Con la scusa dellintegrazione
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Mauro Perino, Direttore Consorzio Intercomunale
Servizi alla Persona (CISAP), Collegno e Grugliasco (TO)
(torna all'indice informazioni)
Lintegrazione tra sanità ed assistenza nella Regione Piemonte
Riflessioni sul tema alla luce dellesperienza dei servizi socio-assistenziali
dei Comuni di Collegno e Grugliasco (To).
(le note sono riportate in fondo al documento)
La "fase nobile" dell'integrazione
La costruzione del sistema locale dei servizi sociali e sanitari dei Comuni
di Collegno e Grugliasco si avvia nella fase di attuazione del D.P.R 616/77
- con il quale vengono individuati nei Comuni gli Enti titolari in materia di
assistenza ed in alcune "categorie" di cittadini gli aventi diritto - e della
legge 833/78 che istituisce il Servizio sanitario nazionale e ne individua il
soggetto beneficiario nella "persona umana" (art. 1). In applicazione
della Legge Regionale 20/1982 viene costituita l'Unità Socio-Sanitaria Locale
n.24 configurata come lo strumento operativo dei Comuni per la gestione associata
ed integrata dei servizi socio-assistenziali e dei servizi sanitari.
Le idee guida che caratterizzano la scelta del modello gestionale operata agli
inizi degli ani '80 dalla Regione Piemonte si ispirano al principio dell'integrazione
intesa come ricerca della convergenza delle scelte, delle azioni e delle risorse
(sociali e sanitarie) su scala locale al fine di produrre il "benessere psico-fisico"
delle persone.
Nella prima fase del percorso si è creduto fortemente nella logica dello strumento
unico di gestione in quanto appariva come il più adatto a favorire l'inclusione
delle "categorie" tradizionalmente assistite dai servizi sociali nelle politiche
sanitarie di prevenzione, cura e riabilitazione rivolte alla generalità dei
cittadini.
In quegli anni la carenza di risposte sanitarie appropriate alle problematiche
poste dagli anziani cronici non autosufficienti e dai disabili intellettivi
veniva infatti supplita da interventi assistenziali inadeguati ed inefficaci,
fondati essenzialmente sull'istituzionalizzazione, con oneri a carico dei beneficiari,
dei loro famigliari e dei Comuni.
L'azione che i servizi sociali sviluppano all'interno delle U.S.S.L mira ad
allargare l'ambito d'intervento dei servizi sanitari a queste quote di popolazione.
Grazie allo strumento rappresentato dall'integrazione delle competenze
si aspira a socializzare e a demedicalizzare la sanità alla quale
si richiede l'assunzione diretta di tutte le valenze umane, relazionali e
sociali nell'ambito delle attività di prevenzione cura e riabilitazione proprie
del sistema sanitario post riforma. Si opera inoltre per lo sviluppo di
quei servizi alternativi all'istituzionalizzazione che non possono venire attivati
se non attraverso l'utilizzo delle risorse (umane e finanziarie) del comparto
sanitario, in quella fase decisamente più consistenti di quelle disponibili
per il comparto assistenziale.
Purtroppo la "fase nobile" dell'integrazione non dura a lungo e viene messa
in crisi - non a caso - dalla legge finanziaria del 1984 (Legge 730/83, art.
30) con la quale si inventano "le attività di rilievo sanitario connesse
con quelle - assistenziali" demandando ad apposito decreto il compito di definire
le competenze in materia di finanziamento delle attività sanitarie e
sociali svolte dai servizi integrati.
La strumentalizzazione del concetto di integrazione
A "definire" la nuova tipologia di attività interviene, nel 1985, il D.P.C.M1.
conosciuto come decreto Craxi che, all'articolo 1, recita: "Le attività di
rilievo sanitario connesse con quelle assistenziali di cui all'art.30 della
legge 27 dicembre 1983, n.730 sono le attività che richiedono personale e
tipologie di intervento propri dei servizi socio-assistenziali, purché siano
dirette immediatamente e in via prevalente alla tutela della salute del cittadino
e si estrinsechino in interventi a sostegno dell'attività sanitaria di prevenzione,
cura e/o riabilitazione fisica e psichica del medesimo, in assenza dei quali
l'attività sanitaria non può svolgersi o produrre effetti".
E' così che quella che era una modalità di lavoro dei servizi - l'esercizio
integrato di attività professionali, sanitarie ed assistenziali,
afferenti o meno allo stesso comparto ma comunque finalizzate ad includere le
persone con maggiori difficoltà - diviene prima una tipologia di attività
a sé stante e, successivamente, un vero e proprio "comparto" inserito all'interno
del settore dei servizi sociali.
