Il volontariato tra carità
e giustizia
Claudio Ciancio, Professore ordinario di filosofia teoretica, Università
del Piemonte orientale
(torna all'indice informazioni)
Ripreso dalla rivista Prospettive Assistenziali (via artisti 36, 10124
Torino) n.137/2002 www.tutori.it
"1- Nella cultura e nella sensibilità dei cattolici la distinzione e il rapporto
fra ordine della carità e ordine della giustizia stentano ancora a definirsi
con chiarezza e danno luogo a non poche incertezze, oscillazioni e confusioni.
Da un lato si tende a risolvere la giustizia nella carità, e con ciò si finisce
per sorvolare sulle specifiche esigenze della giustizia.
Dall'altro si tende a convogliare la carità nella giustizia, e con ciò si rischia
di non riconoscere più che le istanze della carità non sono soddisfatte dalla
giustizia.
Nascono di qui certi atteggiamento tipici dei cattolici di fronte alla politica.
- Nel primo caso abbiamo l'atteggiamento impolitico, per il quale la pratica
politica, anche quando sia ispirata da accettabili criteri di giustizia, viene
considerata un'attività inferiore e imperfetta. Poiché si ritiene che la carità,
in quanto è superiore alla giustizia, sia capace di soddisfare con sovrabbondanza
le sue esigenze, allora la pratica politica, volta a realizzare la giustizia,
appare al limite come inutile (se tutti praticassero la carità, non ci sarebbe
bisogno di leggi, ecc.), oppure appare come una prassi inferiore propria in
fondo di chi non sa elevarsi al piano della carità.
- Nel secondo caso, invece, quando cioè la carità è convogliata nella pratica
della giustizia, il rischio è quello di una ipertrofia della politica, che proprio
in quanto è assunta come espressione della carità, viene caricata di aspettative
e di valori che eccedono enormemente le sue possibilità.
Non voglio dire, ovviamente che il cattolicesimo politico non abbia elaborato
le distinzioni opportune, non abbia cioè riconosciuto allo stesso tempo l'importanza
e la laicità della politica.
Dico piuttosto che quelle oscillazioni e confusioni sono un tentativo ricorrente
anche in quei cattolici che sono consapevoli elle distinzioni.
Basti pensare, ad esempio, a quella dose di cinismo che caratterizza l'operato
di importanti uomini politici cattolici. In quel cinismo che pure si accompagna
alla serietà dell'impegno, si manifesta l'impoliticità del cattolico che della
politica non solo vede i limiti ma anche la sostanziale vanità; con la pericolosa
conseguenza di una estrema disinvoltura legittimata precisamente dallo scarso
valore attribuito all'agire politico nel quale si riversi senza mediazioni l'ispirazione
religiosa. Il pericolo è dunque quello della sintesi affrettata, non importa
se sia della giustizia con la carità o della carità con la giustizia e non importa
se sia di destra o di sinistra (ambedue gli esiti sono possibili nei due casi).
Non intendo, peraltro, in quest'articolo svolgere in tutta la sua ampiezza la
questione del rapporto fra cristianesimo e politica, che pure inevitabilmente
sta sullo sfondo. Le mie osservazioni si limiteranno piuttosto al rapporto fra
carità e giustizia nella concezione e nell'azione del volontariato sociale.
2- Contro le sintesi affrettate non sono mancati pronunciamenti anche in ambito
ecclesiale. Penso in particolare al Concilio Vaticano II che nel Decreto sull'Apostolato
dei laici raccomanda che:
" Siano anzitutto adempiuti gli obblighi di giustizia, perché non avvenga
che si offra come dono di carità ciò è già dovuto a titolo di giustizia; si
eliminino non soltanto gli effetti, a anche e cause dei mali; l'aiuto sia regolato
in tal modo che coloro i quali lo ricevono vengano a poco a poco liberati dalla
dipendenza altrui e diventino sufficienti a se stessi "(n.946).
