Dopo la riforma dell'assistenza: le prospettive
a livello regionale*
Mauro Perino, Direttore CISAP, Comuni di Collegno e Grugliasco (To)
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Le funzioni delle regioni
In base al disposto dell'articolo 8 della L.328/2000 le regioni sono chiamate
ad esercitare le funzioni di programmazione, coordinamento e indirizzo
degli interventi sociali nonché di verifica della rispettiva attuazione
a livello territoriale. Le regione devono inoltre disciplinare l'integrazione
degli interventi con riferimento all'attività sanitaria e socio sanitaria
.
Nell'ambito dell'esercizio delle funzioni conferite, le regioni devono attenersi
ad alcune regole opportunamente indicate dalla normativa nazionale ed in particolare
dall'articolo 3, commi 2 e 5, del decreto legislativo n.112/98 e dall'articolo
8, comma 2, della legge 328/2000.
In buona sostanza alle regioni è richiesto di prevedere, nell'ambito della propria
autonomia legislativa "strumenti e procedure di raccordo e concertazione,
anche permanenti, che diano luogo a forme di cooperazione strutturali e funzionali,
al fine di consentire la collaborazione e l'azione coordinata fra regioni
ed enti locali nell'ambito delle rispettive competenze" .
Alle regioni è inoltre richiesto di provvedere alla consultazione :
- delle ONLUS, delle cooperative, del volontariato, delle associazioni di
promozione sociale, delle fondazioni, degli enti di patronato e degli altri
soggetti privati attivi nella progettazione e realizzazione degli interventi;
- dei cittadini, delle organizzazioni sindacali, delle associazioni e di tutela
degli utenti;
- delle IPAB.
Precisati i vincoli di metodo la legge 328/2000 entra nel dettaglio delle
funzioni regionali, fissando anche alcune scadenze temporali. Alle regioni spetta:
- determinare - entro 180 giorni dall'entrata in vigore della legge e
tramite le forme di concertazione con gli enti locali interessati - gli
ambiti territoriali, le modalità e gli strumenti per la gestione unitaria del
sistema dei servizi sociali. Nella determinazione degli ambiti territoriali,
le regioni prevedono incentivi a favore dell'esercizio associato delle
funzioni sociali in aree di norma coincidenti con i distretti sanitari destinando
allo scopo una quota delle risorse regionali destinate all'attuazione della
legge di riforma;
- definire politiche integrate in materia di interventi sociali, ambiente,
sanità, istituzioni scolastiche, avviamento e reinserimento al lavoro, servizi
del tempo libero, trasporti e comunicazioni;
- promuovere e coordinare azioni di assistenza tecnica per l'istituzione
e la gestione degli interventi da parte degli enti locali;
- promuovere la sperimentazione di modelli innovativi di servizi in grado
di coordinare le risorse umane e finanziarie locali e di collegarsi alle esperienze
effettuate a livello europeo;
- promuovere la definizione e l'adozione di metodi e strumenti per il controllo
di gestione finalizzati a valutare l'efficacia e l'efficienza dei servizi ed
i risultati delle azioni previste;
- definire, sulla base dei requisiti minimi fissati dallo Stato, i criteri
per l'autorizzazione, l'accreditamento e la vigilanza delle strutture e dei
servizi;
- istituire, secondo modalità definite con legge regionale, sulla base di
indicatori oggettivi di qualità, i registri dei soggetti autorizzati all'esercizio
delle attività disciplinate dalla legge di riforma;
- definire i requisiti di qualità per la gestione dei servizi e per l'erogazione
delle prestazioni;
- definire i criteri per la concessione ai cittadini dei titoli per l'acquisto
dei servizi da parte dei comuni, secondo criteri generali adottati in sede nazionale;
- definire i criteri per la determinazione del concorso da parte degli utenti
al costo delle prestazioni, tenuto conto dei principi stabiliti dal decreto
legislativo n.109/98;
- predisporre e finanziare piani per la formazione e l'aggiornamento del
personale sociale;
- determinare i criteri per la definizione delle tariffe che i comuni sono
tenuti a corrispondere ai soggetti accreditati;
- esercitare i poteri sostitutivi nei confronti degli enti locali che
non provvedano all'esercizio delle funzioni attribuite dalla legge 328/2000.
Alle regioni spetta infine disciplinare le procedure amministrative, le modalità
per la presentazione dei reclami da parte degli utenti delle prestazioni sociali
e l'eventuale istituzione di uffici di tutela degli utenti stessi che assicurino
adeguate forme di indipendenza nei confronti degli enti erogatori.
Gli strumenti di attuazione della legge a livello regionale
La legge 328/2000 prevede che le regioni - nell'esercizio delle funzioni
conferite ed in relazione alle indicazioni del "Piano nazionale degli interventi
e dei servizi sociali" - adottino (entro centoventi giorni dall'approvazione
del Piano stesso e nell'ambito delle risorse disponibili) "attraverso forme
di intesa con i comuni interessati ai sensi dell'articolo 3 della legge 8 giugno
1990, n. 142, e successive modificazioni, il piano regionale degli interventi
e dei servizi sociali, provvedendo in particolare all'integrazione socio
- sanitaria in coerenza con gli obiettivi del piano sanitario regionale,
nonché al coordinamento con le politiche dell'istruzione, della formazione professionale
e del lavoro" .
In relazione ai livelli essenziali indicati dalla legge nazionale - ed
erogabili "secondo le caratteristiche ed i requisiti fissati dalla pianificazione
nazionale, regionale e zonale, nei limiti delle risorse del Fondo nazionale
per le politiche sociali, tenuto conto delle risorse ordinarie già destinate
dagli enti locali alla spesa sociale" - "le leggi regionali, secondo
i modelli organizzativi adottati, prevedono per ogni ambito territoriale
di cui all'articolo 8, comma 3, lettera a), tenendo conto anche delle
diverse esigenze delle aree urbano e rurali, comunque l'erogazione delle
seguenti prestazioni:
a) servizio sociale professionale e segretariato sociale per informazione
e consulenza al singolo e ai nuclei familiari;
b) servizio di pronto intervento sociale per le situazioni di emergenza
personali e familiari;
c) assistenza domiciliare;
d) strutture residenziali e semi residenziali per soggetti con fragilità
sociali;
e) centri di accoglienza residenziali o diurni a carattere comunitario"
.
Al livello regionale compete inoltre legiferare in merito alla tutela del diritto
di accesso al sistema integrato di interventi e servizi sociali, quantomeno
per quanto attiene ai cittadini stranieri. La legge nazionale prevede infatti
il diritto di accesso per i cittadini italiani ma lascia alle regioni la definizione
delle modalità di estensione di tale diritto "nel rispetto degli accordi internazionali,
con le modalità e nei limiti definiti dalle leggi regionali, anche
" ai "cittadini di Stati appartenenti all'Unione europea ed i loro familiari,
nonché" agli "stranieri, individuati ai sensi dell'articolo 41 del testo unico
di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n.286" .
Le contraddizioni della normativa nazionale e le ripercussioni sulla fase di
attuazione
1 - Diritti esigibili e livelli essenziali ed omogenei. Nonostante
le apparenze, dal punto di vista della tutela del diritto all'assistenza, la
legge di riforma rappresenta un'occasione perduta.