Se le attività socio-assistenziali dirette immediatamente e in via prevalente
alla tutela della salute del cittadino continuano infatti a gravare sul
fondo sanitario nazionale, "non rientrano tra le attività di rilievo sanitario
connesse con quelle socio-assistenziali, le attività direttamente ed esclusivamente
socio-assistenziali, comunque estrinsecantisi, anche se indirettamente finalizzate
alla tutela della salute del cittadino"2.
Il D.P.C.M del 1985 si configura come "atto di indirizzo e coordinamento" alle
regioni alle quali è affidato il compito di definire in maniera più puntuale
quando un'attività socio assistenziale è diretta immediatamente e in via
prevalente alla tutela della salute del cittadino e quando invece è direttamente
ed esclusivamente socio-assistenziale anche se indirettamente finalizzate alla
tutela della salute del cittadino.
Grazie al decreto non solo si arresta il processo di estensione dei diritti
alle prestazioni sanitarie avviato nella primissima fase di attuazione della
legge 833/78 ma si inverte addirittura la tendenza, avviando il trasferimento
degli anziani cronici non autosufficienti, dei dementi senili e dei malati di
Alzheimer, dei pazienti psichiatrici dal settore sanitario a quello dei servizi
sociali.
A spingere in questa direzione è la Regione che dall'individuazione di una competenza
professionale socio assistenziale nell'esercizio di attività sanitarie fa
conseguire una competenza di spesa per i comuni (titolari delle funzioni
socio assistenziali) nel finanziamento di tutte le attività, non strettamente
sanitarie, rivolte alle tipologie di prestazioni individuate in via generale
dal "decreto Craxi".
L'avvio del processo di esclusione delle "categorie" bisognose di lungo assistenza
- comunque dibattuto e conflittuale - rappresenta una prima grave sconfitta
sul piano della tutela del diritto soggettivo ad accedere gratuitamente a prestazioni
fornite dal sistema sanitario da parte degli anziani cronici non autosufficienti
e dei malati di Alzheimer. In cambio si ottiene una generalizzata contribuzione
sanitaria - per gli interventi definiti "a rilievo sanitario" - nell'ambito
della tripartizione della spesa prevista dalla normativa regionale di attuazione
del D.P.C.M: una quota sanitaria, una quota a carico dell'utente (e, in genere,
dei suoi familiari) un'integrazione a carico dei servizi sociali dei Comuni
associati.
Il risultato (paradossale) del "baratto" - l'erogazione di una "quota" sanitaria
invece della totale presa in carico da parte del Servizio sanitario - è che
negli ambiti territoriali di gestione associata si riescono comunque a sviluppare
i servizi diurni e residenziali rivolti ai disabili ed a sostenere l'inserimento
in strutture "protette" degli anziani non autosufficienti (quota sanitaria pari
al 60% circa della retta). La parziale copertura sanitaria di spese prima interamente
sostenute dai Comuni e dal fondo regionale assistenziale - a fronte della generalizzata
non fornitura di prestazioni da parte delle Unità sanitarie locali -
consente, in quegli anni, di migliorare il livello di copertura delle esigenze
espresse dalle componenti più deboli delle comunità locali.
Inoltre, grazie alle forzature che si riescono a realizzare a livello
di singole Unità socio sanitarie ed in parte anche a livello regionale, si ottengono
compartecipazioni di spesa anche per prestazioni territoriali alternative ai
ricoveri (assistenza domiciliare ad anziani non autosufficienti ed a disabili)
o integrative di interventi semiresidenziali (attività di inserimento sociale
e lavorativo di disabili).
Ma il risultato più importante che si realizza nella lunga fase di attuazione
del decreto Craxi è rappresentato dal riconoscimento - sancito dalla Regione
- della competenza del Servizio sanitario (100% della spesa) ad intervenire
per i ricoveri in strutture protette, comunque denominate, ove le prestazioni
da esse erogate siano finalizzate in via esclusiva o prevalente alla riabilitazione
funzionale degli handicappati e dei disabili, alla cura e/o al recupero
fisico e psichico dei malati mentali purché le prestazioni siano integrate
con quelle dei servizi psichiatrici territoriali; alla cura e/o al recupero
fisico-psichico dei tossicodipendenti; alla cura degli anziani, limitatamente
agli stati morbosi non curabili al domicilio.