Il passo è chiarissimo
- nel richiedere che si distingua nettamente fra giustizia e carità,
- nel riconoscere che un semplice intervengo caritativo (sugli effetti) non
è sufficiente senza interventi a livello economico, politico e sociale (sulle
cause),
- e infine che l'intervento caritatevole deve tendere a superare a se stesso.
Questi semplici principi, che se applicati modificherebbero significativamente
l'atteggiamento e la cultura dei cattolici nei confronti dei problemi assistenziali
e sociali in genere, dopo molti anni stentano ancora ad imporsi con chiarezza.
Un esempio di questa difficoltà è la lettera pastorale Novo millennio ineunte
scritta da Giovanni Paolo II, a conclusione del Giubileo 2000.
In essa non manca il richiamo all'autonomia della società civile e alla conseguente
esigenza che i cristiani operino in essa rispettandone gli specifici principi
(n.52). E tuttavia quando si affronta il tema delle "vecchie e nuove povertà"
l'accento cade in modo esclusivo sulla carità e sulla tradizionale prassi della
carità:
" Si tratta di continuare una tradizione di carità che ha avuto già nei due
passati millenni tantissime espressioni, ma che oggi forse richiede ancora maggiore
inventiva. E' l'ora di una nuova "fantasia della carità", che si dispieghi non
tanto e non solo nell'efficacia dei soccorsi restati, ma nella capacità di farsi
vicini, solidali con chi soffre, così che il gesto di aiuto sia sentito non
come obolo umiliante, ma come fraterna condivisione" (n.50).
Si tratta ovviamente di accenti, si può sempre dire che una cosa non esclude
l'altra, e tuttavia colpisce il fatto che di fronte alla diagnosi dei mali sociali
vi sia un richiamo esclusivo alla tradizione caritativa dei cristiano.
Diceva don Milani che: "La giustizia senza la carità è incompleta; ma
la carità senza la giustizia è falsa."
Un principio, questo, che corregge in profondità le tradizionali impostazioni,
perché se non nega la superiorità della carità, la vincola però strettamente
all'esercizio della giustizia. Di modo che ogni discorso e ogni prassi di carità
che scivoli via sulla giustizia diventa una negazione non solo della giustizia
ma anche della stessa carità. In effetti che carità è quella che mentre risponde
a un bisogno, finisce però per trascurare i diritti del soggetto bisognoso?
Eppure come ha scritto Giovanni Nervo: "La cultura cattolica è più attenta
all'assistenza che alla tutela dei diritti, e ha una certa difficoltà a coniugare
armonicamente carità e giustizia"
("Il consenso democratico rafforza le disuguaglianze?", Bologna 1994, p.10).
L'equivoco su questo punto ha prodotto distorsioni gravi nell'atteggiamento
dei cristiani verso i problemi sociali. Il primato esclusivo attribuito alla
carità si è tradotto in primo luogo nel primato accordato all'assistenza e in
secondo luogo in una concezione e in una pratica assistenzialistica del servizio
sociale. Perciò non solo i cattolici in genere si sono impegnati di più nel
settore assistenziale, considerandolo privilegiato rispetto ad altri settori
dell'attività sociale e politica, ma anche (e di conseguenza) hanno praticato
l'assistenza in modo distorto, e cioè:
a) con insufficiente attenzione non solo alla tutela dei diritti ma anche alla
rimozione delle cause del bisogno, con una conseguente pratica assistenziale
di carattere tendenzialmente emarginante;
b) con un atteggiamento privatistico, in conseguenza del quale la discrezionale
dell'intervento prevale sul diritto alla sua fruizione e si concede ampia delega
del volontariato;
c) accordando un certo privilegio alle organizzazioni ecclesiali nella pratica
dell'assistenza, nella convinzione che in fatto di assistenza (in quanto è concepita
come espressione della carità) i cristiani abbiano una superiore "competenza".
3- Nell'attuale straordinaria espansione del volontariato sociale di matrice
cattolica non è difficile scorgere la permanenza di questi motivi.