L'articolo 1, comma 1, della legge afferma che "La Repubblica assicura
alle persone e alle famiglie un sistema integrato di interventi e servizi sociali
(cosi' come definiti dal D.Lgs.112/98); promuove interventi per garantire
la qualità della vita pari opportunità, non discriminazione e diritti di
cittadinanza, previene, elimina o riduce le condizioni
di disabilità, di bisogno e di disagio individuale e familiare, derivanti da
inadeguatezza del reddito, difficoltà sociali e condizioni di non autonomia,
in coerenza con gli articoli 2, 3, e 38 della Costituzione".
Al comma 3 del medesimo articolo, si precisa però che "la programmazione
e l'organizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali compete
agli enti locali….secondo i principi di sussidiarietà, cooperazione,
efficacia, efficienza ed economicità, copertura finanziaria e patrimoniale,
responsabilità ed unicità dell'amministrazione, autonomia organizzativa e regolamentare
degli enti locali".
In buona sostanza se un lato si proclama il diritto dei cittadini ad usufruire
delle prestazioni e dei servizi del sistema integrato - affermando addirittura
il carattere di universalità del sistema integrato che gli enti locali,
le regioni e lo Stato sono tenuti a realizzare garantendo i livelli essenziali
delle prestazioni - dall'altro si pone il limite delle risorse finanziarie
e patrimoniali disponibili. E' come se in sanità si dicesse che tutti i
cittadini hanno diritto ad essere curati sino al limite rappresentato dalle
risorse professionali, finanziarie, tecnologiche e strutturali disponibili!
Per carità, non è escluso (come si vedrà più avanti) che si arrivi anche a questo
ma, per ora, la Costituzione garantisce cure gratuite almeno agli indigenti.
A lume di buon senso dovrebbe dunque valere il principio inverso: una volta
individuate le condizioni di bisogno - e quindi i cittadini - che devono
poter accedere ai servizi ed alle prestazioni essenziali si provvede
ad assicurare risorse adeguate. Ben sapendo che, realisticamente,
è necessario operare una selezione sia all'interno dell'universo delle "situazioni
di bisogno e di difficoltà che la persona umana incontra nel corso della
sua vita" sia nella definizione dei livelli essenziali (avendo ben presente
che "essenziale" non è, necessariamente, sinonimo di "minimo").
Come si è detto la legge 328/2000 non garantisce il diritto soggettivo a
livelli essenziali di servizi e prestazioni erogati in modo omogeneo
su tutto il territorio nazionale - quantomeno ad alcune "categorie" di cittadini
- ma assume il criterio della priorità di accesso per "i soggetti in
condizioni di povertà o con limitato reddito o con incapacità totale o parziale
di provvedere alle proprie esigenze per inabilità di ordine fisico e psichico,
con difficoltà di inserimento nella vita sociale attiva e nel mercato del lavoro,
nonché i soggetti sottoposti a provvedimenti dell'autorità giudiziarie che rendano
necessari interventi assistenziali" .
Curiosamente, sulla questione della tutela del diritto all'accesso prioritario,
la legge nazionale non assegna particolari compiti alla regione. "I parametri
per la valutazione delle condizioni di cui al comma 3 sono" infatti "definiti
dai comuni, sulla base dei criteri generali stabiliti dal Piano nazionale di
cui all'articolo 18" .
Purtroppo il "Piano nazionale" - approvato con decreto del Presidente della
Repubblica 3 maggio 2001 - per quanto attiene alla priorità di accesso, si limita
ad affermare che "le regioni e gli enti locali sviluppano specifiche azioni
affinché coloro che hanno più bisogno e perciò più titolo ad accedere
al sistema integrato non vengano esclusi o, comunque, non siano ostacolati
da barriere informative, culturali o fisiche nell'accesso ai servizi e agli
interventi specificamente loro dedicati e a quelli universalistici ". Il
tutto in omaggio al principio che "il criterio di accesso al sistema
integrato di interventi e servizi sociali è il bisogno. La diversificazione
dei diritti e delle modalità di accesso ad un determinato intervento è
basata esclusivamente sulla diversità dei bisogni" . A tal fine "è necessario
che l'ente locale titolare delle funzioni sociali svolga pienamente
le funzioni di lettura dei bisogni, di pianificazione e programmazione dei
servizi e degli interventi, di definizione dei livelli di esigibilità,
di valutazione della qualità dei risultati" .
Apparentemente non resta dunque che accontentarsi di livelli di esigibilità
"a geografia variabile" in quanto omogenei all'interno dei confini comunali
ma, non necessariamente, di quelli regionali e nazionali. Fortunatamente giunge
in soccorso la legge costituzionale - definitivamente approvata dopo il recente
referendum - che modifica il titolo V della parte seconda della Costituzione.
In essa si assegna allo Stato legislazione esclusiva, fra le altre materie,
nella "determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti
i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto
il territorio nazionale" Si può dunque ancora sperare in un "ravvedimento
operoso" che consenta - magari nel prossimo piano nazionale - di definire
livelli essenziali finalmente omogenei sul territorio nazionale,
lasciando alle regioni ed agli enti locali la definizione di eventuali livelli
integrativi.
E' però si d'ora possibile che le regioni - nell'ambito della potestà legislativa
loro assegnata dalla stessa legge di modifica Costituzionale e stante l'obbligo
di assicurare ai soggetti individuati dall'articolo 2, comma 3, della legge
328/2000 l'accesso prioritario ai servizi e alle prestazioni - provvedano alla
puntuale definizione delle condizioni di difficoltà alle quali garantire
prestazioni e servizi da erogare nel rispetto di standard adeguati ai bisogni
espressi dal territorio regionale.
2 - L'integrazione tra le attività sociali e quelle sanitarie. A
rendere ulteriormente contraddittorio il quadro generale è intervenuto - successivamente
all'approvazione della legge di riforma ed in attuazione della stessa - il preannunciato
D.P.C.M 14.02.2001 "Atto di indirizzo e coordinamento in materia di prestazioni
socio - sanitarie". Con il decreto "Turco - Veronesi" si prosegue nella direzione,
a suo tempo avviata dal "decreto Craxi" , ridefinendo i confini delle prestazioni
socio - sanitarie ed introducendo nuovi criteri di ripartizione della spesa
tra ASL e Comuni. Si "transitano" inoltre le competenze sulle "categorie" di
cittadini risparmiate dal decreto dell'85, dal comparto sanitario a quello
socio - sanitario (con conseguente accollo degli oneri di intervento relativi
alle attività ritenute non strettamente sanitarie ai comuni).
All'utenza già individuata dalle Regioni in applicazione del precedente atto
di indirizzo - rappresentata dall'area materno infantile, dai disabili,
dagli anziani cronici non autosufficienti - si aggiungono: le persone
non autosufficienti con patologie cronico degenerative; i soggetti
dipendenti da alcool e da droga; gli affetti da patologie psichiatriche;
gli affetti da H.I.V. Il servizio sanitario mantiene a completo carico
solamente le "prestazioni e trattamenti palliativi in regime ambulatoriale
domiciliare, semiresidenziale, residenziale" dei pazienti terminali.
Anche il nuovo decreto chiama in causa la regione che "nell'ambito della
programmazione degli interventi socio - sanitari determina gli obiettivi,
le funzioni, i criteri di erogazione delle prestazioni socio - sanitarie,
ivi compresi i criteri di finanziamento" - tenendo conto delle percentuali di
addebito dei costi dettagliati nella tabella allegata al decreto.