Accanto ad una parte di disabili - bisognosi di riabilitazione funzionale -
e ad una quota (decisamente più limitata) di anziani - in genere "coperti dalla
sanità" nella prima fase di deospedalizzazione - si riescono a mantenere nell'ambito
sanitario i tossicodipendenti e, soprattutto, i malati mentali.
Per la realtà territoriale di Collegno e Grugliasco risultava di fondamentale
importanza che questi ultimi non venissero a gravare sui Comuni a seguito dell'applicazione
del D.P.C.M in quanto, nell'area, erano collocati ben due Ospedali Psichiatrici
che pur non procedendo a ricoveri (a seguito della applicazione della L.180/78)
ospitavano, per tutti gli anni '80 e '90, diverse centinaia di persone in gran
parte provenienti da altri Comuni e Regioni.
Grazie alle pressioni esercitate dai Comuni e dai servizi locali, gli ex O.P
conservano, sino alla seconda metà degli anni '90, lo status di "Area socio-sanitaria
ad esaurimento" e gli ospiti continuano a beneficiare di interventi (sociali
e sanitari) a completo carico del Servizio sanitario.
Il decreto Craxi consentiva di assegnare al comparto socio assistenziale tutte
quelle attività - non istituzionalizzanti e deistituzionalizzanti - che risultano
fondamentali nel processo di superamento degli O.P. E' appena il caso di osservare
che la caratteristica peculiare del comparto assistenziale, per tutti gli anni
'80 e '90, è la cronica carenza di risorse finanziarie e, quindi, di personale
e di strumenti operativi (mitigata, a partire dai primi anni '90 dalle "compartecipazioni"
sanitarie). Ne consegue che ciò che, a livello regionale, è stato fatto in termini
di superamento degli ex O.P (in particolare per l'O.P. di Collegno) lo si è
fatto grazie al mantenimento degli ospiti all'interno del comparto sanitario.
Con il decreto si creano però i presupposti "culturali" con i quali si motiva
e giustifica il periodico tentativo di espulsione dei pazienti ex O.P
e dei malati di mente in generale, dalla tutela rappresentata dal sistema
sanitario. A conferma di quanto sopra giova ricordare - oltre alle incertezze
sulla possibilità di continuare ad erogare i sussidi terapeutici finalizzati
ad evitare l'istituzionalizzazione nella fase post decreto - che nella L.R.
61/89, con la quale veniva delineata la rete dei Servizi Psichiatrici territoriali,
si definiva la "comunità alloggio" (ne era prevista una ogni 50 mila abitanti)
un presidio socio-assistenziale.
Una delle ragioni dell'incompleto sviluppo di una rete di servizi territoriali
in grado di accogliere efficacemente le persone con problemi psichiatrici (ex
O.P. e non) va sicuramente ricercata nell'esercizio di continui tentativi di
messa in discussione del "compromesso", realizzato a livello regionale in sede
di attuazione del D.P.C.M., con riferimento all'area psichiatrica.
Nessuno si sognava (né si sogna) di negare la necessità di integrare sempre
meglio, dal punto di vista funzionale e delle competenze professionali, sia
le attività attribuite ad entrambi i comparti dalla normativa di attuazione
del decreto Craxi (afferenti all'area materno infantile, dei disabili, degli
anziani non autosufficienti) sia quelle che, negli ultimi anni '90, vengono
ad aggiungersi (rivolte alle persone con problemi psichiatrici, ai tossicodipendenti
ed agli alcooldipendenti ai quali si aggiungono - per buona misura - le patologie
da Hiv).
L'integrazione presuppone però - in quanto strumento professionale dei
servizi per operare al meglio - che siano chiari i diritti delle persone,
definiti i soggetti deputati a garantirli, certe le risorse per attuarli.
Così non è stato allora! E la vicenda della chiusura degli Ospedali Psichiatrici
nella Regione Piemonte fornisce un (significativo) esempio di cosa può accadere
oggi in sede di applicazione delle più recenti normative "sull'integrazione"
socio-sanitaria.
Prove generali di esclusione dai diritti: la "chiusura" degli Ospedali Psichiatrici
La chiusura degli Ospedali Psichiatrici viene disposta a colpi di leggi
finanziarie, utilizzando lo strumento della penalizzazione nell'erogazione dei
fondi alle Regioni. Con l'art. 3, comma 5, della legge 724/94 (finanziaria '95)
viene stabilita la definitiva chiusura degli O.P. da realizzare entro il 31.12.1996.