E' ben noto che questa espansione consegue (già da molto tempo) al crollo delle
speranze di trasformazione della società, costituendo l'aspetto più nobile -
e potremmo dire meno privatistico - del ritorno al privato.
Il volontariato è praticato, a seconda dei punti di vista, come la necessaria
integrazione e il perfezionamento dell'impegno politico o come il surrogato…
Nell'azione di volontariato si ha la sensazione di avere una presa molto più
diretta sulla realtà, di operare in modo più circoscritto ma più incisivo, di
potersi sottrarre ai "giochi" e alla strumentalità dell'agire politico, di conservare
più facilmente la fedeltà ai propri principi senza sporcarsi tropo le mani.
Insomma, il volontariato se certamente è faticoso e impegnativo, se nasce molto
spesso da impulsi di grande generosità (ed è chiaro che su questo piano merita
grande rispetto e ammirazione), ha d'altra parte il vantaggio di essere molto
più gratificante di una azione politica onesta che, senza soddisfare interessi
personali si impiglia in mille defatiganti mediazioni e, per quanto aperta su
un orizzonte vasto, riesce solo con molta difficoltà, e dopo lungo tempo, a
produrre risultati visibili.
Nell'azione di volontariato si manifesta molto spesso una specie di rivolta
nei confronti della politica:
- una denuncia dei suoi intrighi e della sua importanza,
- una rivendicazione del primato della società civile,
- una affermazione del privato dell'ordine etico (e religioso).
Questa vittoria del volontariato sulla politica è in fondo la vittoria dell'immediato
sulla fatica della mediazione. Ritornare ai rapporti immediati (famiglia, amicizia,
volontariato) è da un lato una reazione alla complessità sociale che appare
indominabile, ma d'altro lato è una regressione verso una semplificazione gravida
di rischi reazionari.
Oggi è in discussione la politica come tale, vale a dire la pratica della giusta
mediazione degli interessi e dei bisogni a favore dell'antipolitica, cioè della
pratica della soddisfazione immediata.
E la stessa politica, come diventa sempre più evidente, assume le forme dell'antipolitica,
cioè passa attraverso il privilegio della personalizzazione del rapporto sulla
mediazione partitica e dei risultati sulle procedure (che è di nuovo una vittoria
dell'immediato sulla mediazione). Quel che il '68 pretendeva, e cioè "tutto
e subito", lo pretendeva utopicamente come risultato della politica, mentre
ora è rimasto il "tutto e subito" giocato contro la politica e cioè primitivamente,
regressivamente.
L'enfasi che oggi si pone sul volontariato non è estranea a ciò, e s'incontra,
ricevendone un potente sostegno, con l'ideologia liberistica.
Ideologia del volontariato e ideologia liberistica sono accomunati:
- dalla diffidenza contro l'invadenza della politica,
- dall'esaltazione dell'iniziativa privata,
- dal culto dell'efficienza.
Sono accomunati - per restare nell'ambito specifico di questa riflessione -
dalla convinzione che la soluzione dei problemi assistenziali spetti in gran
parte alla società civile e che i poteri pubblici debbano intervenire solo la
dove la società si rivela carente.
Questo principio, che viene interpretato come principio di sussidiarietà,
sembra molto ragionevole.
In realtà si traduce nella rinunzia a definire politicamente e a sostenere standard
adeguati di protezione sociale, assegnando alla politica una funzione di tappabuchi,
di ammortizzatore dei conflitti.
E' la società che si auto-regola, lasciando alla politica il compito di turare
le falle maggiori.
Se l'ideologia del volontariato difende il primato dell'etica e della carità
e l'ideologia liberistica il primato della libera iniziativa, il risultato comune
è la restrizione della politica che si traduce in un caso e nell'altro nella
sostanziale indifferenza riguardo alla rimozione delle cause che provocano i
bisogni assistenziali e riguardo alla definizione di diritti esigibili. In questo
modo l'assistito resta quello che è sempre stato: non un soggetto di diritti
ma un oggetto di beneficenza privata e pubblica.