Ma il decreto coinvolge in maniera molto cogente anche i Comuni che,
per quanto attiene alle prestazioni socio - sanitarie e alle prestazioni
ad elevata integrazione sanitaria, "adottano sul piano territoriale gli
assetti più funzionali alla gestione, alla spesa ed al rapporto con i cittadini
per consentirne l'esercizio del diritto soggettivo a beneficiare
delle suddette prestazioni" .
E' significativo che a fronte di una legge di riforma dell'assistenza che non
fissa alcun diritto soggettivo a beneficiare delle prestazioni sociali (ad esclusione
delle pensioni ed assegni sociali che già lo prevedevano) ci si premuri di fissare
l'obbligo dei Comuni ad assicurare quelle prestazioni che sino
ad oggi gravavano, per intero, sulla spesa sanitaria ed erano quindi, come tali,
già effettivamente esigibili dal cittadino.
In tal modo, da un lato si proclama il diritto del cittadino alle prestazioni
e, dall'altro, si realizza l'obiettivo di sgravare ulteriormente la spesa sanitaria
accollandone una parte ai cittadini ed ai comuni che - con le maggiori risorse
messe in campo dalla L.328/2000 (a questo punto "ipotecate") e, molto probabilmente,
anche con risorse proprie (I.C.I, addizionale I.R.P.E.F, imposizione di quote
di contribuzione al costo dei servizi utilizzando l'I.S.E.E) - dovranno assicurare
(?) ai propri cittadini l'accesso alle prestazioni socio sanitarie.
Va osservato a questo proposito che la legge 328/2000 all'articolo 15 - relativo
al sostegno domiciliare delle persone anziane non autosufficienti - al comma
1, recita testualmente: "ferme restando le competenze del Servizio sanitario
nazionale in materia di prevenzione, cura e riabilitazione, per le patologie
acute e croniche, particolarmente per i soggetti non autosufficienti,
nell'ambito del Fondo nazionale per le politiche sociali il Ministro per la
solidarietà sociale, con proprio decreto, emanato di concerto con i Ministri
della sanità e per le pari opportunità, sentita la Conferenza unificata di cui
all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n.281, determina annualmente
la quota da riservare ai servizi a favore delle persone anziane non autosufficienti,
per favorirne l'autonomia e sostenere il nucleo familiare nell'assistenza domiciliare
alle persone anziane che ne fanno richiesta." Se le parole hanno ancora un senso:
1) viene ribadita la competenza sanitaria in materia di prevenzione,
cura e riabilitazione di tutti i soggetti non autosufficienti perché malati
(acuti o cronici); 2) si destinano annualmente dei fondi - quantificati
con decreto - per il sostegno delle famiglie degli anziani non autosufficienti
che assistono a domicilio i propri congiunti. Da queste osservazioni deriva,
con tutta evidenza, che il D.P.C.M "Turco - Veronesi" si pone in contrasto anche
con la legge di riforma, dalla quale dovrebbe discendere che tutte le prestazioni
a elevata integrazione sanitaria, in tutte le loro fasi, devono essere assicurate
dalle aziende sanitarie e quindi comprese nei livelli essenziali di assistenza
sanitaria (con relativi oneri a carico del Servizio sanitario).
Ma la cosa più grave è che - in omaggio al detto che "i guai non vengono mai
soli" - il 30 novembre 2001 è stato firmato il dal Presidente del Consiglio
dei Ministri su proposta dei Ministri della Salute, dell'Economia e delle Finanze
(il Ministero del "welfare" non è coinvolto) il decreto sui "livelli essenziali
di assistenza sanitaria".
Il decreto - emanato ai sensi dell'articolo 6 del decreto legge 18 settembre
2001 n.347, convertito in legge 16 novembre 2001, n. 405 (G.U, n.268 del 17/11/2001)
- non rimanda ad alcuna forma di "concertazione" tra Comuni e Regioni ed è,
quindi, immediatamente applicabile. La principale novità del provvedimento -
più esplicitamente penalizzante del precedente - è costituita dall'inserimento
di alcune prestazioni strettamente sanitarie tra quelle ("assistenziali")
che il decreto "Turco - Veronesi" assoggetta alla contribuzione, in percentuale,
da parte del cittadino e del comune.
E' evidente che con il "combinato disposto" dei due decreti si è ormai al di
fuori delle attività non considerate "a rilievo sanitario" (e quindi
poste a carico dei Comuni) in quanto "direttamente ed esclusivamente socio
- assistenziali, comunque estrinsecantisi, anche se indirettamente finalizzate
alla tutela della salute del cittadino" .
Con il "decreto Sirchia", in particolare, si accollano direttamente ai cittadini
ed in seconda istanza ai comuni le spese per prestazioni sanitarie
- fondamentali per la tutela della salute - che vengono, evidentemente, considerate
"accessorie" rispetto ai "livelli essenziali di assistenza sanitaria" .
E' bene ricordare a tale proposito che in base all'articolo 32 della Costituzione,
"la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo
e interesse della collettività", mentre in base all'articolo 38, "ogni cittadino
inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto
al mantenimento e all'assistenza sociale". La differenza è stata chiarita
dalla Corte di Cassazione, Sezione 1^, nella sentenza n.10150 del 20.11.1996,
nella quale è stato affermato che "le prestazioni sanitarie, al pari di quelle
a rilievo sanitario, sono oggetto di un diritto soggettivo, a differenza
di quelle socio - assistenziali, alle quali l'utente ha solo un interesse
legittimo".
La ratio della legge 30.11.1998 n. 419 - con la quale veniva conferita
la delega al Governo per la razionalizzazione del Servizio Sanitario Nazionale
- e dell'articolo 3 del Decreto legislativo 19.6.1999 n.229 - legge delegata
- è da rinvenirsi nella necessità, in conformità al diritto costituzionalmente
garantito alla salute, di imporre in modo chiaro il principio secondo il quale
il malato cronico deve essere curato e ciò implica la sostituzione della
categoria delle attività "di rilievo sanitario connesse con quelle socio - assistenziali"
(di cui al decreto Craxi) con la categoria delle prestazioni sociosanitarie
ad alta integrazione sanitaria poste a carico del S.S.N.
Tale condivisibile logica è stata totalmente stravolta dai due ultimi decreti
che, attraverso le tabelle allegate, hanno posto a carico degli utenti e dei
Comuni tutta una serie di prestazioni che, secondo l'intenzione del Legislatore,
dovevano invece venire assicurate dalle aziende sanitarie e comprese nei "livelli
essenziali di assistenza sanitaria" e, quindi, essere poste a carico del SSN
proprio perché prestazioni di carattere sanitario e non già socio - assistenziale.
3 - La legge finanziaria 2002 e l'esercizio associato delle funzioni sociali.
La legge di riforma incentiva - come si è visto - l'esercizio associato
delle funzioni sociali da parte degli enti locali che viene disciplinato dal
Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, di cui al decreto
legislativo 18 agosto 2000, n. 267.