La successiva legge 662/96 (finanziaria '97) all'art.1, comma 20, riconferma
la decisione di procedere alla chiusura e stabilisce una penalizzazione per
le Regioni inadempienti pari allo 0,5% sul fondo sanitario per il 1997 e del
2% a partire dal 1998. L'art. 32, comma 4, della legge 449/97 (finanziaria '98)
riconferma le sanzioni per le Regioni responsabili della mancata attuazione
(entro il 31 marzo 1998) dei provvedimenti necessari alla chiusura degli O.P.
Al fine di dare adempimento alle disposizioni normative nazionali la Giunta
della Regione Piemonte, con deliberazione n.489-14975 del 29.11.1996, adotta
le linee guida per la chiusura definitiva degli ex O.P prevedendo che questa
avvenga tramite rivalutazione clinica dei pazienti (normata secondo
quanto previsto con la precedente DGR 118-7609 del 3.4.1996).
La rivalutazione si concretizza nell'inserimento dei pazienti ex O.P. e di quelli
"territoriali" - ricoverati dai Servizi di salute mentale in strutture residenziali
socio assistenziali con oneri a carico del Servizio sanitario - nelle nuove
"categorie" degli adulti portatori di handicap (rivalutati di tipo A)
e dei non autosufficienti anziani e non (rivalutati di tipo B). A queste
due fattispecie si aggiungono le persone rivalutate di tipo C che rimangono
di esclusiva competenza psichiatrica.
Nel rispetto del principio "dell'integrazione", la rivalutazione deve venire
effettuata "attraverso la stretta collaborazione e comune responsabilità,
tra gli operatori degli ex O.P. e quelli operanti sul territorio
del Dipartimento di salute mentale e/o del servizio socio-assistenziale di provenienza
dei pazienti" e deve concludersi con la presa in carico degli stessi da
parte dell'ASL e dell'Ente gestore delle funzioni socio assistenziali delle
aree territoriali di provenienza dei pazienti.
A tutela degli Enti socio assistenziali - che senza alcuna competenza specifica
si trovano a dover avvallare "guarigioni" determinate dall'invecchiamento (tipo
B) o a recepire diagnosi di handicap (tipo A) formulate da psichiatri - la Legge
regionale n.61 del 12.12.1997: "Norme per la programmazione sanitaria e per
il piano sanitario regionale per il triennio 1997/1999" stabilisce che "la
Regione interviene finanziariamente a favore degli Enti gestori dei servizi
socio assistenziali a copertura degli oneri derivanti dall'organizzazione e
dall'erogazione delle prestazioni destinate ai soggetti con patologie psichiatriche
in carico anche ai servizi socio-assistenziali e ai soggetti rivalutati ai sensi
della DGR 118-7609 del 3.4.1996".
La promessa copertura degli oneri relativi ai soggetti rivalutati si traduce
però, con la DGR 229- 23698 del 22.12.1997, nella (più modesta) previsione di
incentivi per la presa in carico dei pazienti.3
Nonostante le evidenti difficoltà degli Enti gestori a farsi carico delle
nuove competenze - peraltro non previste da alcuna legge dello Stato - la Regione
richiede (in data 26.11.1998) agli enti del comparto di certificare la presa
in carico dei pazienti entro il 31.12.1998 e, a tal fine, consegna gli elenchi
delle persone (già rivalutate) attribuite ad ogni soggetto gestore delle funzioni
assistenziali.
La quasi totalità degli Enti assistenziali non accetta di sottostare alla forzatura
regionale. Viene rifiutata la presa in carico e vengono coinvolti l'ANCI Piemonte
e FEDERSANITA'-ANCI Piemonte che avviano una vera e propria vertenza con l'Assessorato
Regionale alla Sanità e all'Assistenza. Dopo lunghe discussioni (e grazie alla
mobilitazione delle associazioni d'utenza), viene siglato in data 11.6.1999
un protocollo d'intesa fra l'Assessore Regionale, il Presidente dell'ANCI e
la Presidente di FEDERSANITA'-ANCI Piemonte relativo alla presa in carico dei
pazienti psichiatrici sottoposti a rivalutazione clinica.
Ancora una volta si è costretti a barattare i diritti con le risorse. Il protocollo
recita infatti che l'Assessore "si obbliga, in attuazione dell'impegno finanziario
assunto dalla Regione con il P.S.S.R, a coordinare l'individuazione delle risorse
necessarie agli Enti gestori delle funzioni socio-assistenziali e delle ASL
per garantire la gestione del superamento (in gran parte allora già avvenuto)
degli ospedali psichiatrici e del processo di rivalutazione clinica".