4- Un nuovo aspetto rilevante di questa convergenza fra volontariato e liberismo
è l'avvicinamento alla logica d'impresa e agli interessi di mercato.
Negli ultimi anni è cresciuto l'interesse del mercato per i servizi alla persona
(scuola, sanità, assistenza) sia perché alcuni bisogni sono aumentati (specialmente
quelli degli anziani cronici) sia perché è aumentata la sfiducia nell'efficacia
e nella economicità dell'intervento pubblico.
D'altra parte in molti casi il volontariato, proprio in virtù della crescita
della sua iniziativa e quindi della sua dimensione organizzativa, si è avvicinato
alla logica di impresa.
Ne sono nati ibridi che destano qualche perplessità, come nel caso di molte
cooperative sociali nelle quali la pretesa di fondere lo spirito del volontariato
finisce per produrre lavoro sotto-pagato e sfruttamento.
La recente legge di riforma dell'assistenza e dei servizi sociali (legge 328/2000)
riconosce alle cooperative sociali non solo ampio spazio ma anche rilevanti
privilegi nel sostegno sulla formazione degli operatori, nell'accesso al credito
agevolato e ai fondi europei, nell'assegnazione e regolamentazione di compiti
assistenziali. Questi privilegi non sembrano giustificati né dalla quantità
dei servizi erogati, né dalla (indiretta) funzione sociale che le cooperative
svolgono in quanto assumono lavoratori svantaggiati.
La prima è, in molti casi, carente soprattutto sotto il profilo della continuità
del servizio;
la seconda produce inserimenti lavorativi in molti casi emarginanti.
Ciò che giustifica quei privilegi è allora soprattutto il persistere, nonostante
i passi avanti che si sono fatti negli ultimi decenni, di una concezione discrezionale
ed emarginante dell'assistenza, in virtù della quale l'Ente pubblico tende a
delegare e a deresponsabilizzarsi senza intervenire sulle cause dell'emarginazione
ma anzi riproducendola in nuove forme.
La citata legge di riforma, in effetti, mantiene, al di là delle apparenze,
la vecchia impostazione secondo la quale le prestazioni assistenziali non sono,
esclusi pochi aspetti già precedentemente previsti, oggetto di diritti soggettivi,
o meglio, i diritti vengono affermati in linea di principio però senza che vengano
definiti gli obblighi degli enti pubblici in ordine al loro soddisfacimento.
E ciò dopo che già dal 1985 il Governo aveva approvato un decreto che, pur avendo
natura meramente amministrativa (cfr. la sentenza della Cassazione n. 10150/1996),
è stato utilizzato per il trasferimento (illegittimo) dalla sanità all'assistenza
della competenza sugli anziani malati cronici non autosufficienti, con la conseguenza
che, proprio nel momento in cui questo settore d'intervento diventa più rilevante,
viene di fatto sottratto nell'ambito dei diritti esigibili. Insomma dopo molti
anni e infinite battaglie, non si è ancora giunti al riconoscimento reale dei
diritti assistenziali, anzi in alcuni casi si sono fatti passi indietro.
Un segno molto eloquente delle difficoltà di riconoscere quei diritti è il fatto
che anche coloro che vogliono superare la vecchia pratica emarginante dell'assistenza
rischiano talvolta di andare troppo oltre, identificando diritti sociali uguali
per tutti che non tengono conto della specificità dei bisogni assistenziali.
Non si può pensare che esistano solo diritti sociali uguali per tutti, perché
questo significherebbe o erogare servizi anche a chi non ne ha bisogno o scaricare
sulle famiglie e sul privato (volontariato o impresa) esigenze specifiche che
i servizi sociali "normali" non possono soddisfare.
Occorre allora pensare, finalmente, la prestazione assistenziale come diritto
esigibile da tutti coloro che si trovano in condizioni specifiche (allo stesso
modo delle prestazioni sanitarie).