Con l'articolo 35 della legge finanziaria 2002 vengono introdotte rilevanti
modifiche al Testo unico per quanto attiene ai servizi pubblici locali (dei
quali fanno ovviamente parte i servizi sociali). In primo luogo viene abrogata
la previsione di servizi riservati in via esclusiva ai comuni ed alle province
(art.112, comma 2). I consigli comunali hanno competenza in ordine all'organizzazione
dei servizi pubblici nelle forme previste dal Testo unico ma non più all'assunzione
diretta degli stessi (Art.42,comma 2, lettera e). I servizi pubblici
locali privi di rilevanza industriale (quali i servizi sociali) - con le
eccezioni previste da eventuali disposizioni disciplinanti singoli settori -
possono essere gestiti da istituzioni, aziende speciali anche
consortili, società di capitali o, in forma residuale, in economia.
E' fatta salva la possibilità di procedere all'affidamento diretto dei servizi
culturali e del tempo libero ad associazioni e fondazioni costituite
o partecipate dagli enti locali ed è inoltre confermata la possibilità di affidare
i servizi a terzi in base a procedure ad evidenza pubblica(art.113
bis). Per la gestione di servizi privi di rilevanza industriale possono inoltre
essere costituite società senza vincolo di partecipazione maggioritaria degli
enti locali (art.116). In ogni caso ai consorzi per la gestione
dei servizi pubblici privi di rilevanza industriale - quali ad esempio i consorzi
socio - assistenziali della Regione Piemonte - si applicano le norme della
aziende speciali (Art.31, comma 2 e 113 bis).
Le implicazioni di questi interventi normativi sulle "gestioni associate"
sono rilevanti in quanto ai comuni non resta che optare - fatti salvi interventi
regionali o improbabili ripensamenti statali - per la gestione tramite aziende
speciali anche consortili o attraverso società di capitali
. In alternativa rimangono (oltre al collaudato strumento delle Comunità
montane) le unioni di comuni (Art.32) - finalizzate alla gestione
di più servizi comunali - o la delega delle funzioni alle Aziende
unità sanitarie locali (consentita dalla normativa del sistema sanitario).
Non vi sono - allo stato - altre possibilità di gestione associata che assicurino
una strutturazione organizzativa stabile e permanente.
In questa sede non è possibile approfondire nei modi dovuti la questione ma
è comunque importante osservare che i vincoli gestionali, imposti dalla normativa
nazionale, rappresentano un'ulteriore passo nella direzione di una aziendalizzazione
della risposta sociale - che va ad intaccare il principio secondo
il quale la funzione pubblica nei servizi alle persone in difficoltà
si concretizza fondamentalmente nella promozione, nel controllo,
ma soprattutto nella garanzia della risposta, fatta salva ogni forma
di autogestione da parte della società - con il rischio, sempre più forte, di
vedere affidate "al mercato", e quindi alla logica "del più forte",
proprio le categorie più deboli.
L'adozione dello strumento gestionale rappresentato dall'azienda speciale (o
dalla società di capitali) - che comporta, tra le altre cose, l'uscita degli
operatori sociali dal comparto pubblico - va a mettere in discussione il
principio (già abbondantemente intaccato) "per cui dei servizi statali - primi
fra tutti i servizi del welfare - deve fruirsi per 'diritto'. Ed è appena il
caso di notare che senza questo mutamento nel modo di porre come sociali
i valori d'uso scaturiti dal processo sociale di produzione non sarebbe
stato possibile, ovviamente, il proliferare dei cosiddetti 'diritti sociali'
(al lavoro, allo studio, all'assistenza in caso di disoccupazione involontaria,
malattia e vecchiaia ecc.) che abbiamo visto dispiegarsi nelle costituzioni
europee e nelle carte dei diritti del secondo dopoguerra." .
Presupposto delle politiche sulle quali si è fondata la realizzazione dello
"stato sociale" è che "nel momento in cui lo stato si dà carico di organizzare
direttamente il processo produttivo, i lavoratori che esso impiega, pur figurando
come 'salariati' realizzano un prodotto o un servizio che, in quanto evocato
dalla comunità per soddisfare un proprio bisogno riproduttivo, possiede per
essa (cioè per quanti si pongono come suoi membri) un'utilità immediata. Pensare
di ottenere un 'profitto monetario' è, anzi, letteralmente un nonsenso,
perché cambia la base stessa della riproduzione". "E' questo il motivo per cui
il prodotto del lavoro dei dipendenti dello Stato (eccezion fatta, ovviamente,
per quelli addetti alle imprese di proprietà statale), ad onta della
forma salariata che assume la prestazione di tale attività, non ha più forma
di merce e, conseguentemente, non deve più scambiarsi con denaro per ottenere
il carattere di 'prodotto sociale': i beni e i servizi prodotti dallo stato,
che sono valori d'uso la cui creazione si rende possibile solo mediante il suo
intervento, appartengono 'di diritto' ai suoi membri, vale a dire ai cittadini"
.
Ma tale concezione sembra ormai appartenere al passato. Con la produzione legislativa
degli ultimi anni si è in gran parte realizzato il passaggio dal welfare
state al welfare mix, attraverso il quale è la comunità locale che
viene chiamata a "prendersi cura" di se stessa anche (e soprattutto)
per far fronte alla riduzione delle risorse rese disponibili dal sistema di
sicurezza sociale.
E' però assolutamente indispensabile che la sussidiarietà non venga intesa
come il prevalere "della beneficenza" - o peggio del "sociale degli
affari" - sul "sociale dei diritti" ma, semmai, come "restituzione
di competenza" alla comunità locale.
Il tema della sussidiarietà - come quelli connessi del federalismo e della governance
- non può "essere ridotto semplicemente al tema della prossimità territoriale
e nemmeno a quello della semplice suddivisione del potere: si tratta invece
di superare la stessa centralità della dimensione del potere, non per un astratto
dover essere, ma per una più concreta comprensione del reale. Se si supera
la dicotomia società / stato si superano anche le obiezioni rivolte al federalismo
da parte di coloro che in esso ravvisano semplicemente uno scontro tra gli interessi
dei gruppi: non è di questo federalismo che si tratta, ma di un complesso intreccio
di aggregazioni di soggettività, che sono caricate di dignità e anche di responsabilità
politica".
L'attuazione della legge 328/2000: il "modello piemontese"
Sul finire del 2001 la Regione Piemonte ha dato avvio alla fase di attuazione
della legge 328/2000. Il primo provvedimento che ha a che fare con la riforma
è il disegno di legge 348 "Nuovo ordinamento del servizio sanitario: il modello
del Piemonte. Piano socio - sanitario regionale per il triennio 2002 - 2004".
Nella relazione al Consiglio Regionale, posta in premessa, si afferma che il
disegno di legge si pone due importanti obiettivi: "Il primo obiettivo è la
delegificazione, assolutamente coerente con lo sviluppo normativo del
paese, orientato a sempre meglio delineare le responsabilità di governo offrendo
nel contempo a che deve governare la possibilità di operare in modo concreto
e sollecito; il secondo è un altrettanto importante obiettivo di semplificazione
normativa, in una materia estremamente parcellizzata da un nutrito insieme
di norme di dettaglio. Così nel provvedimento normativo si delineano i principi
e gli assetti di carattere generale, rinviando a provvedimenti amministrativi
la puntuale applicazione degli interventi di esecuzione".