Il maggior pregio del protocollo consiste nella "lezione di metodo" che la vertenza
avviata per realizzarlo fornisce. In carenza di leggi approvate nelle sedi competenti
non è dato procedere per "colpi di mano"! Si può e si deve dunque "negoziare",
garantendo pari dignità ai soggetti istituzionali coinvolti ed in particolare
ai Comuni.
Purtroppo il risultato ottenuto (peraltro corrispondente all'obiettivo fissato
dagli Enti gestori) sacrifica, ancora una volta, la tutela del diritto soggettivo
alla prevenzione, cura e riabilitazione (anche sociale) dei pazienti
(prima psichiatrici e poi rivalutati anziani non autosufficienti o disabili)
al reperimento delle risorse necessarie per continuare ad assisterli (spesso
all'interno delle medesime strutture ex ospedaliere o, nei casi peggiori, in
strutture site in luoghi di origine dei pazienti ad essi sconosciuti).
La rincorsa finale: dal "decreto Veronesi" al "decreto Sirchia"
Nel febbraio 2001 il processo di espulsione dal sistema sanitario delle
persone in condizione di maggior debolezza - portato avanti utilizzando in modo
strumentale il concetto di integrazione tra attività sociali e sanitarie - subisce
una repentina accelerazione grazie ad un nuovo "Atto di indirizzo e coordinamento
in materia di prestazioni socio-sanitarie", emanato con D.P.C.M 14.02.2001 a
firma "Amato-Turco-Veronesi".
Il decreto - che radicalizza la logica di risparmio della spesa avviata con
il "decreto Craxi" - ridefinisce i confini delle prestazioni socio sanitarie
ed introduce nuovi criteri di ripartizione della spesa tra ASL e Comuni. "Transita"
inoltre le competenze sulle "categorie" di cittadini risparmiate dal
decreto del 1985, dal comparto sanitario a quello socio-sanitario (con relativo
accollo degli oneri di intervento relativi alle attività non strettamente sanitarie
ai Comuni).
All'utenza già individuata dalle Regioni in applicazione del precedente atto
di indirizzo - rappresentata dall'area materno infantile, dai disabili,
dagli anziani cronici non autosufficienti - si aggiungono: le persone
non autosufficienti con patologie cronico degenerative; i soggetti
dipendenti da alcool e da droga; gli affetti da patologie psichiatriche;
gli affetti da H.I.V. Il servizio sanitario mantiene a completo carico
le sole "prestazioni e trattamenti palliativi in regime ambulatoriale domiciliare,
semiresidenziale, residenziale" dei pazienti terminali.
Il nuovo decreto viene accolto con preoccupazione dai Comuni che vengono obbligati
ad assicurare alcune tipologie di prestazioni - che già gravavano, per intero,
sulla spesa sanitaria -senza disporre dei necessari finanziamenti per le spese
di investimento e di gestione. Dalla tabella allegata al decreto - nella quale
vengono indicate le percentuali di addebito delle spese - si evidenzia infatti
l'obiettivo di sgravare ulteriormente la spesa sanitaria accollandone una parte
ai cittadini ed ai comuni che - con le maggiori risorse messe in campo dalla
legge 328/20004 (evidentemente "ipotecate" a priori) e, necessariamente, anche
con risorse proprie - dovranno assicurare ai propri cittadini l'accesso
alle prestazioni socio-sanitarie.
A trasformare le preoccupazioni dei Comuni in vero e proprio allarme giunge
infine il D.P.C.M 29 novembre 2001, a firma "Berlusconi-Sirchia-Tremonti", che
definisce i "livelli essenziali di assistenza sanitaria" (pubblicato sul supplemento
ordinario della Gazzetta ufficiale n. 33 dell'8 febbraio 2002). La principale
novità del DPCM è costituita dall'inserimento di alcune prestazioni strettamente
sanitarie tra quelle (cosiddette "assistenziali") che il decreto "Amato-Turco-Veronesi"
assoggetta alla contribuzione da parte del cittadino e del Comune5. Inoltre
il decreto estende l'area delle attività alle quali si nega il "rilievo sanitario"
ponendole ad intero carico dei Comuni (fra le altre l'inserimento sociale e
lavorativo dei tossicodipendenti a conclusione della "fase di dipendenza").