Si tratta cioè di assumere da parte dell'ente pubblico l'assistenza come un
settore di importanza primaria e non come delegabile in quanto concerne la difesa
di diritti essenziali dei cittadini, allo stesso modo - ripeto - della sanità
o della scuola, che non sono (o non sono ancora) delegate al privato o lo sono
in misura molto limitata e nel rispetto di rigidi standard.
L'assistenza invece continua ad essere un settore marginale dell'intervento
pubblico volto non tanto a promuovere diritti quanto piuttosto a tamponare falle
sociali, in gran parte delegato ai privati, e in ogni caso senza garanzia di
standard minimi comuni a tutti gli enti erogatori di servizi.
E' appena il caso di dire che con ciò non voglio difendere uno statalismo a
oltranza. Anzi, ritengo che si debba dare riconoscimento al volontariato privato
più largamente diffuso, vale a dire quello parentale.
Che l'assistenza venga, di fatto, abbandonata alla famiglia senza interventi
ne sostegni pubblici è un fatto che conferma come essa sia considerata un settore
secondario e delegabile.
Non si vuole peraltro nemmeno escludere il privato non familiare ma occorre
che siano garantite prestazioni omogenee su tutto il territorio nazionale, rispondenti
tutte a requisiti minimi, gestite a costi ragionevoli e nel rispetto dei diritti
non solo degli assistiti ma anche dei lavoratori.
Quel che nell'assistenza va spostato è il baricentro: dall'interesse privato
all'interesse pubblico, dalla marginalità sociale ai diritti, dalla casualità
e dall'arbitrio all'uguaglianza.
5- Per favorire questo spostamento del baricentro il volontariato deve cambiare
natura.
In primo luogo dovrebbe opportunamente assumere un carattere più politico come
strumento di difesa e di promozione dei diritti degli assistiti.
Ciò significa non che debba tralasciare di aiutare le persone in situazione
di bisogno, ma che deve appunto spostare il baricentro, non tanto rivendicare
sostegni e incarichi dall'ente pubblico quanto piuttosto adeguare il proprio
lavoro alle esigenze di una estensione e omogeneizzazione delle prestazioni
dei servizi fondamentali (istruzione, sanità, casa, …) e degli interventi assistenziali
(nel caso in cui siano necessari).
Probabilmente è necessario anche un profondo cambiamento dell'immagine e dell'autocomprensione
del volontariato. Penso in particolare a quello cattolico, che è di gran lunga
quello più diffuso ed è anche quello che conosco meglio. Ora il cambiamento
necessario consiste nel non pensare più non solo la politica ma anche il servizio
sociale volontario come espressione adeguata della carità cristiana.
In questa idea, infatti, si nasconde un equivoco, che riguarda non soltanto
la concezione dell'assistenza, ma anche quella della stessa carità. La carità
attiene all'ordine del gratuito, del sovrabbondante, di ciò che eccede la giustizia.
Ora il riconoscimento dei diritti sociali è un atto di giustizia e non riguarda
la carità.
Naturalmente si può dire che è un atto di carità battersi per il riconoscimento
di diritti che non sono riconosciuti o conculcati. In questo senso, forse, David
Maria Turoldo parlava di santi della giustizia osservano che: "la chiesa
(…) non ha mai canonizzato i santi della giustizia, preferendo in assoluto quelli
della carità. Anzi i caduti della giustizia non li considera neppure santi"
(M.N.Paynter, "Perché verità sia libera", Milano, Rizzoli, 1992, p.121)
Sicuramente tra i volontari ci sono moltissime persone ammirevoli che operano
in spirito di carità, ma è importante che essi distinguano chiaramente la motivazione
soggettiva dal lato oggettivo del loro agire.
Vale a dire che se, come ho detto, può essere espressione di carità far si che
siano riconosciuti i bisogni e diritti sociali che non lo sono (e certo va riconosciuto
che nei secoli la Chiesa ha sollecitato l'attenzione ai bisogni assistenziali
adoperandosi per soddisfarli), non lo è invece il contenuto e il fine di quell'agire,
appunto perché è una azione di giustizia.