In coerenza con la suddetta premessa metodologica, dalla lettura del disegno
di legge nella parte relativa al "Piano socio - sanitario regionale per il triennio
2002 - 2004" non si ricava alcuna indicazione di merito né sul comparto
sociale in generale, né sul tema nodale del coordinamento degli obiettivi
tra comparto sanitario e comparto sociale
Per quanto attiene al comparto sanitario - stante il perseguimento dell'obiettivo
prioritario della tutela della salute e del miglioramento della qualità della
vita - l'articolo 40 del disegno di legge elenca alcuni obiettivi generali
in attuazione dei quali la Giunta regionale - ai sensi dell'articolo 33
- provvederà alla definizione: degli "obiettivi da raggiungere anche attraverso
le azioni programmate e i progetti obiettivo"; del "fabbisogno stimato
in termini di servizi, attività prestazioni e risorse economiche correlate ai
livelli essenziali di assistenza", della azioni da intraprendere,
delle " risorse finanziarie ed i criteri di riparto necessari ad assicurare
i livelli di assistenza e le attività di prevenzione primaria", degli "specifici
obiettivi e le azioni concrete da intraprendere al fine di una maggiore tutela
dei soggetti deboli e per contrastare le situazioni di emarginazione".
Il disegno di legge appare inoltre gravemente carente anche con riferimento
al metodo della programmazione integrata tra il comparto sociale e quello
sanitario. L'articolo 37 si limita infatti a riproporre le "convenzioni"
con gli enti gestori dei servizi socio - assistenziali quale strumento di regolazione
delle attività integrate. Il "piano di zona" di cui all'articolo 19 della
legge 328/2000 viene semplicemente citato all'articolo 34 - ove si elencano
gli strumenti della "programmazione sanitaria e socio sanitaria integrata" -
ma nulla si dice sul ruolo dei comuni associati che "a tutela dei diritti
della popolazione" sono chiamati a realizzare la programmazione zonale
"secondo le indicazioni" - al momento inesistenti - "del piano regionale".
Infine, con riferimento alla definizione della "disciplina per la realizzazione
degli obiettivi socio - assistenziali" l'articolo 41, comma 3, del disegno
di legge rinvia alla legge regionale di attuazione della L.328/2000.
All'esame del provvedimento varrebbe sicuramente la pena di dedicare più spazio,
soprattutto con riferimento alla configurazione che viene ad assumere il sistema
sanitario regionale. In ogni caso il disegno di legge è congegnato "a scatole
cinesi" e quindi, per "apprezzarne" appieno la sostanza, bisognerà attendere
i provvedimenti attuativi che la Giunta regionale adotterà quando (e sé) il
provvedimento diventerà legge. Appurato che dalla bozza di Piano non emergono
sufficienti indicazioni per quanto attiene al comparto dei servizi sociali non
resta che passare all'esame della "Bozza 27.12.2001. Proposta di disegno
di legge 'Norme per la realizzazione del sistema regionale integrato di interventi
e servizi sociali'" che l'Assessorato alle Politiche Sociali della Regione
Piemonte ha recentemente trasmesso agli enti gestori delle funzioni sociali.
Rinviando ad altra sede l'esame analitico del documento è opportuno, in questa
sede, focalizzare l'attenzione sul metodo con il quale la Regione intende
espletare le funzioni conferite e sul merito delle stesse per quanto
attiene, in particolare, alle problematiche lasciate aperte dalla legge nazionale
e da quelle poste dalla successiva produzione normativa.
1 - Il ruolo dei comuni nella programmazione del sistema. Alle disposizioni
nazionali che prevedono una programmazione regionale degli interventi attraverso
"modalità di collaborazione e azioni coordinate con gli enti locali adottando
strumenti e procedure di raccordo e concertazione anche permanenti, che diano
luogo a forme di cooperazione strutturali e funzionali" si risponde con
l'art.6, comma 1 ove si afferma che:" i Comuni sono titolari delle funzioni
concernenti gli interventi sociali svolti a livello locale, concorrono alla
programmazione regionale, anche mediante l'elaborazione di proposte per
la definizione del piano regionale degli interventi e dei servizi sociali, e
in particolare: a) programmano e realizzano il sistema locale
……e) elaborano ed adottano….i piani di zona relativi agli
ambiti territoriali di competenza….".
Un ulteriore implicito riferimento ai comuni è rintracciabile nell'art.12, comma2,
lettera a) che - con riferimento ai metodi della programmazione adottati da
Regione, Province e Comuni - prevede "la concertazione e la cooperazione tra
i diversi livelli istituzionali".
Per quanto attiene poi alla "determinazione…tramite le forme di concertazione
con gli enti locali interessati, degli ambiti territoriali, delle
modalità e degli strumenti per la gestione unitaria del sistema locale
dei servizi" - di cui all'art.8, comma 3, lettera a) della legge nazionale
- si adotta, all'art. 4, comma 1, lettera a) della bozza, una formulazione più
sintetica (ma anche più restrittiva): è di competenza regionale "la definizione
degli ambiti territoriali ottimali per la gestione dei servizi sociali,
determinati di concerto con gli enti locali e di norma coincidenti con
il distretto sanitario". Il concetto viene poi ribadito, negli stessi termini,
dall'art.8, comma2.
In sintesi si può dire che non si è certamente enfatizzato il ruolo degli enti
locali. L'articolo 14, comma 3, si limita ad affermare - in sintonia con la
legge nazionale - che il Piano regionale degli interventi e dei servizi sociali
"viene predisposto, nell'ambito delle risorse disponibili, attraverso forme
di intesa con i Comuni, le Province, con la partecipazione attiva delle
Aziende Pubbliche dei Servizi alla Persona e dei soggetti del terzo settore
che partecipano con proprie risorse alla realizzazione dei servizi, nonché con
la collaborazione dei soggetti di cui all'art.1, comma6, della legge nazionale"
(cittadini, organizzazioni sindacali, associazioni sociali e di tutela ecc).
2 - l'integrazione socio - sanitaria e il "Piano di zona". La Regione
Piemonte "al fine di assicurare una risposta completa e adeguata al raggiungimento
del benessere complessivo dei cittadini, attua l'integrazione socio - sanitaria
determinandone gli obiettivi, le funzioni, i criteri e le modalità di erogazione,
compresi quelli di finanziamento, nell'ambito della normativa nazionale vigente"
(art.4, comma3). "La Giunta Regionale, di concerto con la Conferenza
Regionale permanente per la programmazione sanitaria e socio - sanitaria di
cui all'art.108 della legge regionale 26.4.2000, n. 40, così come integrata
dalla legge regionale 15.3.2001, n.5, con propria deliberazione individua
le prestazioni essenziali ad integrazione socio sanitaria, determinandone
gli obiettivi, le funzioni, i criteri di erogazione, di funzionamento e di finanziamento"
(art.18, comma 1).