In buona sostanza le principali conseguenze dei decreti "Amato-Turco- Veronesi"
e "Berlusconi- Sirchia-Tremonti" possono essere così sintetizzate:
· Continuano a beneficiare del diritto all'insieme delle cure del sistema sanitario
(senza alcuna distinzione tra prestazioni sanitarie e prestazioni "a rilievo
sanitario") i soggetti con patologie acute e quelli affetti da alcune infermità
croniche che richiedono interventi di "alto livello" (ad esempio i cardiopatici
in attesa di trapianto o trapiantati);
· Vengono esclusi dalla piena competenza del Servizio sanitario (e pertanto
costretti a contribuire alle spese salvo l'intervento dei Comuni) tutti gli
ultradiciottenni non autosufficienti a causa delle malattie cronico degenerative
(tra i quali gli anziani cronici, i malati di Alzheimer, i soggetti psichiatrici,
i malati di A.I.D.S ecc.)
La ricaduta dei decreti sul sistema locale dei servizi sociali
Con i due decreti viene minato alla base il principio di universalità del
diritto soggettivo alla salute e di equità di trattamento delle persone malate.
Si scaricano infatti sui cittadini in condizioni di maggiore debolezza (ed in
seconda istanza sui Comuni) oneri insopportabili. La ricaduta sui servizi sociali
dei Comuni di Collegno e Grugliasco (così come su tutte le realtà territoriali
della Regione Piemonte) è potenzialmente devastante in quanto si può ipotizzare
un aggravio di spesa nell'ordine del 30-40% dell'attuale bilancio (assestato
su circa 10 miliardi di vecchie lire). I decreti penalizzano infatti
le situazioni locali nelle quali i servizi si sono sviluppati garantendo
alla popolazione interventi e prestazioni secondo "livelli" qualitativamente
e quantitativamente più elevati di quelli "essenziali" (e non più uniformi),
previsti dalla normativa nazionale di attuazione della "riforma Bindi". E' interessante
esaminare nel dettaglio la situazione che si verrebbe a creare, nell'area intercomunale
di Collegno e Grugliasco, con l'applicazione dei LEA:
- L'assistenza tutelare alla persona malata - erogata con i protocolli
regionali che regolano l'assistenza domiciliare integrata (A.D.I.; A.D.P.) -
ha un costo medio di circa 1.500.000 lire (per una media di 45 giorni di intervento)
attualmente ad intero carico del sistema sanitario. Con l'applicazione del decreto
all'assistito verrà richiesto di contribuire nella misura di 750.000 lire. L'esenzione
del cittadino comporterebbe, per i servizi sociali dei Comuni Associati, un
aggravio finanziario di 150.000.000 di vecchie lire annue.
- L'ospitalità in un centro diurno per disabili che pratichi una retta
di 140.000 lire giornaliere comporterà una contribuzione - da parte della persona
disabile portatrice di handicap grave - quantificata in 42.000 lire. Se
l'handicap risulta di grado diverso è previsto l'addebito della retta piena6.
In questo caso si registrerebbe (secondo i dati forniti dal distretto sanitario
coincidente con i Comuni di Collegno e Grugliasco) un aumento contributivo a
carico sanità sui disabili gravi di circa il 10% (minor spesa per i Comuni di
90.000.000 di lire), abbondantemente compensato dall'accollo totale delle spese
per i "non gravi" - attualmente a carico sanità per il 60% della retta
- agli utenti (attualmente esenti) o ai Comuni (con un maggior onere per prestazioni
semiresidenziali e residenziali quantificato dall'ASL in 1.400.000.000 di vecchie
lire all'anno7).
- L'ospitalità in un centro diurno per malati di Alzheimer o per anziani
cronici non autosufficienti che pratichi una retta di 90.000 lire giornaliere
comporterà una contribuzione da parte della persona assistita quantificata in
45.000 lire. Attualmente la spesa è a intero carico sanità8. Nel nuovo regime
la maggior spesa per i Comuni può esser quantificata in 110.000.000 di lire
annui salvo contribuzione da parte degli utenti.
- L'ospitalità in una comunità "a bassa intensità assistenziale" per malati
di mente che pratichi una retta di 125.000 lire giornaliere comporterà una
contribuzione da parte della persona assistita quantificata in 75.000 lire.
Ad oggi tali spese gravano sul fondo sanitario e l'aggravio di spesa per i comuni
(nell'ordine di molte centinaia di milioni) può essere quantificato esclusivamente
dai servizi sanitari che hanno in carico i pazienti.
