimbi ed adolescenti colpiti da deficit mentale leggero), n°3 (bimbi ed
adolescenti caratteriali) e n°8 (bimbi ed adolescenti con disturbi di tipo strumentale).
Lo studioso belga, ammette che "la definizione di handicap 'lieve', di
problematiche 'caratteriali', di disturbi 'strumentali' deriva da categorizzazioni
imprecise e pericolose. Chi crede che la misurazione di un Quoziente di intelligenza
o di un Quoziente di adattamento sociale permetta di fondare una diagnosi seria?
Chi ha definito scientificamente la nozione di problemi 'caratteriali', che
altro non è se non un vago adattamento delle vecchie indicazioni di 'difficili'
o 'disadattati'. Chi dopo le ricerche sulle difficoltà intellettive chi può
accontentarsi degli approcci datati riguardanti la dislessia?
Le diagnosi di handicap mentale riservate a poveri ed immigrati? Le associazioni
dei genitori hanno fatto eseguire ricerche e soprattutto hanno accumulato dati
statistici sul problema. Un articolo del 1998, scritto da I. Montulet, intitolato
Presentazione dell'insegnamento speciale, pubblicato da La voix des parents,
la rivista della AFAHM, l'Associazione delle famiglie belghe con figli con handicap
mentale, sottolinea che il 70% delle diagnosi riguardanti allievi delle scuole
speciali belghe appartiene ad una di queste contestabilissime categorie e che
la maggior parte di questi bimbi provengono da famiglie povere (monoparentali,
di disoccupati, ecc.). L'esperienza del Belgio è altamente istruttiva per la
situazione italiana. Al contrario del nostro paese questa nazione da molto tempo
è terra di immigrazione. L'esame della provenienza dei bimbi diagnosticati con
handicap intellettivi porta a rilevare che spesso le differenze di cultura portano
alla differenziazione anche mentale, almeno a giudizio degli esperti che formulano
le diagnosi. E' quanto conclude lo studioso belga: "Quando vediamo, in certi
quartieri delle nostre città, scuole speciali che accolgono unicamente allievi
figli di immigrati turchi o magrebini, quando vediamo la miserabile sorte destinata
a quei bimbi dobbiamo gridare allo scandalo e preoccuparci delle conseguenze
finali di una situazione politicamente ed umanamente inaccettabile. Non possiamo
far a meno di farci questa domanda: ma la scuola speciale non è altro che la
scuola dei poveri?".
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