In attesa di conoscere modalità, tempi e modi di attuazione a livello regionale
del decreto "Turco - Veronesi" e del successivo decreto del Ministro della Salute
occorre però, sin d'ora, prendere atto di alcune prescrizioni regionali attinenti
agli aspetti gestionali. "Le attività socio - sanitarie integrate, da realizzarsi
a livello distrettuale e con modalità concordate fra la componente
sanitaria e quella sociale, sono regolate dall'accordo di programma" (art.18,
comma 2). "Le attività sono realizzate con modalità condivise dai settori
sanitario e sociale e, al fine di garantire l'attuazione e l'efficacia degli
interventi, viene nominato il responsabile del caso" (art.18, comma 3). Infine
"L'erogazione delle prestazioni e dei servizi è organizzata mediante la valutazione
multidisciplinare del bisogno, la definizione del piano di lavoro integrato
e individualizzato, il monitoraggio costante, la verifica periodica e la valutazione
finale dei risultati; la Giunta regionale emana indirizzi e protocolli
volti a rendere omogenei sul territorio i criteri di valutazione multidisciplinare
e l'articolazione del piano di lavoro personalizzato" (art.18, comma4).
E' singolare che ci si preoccupi di promuovere concordia e condivisione
tra comparti, dimenticando di stabilire, in primo luogo, corrette regole di
rapporto tra i soggetti istituzionali che concorrono alla realizzazione del
sistema. Dei Comuni, infatti, non si fa menzione: dimenticando che la legge
nazionale di riforma - all'articolo 6, comma 1 - individua proprio nei Comuni
i "titolari delle funzioni amministrative concernenti gli interventi sociali
svolti a livello locale" e che "tali funzioni sono esercitate dai comuni adottando
sul piano territoriale gli assetti più funzionali alla gestione, alla
spesa ed al rapporto con i cittadini secondo le modalità stabilite dalla
legge 8 giugno 1990, n.142, come da ultimo modificata dalla legge 3 agosto 1999,
n.265". Concetto peraltro ripreso e rafforzato dal decreto "Turco - Veronesi"
che - con riferimento alle prestazioni socio - sanitarie e alle prestazioni
ad elevata integrazione sanitaria - assegna ai Comuni il compito di adottare
"sul piano territoriale gli assetti più funzionali alla gestione, alla
spesa ed al rapporto con i cittadini per consentirne l'esercizio dei diritto
soggettivo a beneficiare delle suddette prestazioni".
E' ben vero che i Comuni sono chiamati ad operare "secondo le indicazioni del
piano regionale di cui all'articolo 18, comma 6" della legge nazionale ma si
tratta, pur sempre, di un piano alla definizione del quale gli enti locali sono
chiamati a concorrere e, in ogni caso, dovrebbe essere il piano (semmai)
a demandare alla Giunta Regionale eventuali provvedimenti attuativi e non -
saltando un passaggio - la legge ragionale. Si ha la sensazione, leggendo la
bozza di legge regionale, che all'autonomia dei comuni vengano posti alcuni
limiti che non si ritrovano nella legge nazionale. L'esempio più eclatante è
rappresentato dal "Piano di zona" che, in base alla normativa nazionale, i
comuni associati devono definire - d'intesa con le ASL - secondo
le indicazioni del piano regionale e con il coinvolgimento di tutti gli
altri soggetti individuati dalla legge nazionale.
Significativamente nella legge regionale si prevede che "la parte dei piani
di zona relativa alle attività di integrazione socio sanitaria dovrà trovare
obbligatoria corrispondenza nella parte dei programmi di attività distrettuale
contenuta nei piani attuativi aziendali (delle ASL) per garantire la preventiva
convergenza di orientamenti dei due comparti interessati, l'omogeneità
di contenuti, tempi e procedure" (Art.15, comma 4).
Visto lo scarso potere dei comuni di indirizzare e controllare la programmazione
e l'attività delle Aziende Sanitarie è come dire che saranno queste ultime "a
dettare le regole del gioco": ovviamente in attuazione delle deliberazioni con
le quali la Giunta regionale individua le prestazioni essenziali ad integrazione
socio sanitaria ed i protocolli volti a rendere omogenei sul territorio i criteri
di valutazione multidisciplinare e l'articolazione del piano di lavoro
personalizzato.
Altro che "programmazione dal basso"! E' paradossale che i comuni siano chiamati
a garantire un diritto ai propri cittadini senza poter realmente concorrere
alla definizione dei livelli delle prestazioni - attraverso le quali
tale diritto si concretizza - e senza poter determinare, con adeguata autonomia,
l'assetto organizzativo territoriale idoneo a renderlo effettivamente esigibile!
3 - Le risorse finanziarie. L'articolo 33 della bozza di legge affronta
il tema delle risorse finanziarie di parte corrente. Al comma 1 si ribadisce
- in sintonia con la normativa regionale vigente - che il sistema integrato
è finanziato dai Comuni, con il concorso della Regione e degli utenti, nonché
dal Fondo sanitario regionale per le attività integrate socio - sanitarie, secondo
quanto previsto dalla normativa vigente (che include, ovviamente, gli ultimi
decreti sul "rilievo sanitario). I Comuni devono inoltre garantire risorse
finanziarie "che assicurino il raggiungimento di livelli di assistenza adeguati
ai bisogni espressi dal proprio territorio" (comma 2). Tali risorse - di entità
stabilita dall'organo associativo che gestisce i servizi - devono venire iscritte
in bilancio e liquidate, in termini di cassa, alle scadenze previste dagli enti
gestori.
Per quanto attiene ai finanziamenti regionali (comma 4) - che hanno carattere
contributivo rispetto all'intervento comunale - viene assunto un impegno preciso:
"le risorse regionali complessive…sono annualmente almeno pari a quelle
dell'anno precedente, incrementate del tasso di inflazione programmato"(comma
6).
Apparentemente viene fugato ogni timore che - a fronte degli incrementi finanziari
derivanti dall'applicazione della legge 328/2000 - si verifichi, nel tempo,
una riduzione dei contributi regionali. Dalla lettura del successivo comma 7
si apprende però che "è istituito il Fondo regionale per la gestione
del sistema integrato degli interventi e servizi sociali nel quale confluiscono:
a) le risorse proprie della Regione di cui al 4° comma; b) le risorse
indistinte trasferite dallo Stato; c) le risorse trasferite dalle
Province di cui all'art.5, 4° comma; d) le risorse provenienti da soggetti
pubblici e privati".
Posto che resterà da verificare se, all'aumento del fondo nel suo complesso,
corrisponderà anche l'aumento delle "risorse proprie della Regione di
cui al 4° comma" della bozza di legge regionale (come previsto dal principio
di sussidiarietà verticale), vale la pena ricercare qualche indicazione in merito
ai criteri di riparto del fondo.
A tale proposito, nei commi successivi, si afferma che "il fondo regionale di
cui al comma precedente è annualmente ripartito tra i comuni singoli o associati
secondo criteri individuati dalla Giunta regionale" (comma 8) e che "in
coerenza con la funzione programmatoria ed organizzativa attribuita alla Regione,
le risorse del Fondo di cui al 7° comma sono prioritariamente destinate
alla contribuzione finanziaria delle gestioni conformi, sul piano progettuale,
organizzativo ed operativo, alle indicazioni e agli obiettivi fissati dalla
Regione" (comma 9). "A tal fine, i criteri per il riparto del Fondo regionale
devono, in particolare, privilegiare: a) gli Enti gestori istituiti entro
gli ambiti territoriali ottimali individuati dalla Regione, prevedendo
anche eventuali disincentivi per la gestione in ambiti territoriali diversi;
b) gli Enti gestori che: assumano la gestione complessiva degli
interventi e servizi sociali di livello essenziale; assicurino
i livelli essenziali e uniformi delle prestazioni spostando l'attenzione
dalla domanda espressa ai bisogni rilevati; promuovano la partecipazione
effettiva di tutti i soggetti pubblici e privati e delle famiglie …….; assicurino
in via prioritaria, la risposta alle esigenze di persone portatrici di bisogni
gravi; realizzino la massima integrazione tra sanità e assistenza….;
garantiscano…..la corrispondenza dei risultati effettivamente conseguiti
con gli obiettivi prefissati nella fase programmatoria…; assicurino un
impegno finanziario dei Comuni adeguato a sostenere le spese necessarie
per fornire idonee risposte ai bisogni del territorio" (comma 10).