- L'ospitalità in una struttura residenziale per disabili gravi che pratichi
una retta di 270.000 lire giornaliere comporterà una contribuzione da parte
dell'ospite quantificata in 81.000 lire. Se il disabile non è grave, ma è "privo
del sostegno familiare"9, contribuirà nella misura di 162.000 lire. Agli
ospiti che non rientrano nelle due fattispecie previste dal decreto verrà praticata
la retta piena. Anche in questo caso al minor aggravio di spesa per i disabili
gravi fa riscontro l'aumento di spesa o l'accollo totale delle rette per interventi
rivolti ai "non gravi".
- Alla persona non autosufficiente (non necessariamente anziana) ospitata
in una Residenza Sanitaria Assistenziale che pratichi una retta di 150.000 lire
giornaliere verranno richieste 75.000 lire di contribuzione. L'aggravio di spesa
per i comuni di Collegno e Grugliasco risulta di circa 200.000.000 di lire all'anno.
- Al malato di AIDS che benefici di una "lungo assistenza in regime residenziale"
in una struttura con una retta di 170.000 lire giornaliere verrà richiesto di
contribuire nella misura di 51.000 lire. Si tratta, anche in questo caso, di
un nuovo onere per i Comuni (di difficile quantificazione) in quanto a tutt'oggi
le spese sono poste a carico sanità.
La legge 30 novembre 1998 n. 419 - con la quale veniva conferita la delega al
Governo per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale e dell'articolo
3- septies del conseguente decreto legislativo 19 giugno 1999 n.229 (legge "Bindi")
- offriva l'opportunità di imporre, in conformità al diritto costituzionalmente
garantito alla salute, il principio secondo il quale il malato cronico
deve essere curato e ciò implica l'inserimento degli interventi socio -
sanitari destinati alle persone bisognose di lungo assistenza (perché malate)
fra le prestazioni sociosanitarie ad alta integrazione sanitaria che
la legge di riforma così definisce: "Le prestazioni socio-sanitarie ad elevata
integrazione sanitaria sono caratterizzate da particolare rilevanza terapeutica
e intensità della componente sanitaria e attengono prevalentemente alle
aree materno infantile, anziani, handicap, patologie psichiatriche e dipendenze
da droga, alcol e farmaci, patologie per infezioni da H.I.V. e patologie
in fase terminale, inabilità o disabilità conseguenti a patologie cronico degenerative.
Le prestazioni socio sanitarie ad elevata integrazione sanitaria sono assicurate
dalle aziende sanitarie e comprese nei livelli essenziali di assistenza sanitaria,
secondo le modalità individuate dalla vigente normativa e dai piani nazionali
e regionali, nonché dai progetti obiettivo nazionali e regionali".10
Tale condivisibile logica è stata totalmente stravolta sia dal decreto "Amato-Turco-Veronesi"
che dal "Berlusconi-Sirchia-Tremonti" che hanno, di fatto, ricondotto tutte
le attività socio sanitarie alla fattispecie delle "prestazioni sanitarie
a rilevanza sociale" - finalizzate, secondo il citato articolo 3 septies,
"alla promozione della salute, alla prevenzione, individuazione, rimozione
e contenimento di esiti degenerativi o invalidanti di patologie congenite e
acquisite" - ed a quella delle "prestazioni sociali a rilevanza sanitaria"
che hanno l'obiettivo, secondo il decreto, di "supportare la persona in stato
di bisogno, con problemi di disabilità o di emarginazione condizionanti lo stato
di salute".
La mobilitazione unitaria delle associazioni di volontariato
Il lungo processo di riduzione della spesa sanitaria, iniziato sin dai primi
anni di applicazione della legge 833/78, ha obiettivamente provocato un progressivo
restringimento dei diritti delle persone più deboli. Nel tempo è però maturata,
seppur con fatica, una nuova coscienza del problema fra alcuni amministratori
locali, in molti operatori ma, soprattutto, nel mondo del volontariato. Se nella
prima fase risultavano attive sulla questione le sole associazioni di volontariato
promozionale (rappresentate dalla rivista Prospettive assistenziali)
oggi si assiste ad una mobilitazione che coinvolge le principali associazioni
di volontariato che operano nella Regione Piemonte. A.V.O, S.E.A Italia, U.T.I.M,
C.P.D, D.I.A.P.S.I, C.S.A, A.I.M.A, Gruppi di Volontariato Vincenziano, Società
di S. Vincenzo De' Paoli hanno promosso - con l'adesione del Forum per il Volontariato
e del Forum per il Terzo Settore - una raccolta di firme a sostegno di una petizione
sui LEA indirizzata al Presidente del Consiglio dei Ministri, ai Ministri dell'Economia
e delle Finanze, ai Presidenti del Consiglio e della Giunta della Regione Piemonte
ed ai Consiglieri. Con la petizione si richiede al governo "di revocare il
decreto che contrasta sia con le esigenze ed i diritti fondamentali dei cittadini,
sia perché viola le leggi vigenti"11 si richiede inoltre alla Regione Piemonte
"di non applicare il Decreto e di tutelare il diritto alla salute ed alle
cure per la fascia più debole della popolazione piemontese, diritto sancito
dalla Costituzione e dalle leggi nazionali approvate dal Parlamento e tutt'ora
vigenti, che affermano la competenza del SSN nei confronti di tutti i cittadini
malati e che non possono essere abrogate da un decreto amministrativo".