Senza questa distinzione, accade inevitabilmente che le prestazioni assistenziali
erogate vengono pensate come prestazioni non dovute, non solo dal singolo volontario
ma nemmeno dalla società, come prestazioni attribuibili e affidabili soltanto
allo spirito caritatevole, con una sopravvalutazione della funzione del volontario
e una sottovalutazione del diritto dell'assistito.
Se è anche vero che è molto più della giustizia, la carità deve però trovare
in questa il suo limite, limite che riguarda l'uguaglianza dei diritti, che
deve essere garantita al di là delle eccezionalità, discrezionalità e personalizzazione
dell'intervento caritatevole.
6- E come la carità deve trovare un limite nella giustizia, così inversamente
e a maggior ragione la giustizia deve trovare un limite nella carità. La carità
infatti è sempre altro rispetto alla giustizia.
Si ricordi ad esempio il famoso passo della I lettera ai Corinti (13,3) che
distingue nel modo più drastico la carità non solo dalle opere di giustizia
ma anche da quelle che abitualmente vengono definite opere di carità. Se è vero
che certe opere, sia quelle che consistono nel rendere giustizia sia quelle
che donano al di là della misura della giustizia, possono essere espressione
dello spirito di carità, è anche vero che quando queste opere diventino istituzione,
organizzazione o anche semplicemente prassi consueta, allora è possibile, anzi
normale, che lo spirito di carità, di cui sono l'oggettivazione, si ritiri da
esse.
La carità è sempre qualcos'altro rispetto a qualsiasi azione sociale, non solo
è una eccedenza in quanto è soggezione all'altro, assunzione della responsabilità
per l'altro oltre il limite della reciprocità, ma anche qualcosa di difficilmente
afferrabile ed è visibile in molto casi solo agli occhi della fede.
Il resto è tutt'al più agire morale (e anche qui bisogna distinguere l'opera
dall'intenzione), e l'agire morale non è in linea di principio meritorio ne
tantomeno caritatevole: è semplicemente fare quello che si deve.
Alla carità spetta un altro spazio, uno spazio inesauribile che nessuna azione
sociale può occupare.
L'averla identificata prima con la beneficenza e poi con le opere sociali non
sono ha snaturato queste, ma anche ha ridotto il suo senso e il suo spazio e
l'ha snaturata anch'essa.
La carità appartiene ad un ordine proprio e irriducibile.
Non appartiene all'ordine della giustizia come testimonia la parabola degli
operai dell'ultima ora (Matteo 20, 1-16); non ha riguardo per l'efficacia dei
risultati, come dimostra l'episodio dell'obolo della vedova (Luca 21, 1-4);
appartiene all'ordine dell'invisibile, come mostra tutto il cap.6 di Matteo
e in particolare i vv.3-4: "Quando tu fai l'elemosina, non sappia la tua sinistra
ciò che fa la tua destra, perché la tua elemosina resti segreta".
La carità porta con sé, per chi crede, una riserva di senso e di possibilità,
una riserva che ha reso possibile e ancora deve rendere possibile, una critica
e una rottura dei modelli di giustizia esistenti e che non si identifica con
nessun nuovo modello, perché in ogni caso supera la giustizia.
La carità sospende e oltrepassa sempre l'ordine vigente, la giustizia vigente,
mostrando quando di insufficiente e anche di ingiusto essa contenga.
Si può dire che la carità sia l'istanza critica che svela i limiti della giustizia,
allo stesso modo in cui, nella prospettiva di S.Paolo, la grazia segna la crisi
della legge e ne svela il limite radicale (che consiste nel fatto che essa rende
consapevoli del peccato ma non dà la forza per vincerlo). Ma se la carità si
risolve nella giustizia, allora l'istanza critica viene meno.
Fra carità e giustizia vi è dunque, in conclusione, una imitazione reciproca,
e perciò una tensione irrisolvibile, che un cristiano consapevole deve riconoscere
e patire, senza cercare facili scorciatoie."
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