Anche per quanto attiene ai criteri di riparto e di utilizzo dei fondi, vale
quanto già osservato con riferimento allo scarso coinvolgimento di Comuni ed
Enti gestori nella definizione partecipata delle "regole del gioco" in sede
di programmazione. Si evidenzia inoltre il problema degli "indicatori"
utilizzati dalla regione per valutare l'attività degli Enti gestori ed in particolare
il rispetto di standard di servizi corrispondenti ai livelli essenziali ed
erogati nel rispetto delle priorità di accesso previste dalla legge nazionale.
4 - I livelli essenziali delle prestazioni, i destinatari degli interventi e
i loro diritti. Il tema delle "prestazioni essenziali" e dei "livelli
essenziali e omogenei delle prestazioni" è liquidato molto sbrigativamente dagli
articoli 16 e 17 della bozza di disegno di legge.
"Le prestazioni e i servizi essenziali indispensabili ad assicurare risposte
adeguate" - alle finalità generali indicate dall'art.16, comma 1 - "sono:
1.servizio sociale professionale e segretariato sociale; 2. assistenza
domiciliare ed educativa territoriale; 3. assistenza economica; 4.
servizi residenziali e semi residenziali; servizi per l'affidamento
e le adozioni; 5. pronto intervento sociale" (art.16, comma 2). "Tali
prestazioni e servizi sono gli strumenti per rendere esplicite le garanzie offerte
ai cittadini e per garantire in maniera integrata la presa in carico complessiva
della persona e della comunità locale" (comma 3).
Se si confronta l'elenco fornito con quello indicato dall'art.22, comma 4, della
legge nazionale si rileva che all'assistenza domiciliare si è aggiunte l'educativa
territoriale; compare l'assistenza economica ma spariscono i "centri di accoglienza
residenziali o diurni a carattere comunitario" (probabilmente inclusi nei servizi
residenziali e semi residenziali); compaiono infine i servizi per l'affidamento
e le adozioni.
Nel successivo articolo 17 si entra nel merito dei livelli, essenziali
ed omogenei, delle prestazioni precedentemente elencate. O meglio, ancora una
volta, si entra "nel metodo" in quanto si afferma che i livelli "vengono
definiti dalla Giunta Regionale con apposito provvedimento tenendo conto:
a) dei bisogni della popolazione interessata; b) della
necessità di una distribuzione omogenea sul territorio in relazione alle
sue caratteristiche socio - economiche, c) degli indicatori di risultato
individuati dal piano regionale; d) delle risorse necessarie
disponibili. "Tali livelli" - che diverranno noti dopo l'approvazione delle
deliberazioni della Giunta Regionale - "costituiscono la risposta minima
ed omogenea che gli enti gestori sono tenuti a garantire su tutto il territorio
piemontese e sono finalizzati alla promozione del benessere sociale e alla
prevenzione del disagio, all'inclusione sociale e allo sviluppo della cittadinanza
attiva, alla valorizzazione delle capacità individuali attraverso progetti personalizzati,
tesi allo sviluppo dell'autonomia sociale ed economica" (comma 2).
Non potendo, per ovvie ragioni, formulare osservazioni di merito - se
non per segnalare con preoccupazione l'utilizzo del termine "minima" riferito
ad un livello di risposta ancora da definire in termini di standard di prestazione
- non rimane che formulare una considerazione generale di metodo. La
legge nazionale assegna alle Regioni il compito di prevedere, con
propria legge, che vengano comunque erogate le "prestazioni essenziali"
di cui all'articolo 22, comma 4, della legge nazionale. In tal senso la
Regione assolve formalmente al proprio compito con il citato articolo 16 della
bozza in esame. Ma la legge nazionale non vieta di definire ed approvare
con legge anche i livelli essenziali al fine di renderli esigibili
(con forza di legge appunto) su tutto il territorio regionale. La concreta definizione
dei livelli (in mancanza della quale le prestazioni essenziali possono
venire ricondotte ad altrettante "targhette" sugli uffici) attraverso provvedimenti
amministrativi consente sicuramente di rispettare i principi della delegificazione
e della semplificazione normativa, ma non contribuisce di certo a promuovere
i diritti sociali.
Diritti sociali che - per quanto attiene alla materia contenuta nella bozza
di disegno di legge - vengono, singolarmente, sostanziati nel diritto ad
esigere. Secondo l'articolo 20 che individua i destinatari degli interventi:
"il criterio di accesso al sistema integrato di interventi e servizi sociali
è il bisogno. A tal fine è riconosciuto a ciascun cittadino il diritto ad
esigere, entro i limiti e secondo le procedure previste" - con provvedimenti
amministrativi agilmente modificabili - "le prestazioni sociali di livello
essenziale di cui all'art.16" - a priori definito minimo - "ritenute
necessarie dall'Ente gestore istituzionale" - e quindi assogettate a forte
discrezionalità e potenzialmente a "geografia variabile" - "secondo i criteri
di priorità di cui al successivo comma 3; contro l'eventuale motivato diniego
è esperibile il ricorso per opposizione allo stesso organo competente per l'erogazione
della prestazione negata" (comma 1). E' appena il caso di ricordare che con
la puntuale definizione per legge dei diritti esigibili, al cittadino
verrebbe consentita la tutela anche per via giurisdizionale.
Alle condizioni di cui sopra "hanno diritto a fruire delle prestazioni e dei
servizi del sistema integrato regionale di interventi e servizi sociali i cittadini
residenti nel territorio della regione Piemonte, i cittadini appartenenti all'Unione
Europea ed i loro familiari, gli stranieri individuati ai sensi dell'art.41
del T.U di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n.286" (comma 2).
Nell'articolo 22 che tratta della "Carta dei servizi" e dei diritti degli utenti
vengono forniti ulteriori dettagli: "gli utenti e le loro famiglie hanno diritto:
a) ad avere informazioni sui servizi, sui livelli essenziali di prestazioni
sociali erogabili, sulle modalità di accesso; sulle tariffe praticate; b)
alla partecipazione alla definizione del progetto personalizzato e al relativo
contratto informato; c) a partecipare a forme di consultazione e di valutazione
dei servizi sociali."(comma 1). "La Regione promuove ed incentiva economicamente
l'istituzione, presso la Presidenza dell'organo assembleare dell'ente gestore,
di un apposito Ufficio di garanzia dell'esigibilità delle prestazioni
e dei servizi a favore del cittadino" (comma 3).
Infine il "diritto di accesso". L'articolo 21, comma 4 - in sintonia con il
"Piano nazionale" - afferma che "la valutazione del bisogno è condizione
necessaria per accedere ai servizi a titolo gratuito o con concorso parziale
alla spesa da parte dell'utenza, nonché per fruire del titolo per l'acquisto
dei servizi".
