Da "Prospettive Assistenziali" (via Artisti
36, 10124 Torino), n. 1(141)-2003, p. 4.
Dopo il decreto legislativo n. 130/2000, le rette di ricovero vanno pagate dai
genitori degli handicappati maggiorenni infrasessantenni?
Massimo Dogliotti*
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Delle indicazioni dei decreti legislativi n. 109/1998 e n. 130/2000 tiene correttamente
conto (finalmente!) la Giunta comunale di Milano nella sua delibera n. 1000
del 16 aprile 2002: essa dichiara "decadute" due disposizioni relative alla
contribuzione degli obbligati ex art. 433 del codice civile, seppur a far data
dal 1° agosto 2002 (e si spiega, nella relazione allegata, che l'entrata in
vigore del decreto legislativo n. 130/2000 e il conforme parere del Ministro
dell'interno - Direzione generale Servizi sociali, espresso in data 8 giugno
1999 impediscono d'ora in poi alle pubbliche amministrazioni di richiedere contribuzioni
ai familiari degli utenti dei servizi socio-assistenziali, compresi quelli tenuti
agli alimenti. Si dichiarano dunque decadute alcune deliberazioni di Giunta
precedenti di tenore contrario e si chiede al Settore competente di attivare
tutte le comunicazioni della cessazione dell'obbligo alimentare derivato dall'art.
433 del codice civile verso i parenti dei ricoverati (anche se, lo si ribadisce,
l'obbligo dei parenti alla contribuzione non era mai esistito!).
Tutto bene, tutto a posto, allora, seppur con ritardo?
Purtroppo non è così: la delibera "inventa" un obbligo ai genitori, che sarebbe
risibile se non fosse invece tragico per i presunti titolari di esso. Si afferma
infatti che "resta immutata" la disciplina per la parte di contribuzione
da porre a carico dei genitori dei portatori di handicap (sic!) inferiori agli
sessanta (e dunque, magari con genitori anziani sugli ottanta-novant'anni) che
non si sono mai emancipati dal nucleo familiare di origine, in quanto il loro
dovere di contribuire alle spese di ricovero discende (niente meno …!) dall'art.
147 del codice civile.
Tale norma, inserita nel codice civile, analoga nel contenuto, all'art. 30,
comma primo, della Costituzione, precisa che i genitori sono tenuti a mantenere,
istruire, educare i figli, temendo conto delle loro capacità, inclinazioni naturali,
aspirazioni. Nessuno (assolutamente nessuno!) ha mai dubitato, tra gli scrittori
di diritto e i giudici chiamati alla sua applicazione, che i destinatari della
norma siano i figli minori. Il dovere di mantenimento è infatti assai più ampio
dell'obbligo alimentare: il primo attiene alla soddisfazione di ogni bisogno
del bambino e dell'adolescente, collegato alle esigenze di uno sviluppo compiuto
ed armonico della sua personalità; il secondo è limitato ai bisogni essenziali,
il vitto, l'alloggio, il vestiario, necessari per la vita del soggetto.
Destinatari dunque, come si diceva, del precetto dell'art. 147 del codice civile
sono esclusivamente i genitori nei confronti dei figli minori. Con un'unica
limitata eccezione, anch'essa generalmente riconosciuta, e venuta in considerazione
quando, nel 1975, la maggiore età, allora a ventun'anni, fu abbassata a diciotto:
il dovere di mantenimento permane per i figli maggiorenni che attendono agli
studi o che non sono ancora adeguatamente inseriti nel mondo del lavoro, e risultano
quindi non autosufficienti economicamente. Ciò per un tempo comunque limitato
(talora ci si riferisce al periodo necessario al conseguimento di un diploma
universitario, previsto dal piano di studi).
Per ogni altro rapporto tra genitori e figli, il dovere di mantenimento si converte
in obbligo alimentare.
La delibera della Giunta del Comune di Milano parla di portatori di handicap
"che non si sono mai emancipati dal nucleo familiare di origine". Ma,
anche per essi, non vi è alcuna eccezione: è all'obbligo alimentare che si deve
riferire, ai sensi degli art. 433 del codice civile e seguenti, con tutte le
conseguenze che ciò comporta, già sopra evidenziate. In tal senso, il primo
obbligato sarebbe il coniuge, poi verrebbero i figli, e se essi non fossero
o comunque non potessero, per le loro condizioni economiche, corrispondere gli
alimenti, solo dopo di loro subentrerebbero i genitori. È vero che, nei casi
indicati dalla delibera, probabilmente non vi saranno coniugi e figli, e tuttavia
ciò non darebbe certo luogo all'applicazione dell'art. 147 del codice civile,
norma che regola tutt'altra situazione.
Dunque, anche per i soggetti handicappati, magari pure interdetti o inabilitati,
sussiste a carico dei parenti (genitori o altri) soltanto l'obbligo alimentare,
e non mancano, nell'esperienza giudiziaria, controversie proposte nei confronti
di essi dal tutore, quale rappresentante dell'incapace (ove tutore fosse lo
stesso genitore obbligato, si ravviserebbe conflitto d'interessi, e allora la
causa sarebbe promossa dal protutore, ai sensi dell'art. 380 del codice civile
ovvero da un curatore speciale, nominato dal giudice tutelare), ma tali controversie
non potrebbero certo essere attivate dagli enti erogatori di assistenza.
Non si capisce, infine, perché sia stato imposto il limite di sessant'anni non
previsto da legge alcuna: se, per assurdo, l'art. 147 del codice civile trovasse
applicazione, esso dovrebbe estendersi anche agli handicappati superiori ai
sessant'anni … con genitori particolarmente longevi.
Certo il riferimento così perentorio ad una norma di legge, indicata a sproposito,
contenuto nella delibera in commento, può intimorire (e fa pensare al latinorum
di Don Abbondio, di manzoniana memoria): si auspica che venga considerato
per ciò che è dagli stessi amministratori milanesi, un infortunio, un errore
di percorso, di cui si faccia presto ammenda.
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