Fatta questa premessa di ordine generale si stabilisce - all'art.20, comma 3,
- che accedono prioritariamente al complesso del sistema integrato "i
soggetti in condizione di povertà o con limitato reddito o con incapacità
totale o parziale di provvedere alle proprie esigenze per inabilità di
ordine fisico e psichico, con difficoltà di inserimento nella vita sociale
attiva e nel mercato del lavoro, nonché i soggetti sottoposti a provvedimenti
dell'autorità giudiziaria che rendono necessari interventi assistenziali;
i minori, specie se in condizione di disagio familiare".
Forse giova ricordare che - oltre a quanto previsto dal già citato articolo
38 Costituzione - qualche diritto esigibile è rintracciabile anche in
altre leggi dello Stato ancora vigenti, anche se per certi aspetti datate. Sarebbe
quindi opportuno che nella legge regionale venissero quantomeno ribaditi
i diritti riconosciuti in base alla legge 6 dicembre 1928 n.2838 e dagli articoli
154 e 155 del regio decreto 773/1931 , e venisse coerentemente confermato l'obbligo
dei Comuni singoli o associati a fornire le prestazioni (opportunamente adattate,
anche per quanto attiene alle procedure, ai tempi) ai soggetti aventi diritto.
E' però auspicabile che la Regione Piemonte - avvalendosi appieno della potestà
normativa sul proprio ambito territoriale conseguente alla modifica del titolo
V della seconda parte della Costituzione - compia la scelta qualificante di
assicurare il diritto esigibile alle prestazioni assistenziali per le persone
che si trovano in condizioni di difficoltà talmente gravi da mettere in pericolo
la loro sopravvivenza.
Alla luce della consolidata esperienza maturata dai servizi sociali tali condizioni
dovrebbero venire individuate come segue:
I minori in tutto o in parte privi delle indispensabili cure familiari,
siano essi nati nel o fuori del matrimonio;
I disabili intellettivi totalmente o gravemente privi di autonomia e
senza alcun valido sostegno familiare;
I soggetti colpiti da altri handicap, anche plurimi, che necessitano
di aiuti specifici per poter acquistare la massima autonomia possibile nel rispetto
del diritto all'autodeterminazione;
Gli anziani che non sono in grado di provvedere alle proprie esigenze
di vita;
Le gestanti e madri in grave difficoltà personale alle quali va altresì
fornita la necessaria consulenza psico sociale per il loro reinserimento e per
il responsabile riconoscimento o non riconoscimento dei loro nati;
Le persone che vogliono uscire dalla schiavitù della prostituzione;
I soggetti senza fissa dimora;
Gli altri individui che necessitano di prestazioni specifiche se si vuole
evitare la loro emarginazione.
Alle persone rientranti nelle sopra elencate condizioni non è infatti sufficiente
garantire l'accesso prioritario al complesso dei servizi ed alle prestazioni.
La normativa regionale di attuazione può (e deve, pena un arretramento rispetto
a quanto si è realizzato negli ultimi vent'anni in applicazione dell'articolo
23 del D.P.R 616/77) prevedere che ad esse vengano in ogni caso assicurate
le prestazioni - indicate dall'articolo 22 della legge 328/2000.
A tal fine è inoltre necessario che si provveda, in sede di attuazione a livello
regionale, alla puntuale quantificazione delle risorse finanziarie, umane
e patrimoniali che devono venire obbligatoriamente destinate alla realizzazione
di tali servizi da parte degli enti locali titolari delle funzioni sociali.
5 - Le forma di gestione associata delle funzioni e dei servizi. Si
potrebbero formulare ancora molte osservazioni sulla bozza. Non ultima quella
che sarebbe preferibile abbandonare l'elencazione delle competenze articolata
"per categorie" (minori, disabili, anziani) riprendendo la suddivisione, già
presente nella L.R 62/95, "per funzioni" (assistenza economica, assistenza domiciliare,
ecc.) che andrebbero riferite ad un unico soggetto individuato nel nucleo
familiare (e non solo nella famiglia).
In ogni caso è opportuno concludere affrontando un ultimo tema: quello delle
forme di gestione associata, che risulta particolarmente "spinoso" alla luce
delle novità introdotte dalla legge finanziaria.
"La regione individua nella gestione associata la forma più idonea a garantire
l'efficacia e l'efficienza degli interventi e dei servizi sociali di competenza
dei Comuni e prevede incentivi finanziari a favore dell'esercizio associato
delle funzioni e della erogazione della totalità delle prestazioni essenziali
entro gli ambiti territoriali ottimali di cui all'art.8" (art.9, comma 1).
Viene inoltre riconosciuta la gestione in forma singola dei Comuni capoluogo
di provincia - a prescindere dalle dimensioni -(art. 9, comma 2) e ribadito
- in quanto in gran parte già previsto dalla normativa regionale vigente - l'obbligo
di gestione in forma associata o tramite delega alle ASL delle "attività per
la tutela materno infantile e dell'età evolutiva, le attività a rilievo sanitario
per gli handicappati e gli anziani non autosufficienti, le attività di formazione
professionale del personale dei servizi sociali e quelle relative all'autorizzazione,
accreditamento e vigilanza sui servizi e sulle strutture" (art. 9, comma 4).
Da tale obbligo sono esentati i Comuni capoluoghi di provincia.
Infine l'aspetto delle forme associative, da esaminare con attenzione viste
le modifiche al Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali introdotte
dall'art.35 della legge finanziaria 2002. "Per la gestione associata delle funzioni
i Comuni adottano le forme associative previste dalla legislazione vigente
che ritengono più idonee ad assicurare una ottimale realizzazione del sistema
integrato degli interventi e servizi sociali compresa la gestione associata
tramite delega all'ASL nel caso che questo rappresenti la soluzione ottimale
per il territorio interessato e con l'atto di delega vengano definite le modalità
gestionali" (art. 9, comma 3).
E' evidente che con tale formulazione - e fatte salve diverse "interpretazioni"
dell'articolo 113 bis che la finanziaria ha introdotto nel Testo unico - i Comuni
che già gestiscono in forma associata le funzioni assistenziali, dovrebbero
procedere alla trasformazione dei propri Consorzi socio - assistenziali in "Aziende
speciali, anche consortili" o, in alternativa, optare per una delle altre forme
associative previste dalla nuova normativa.
Non è il caso di aggiungere nulla alle considerazioni già formulate in proposito,
se non che si andrà incontro ad una prolungata e faticosa fase di riorganizzazione
delle strutture preposte alla gestione dei servizi. Una riorganizzazione, si
badi bene, non finalizzata ad attuare la legge di riforma ed a migliorare quali
- quantitativamente le prestazioni sociali, ma ad ottemperare ad un disposto
normativo di cui non sono chiaramente esplicitate le finalità sul piano strategico
(anche se si possono intuire) e che trascinerà con sé tensioni e polemiche delle
quali non si sentiva certamente il bisogno.
* Relazione su "Dopo la riforma 'dell'assistenza' le prospettive a livello
regionale" al seminario promosso dalla "Bottega del Possibile" a Torre Pellice
il 18 gennaio 2002, La legge 328/2000. Appunti per una lettura professionale.
Spunti per una riflessione metodologica.
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