L'iniziativa rappresenta una svolta significativa nell'azione del volontariato
che assume, in tal modo, la rappresentanza sociale delle "fasce più
deboli della popolazione - malati cronici giovani, adulti, anziani anche non
autosufficienti, disabili fisici, psichici e sensoriali, malati psichiatrici,
di Alzheimer, con AIDS, oncologici e con altre patologie croniche - che necessitano
di assistenza infermieristica, di prestazioni terapeutiche, fisioterapiche e
riabilitative al domicilio o presso strutture diurne e residenziali". Persone
che "hanno bisogno delle cure per vivere, per non soffrire e, in molti casi,
per potersi reinserire nella vita normale" e che siccome "necessitano
di cure anche per tutta la vita, in conseguenza del decreto rischiano di scendere
sotto la soglia di povertà e saranno costrette a ricorrere all'elemosina della
pubblica assistenza oppure dovranno rinunciare alle cure". Con l'azione
meritoria della Associazioni piemontesi si da effettiva concretezza al
concetto - espresso dall'articolo 1, comma 6, della legge 328/2000 - di partecipazione
attiva "per il raggiungimento dei fini istituzionali di cui al comma
1" della legge di riforma, nel quale viene assunto l'impegno (da parte della
Repubblica nel suo insieme) a promuovere interventi per garantire "non discriminazione
e diritti di cittadinanza".
L'opposizione dei Comuni
Ancor prima della mobilitazione delle associazioni, si è avviata l'iniziativa
dei Comuni, fortemente sollecitati dagli Enti gestori dei servizi sociali ad
assumere in prima persona la rappresentanza istituzionale delle fasce
di cittadinanza colpite dai decreti. Nel mese di dicembre 2001 la Città di Torino,
La Provincia di Torino ed il "Coordinamento permanente dei consorzi socio assistenziali
della provincia di Torino", nel corso di una conferenza stampa, denunciano gli
effetti del DPCM sui LEA osservando, tra l'altro, che "Già il precedente
DPCM 'Turco Veronesi' aveva prefigurato un nuovo equilibrio tra sanità e servizi
sociali, peggiorativo per i cittadini e gli enti locali. Tuttavia tale atto
esprimeva indirizzi e linee guida da 'tradurre' a livello regionale con gli
enti locali. Il nuovo DPCM, invece, non rimanda ad alcuna forma di 'concertazione'
tra Comuni e Regioni, fissando standard cogenti che richiedono immediata applicazione".
Nel testo del comunicato stampa si afferma che "Se non saranno posti correttivi,
la sanità potrà forse far quadrare i conti, ma scaricando sui cittadini e sugli
enti locali oneri insopportabili, minando alla base l'idea della gratuità del
Servizio sanitario nazionale e di garanzia di cure per tutti e specie per i
più deboli". La conferenza si conclude con la richiesta "alla Regione,
e soprattutto al Presidente Ghigo, anche in quanto Presidente della Conferenza
Stato Regioni, di prendere un'immediata iniziativa per modificare il decreto,
concertare un atto applicativo regionale con gli enti locali, assicurare al
comparto socio assistenziale quelle risorse umane e materiali che i nuovi compiti
necessariamente richiedono". Dal merito delle richieste si evince l'esistenza
di una pericolosa ambivalenza di posizioni: se da un lato si ricorda che "l'art.
32 della Costituzione tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo
e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti",
dall'altro si afferma che "Se si intende fornire tale garanzia non più attraverso
l'esonero dai pagamenti da parte del Servizio Sanitario Regionale, ma attraverso
i Comuni, si configura una vera e propria attribuzione di nuove competenze all'ente
locale: attribuzione che va quantomeno accompagnata dal trasferimento delle
risorse necessarie ad espletarle".
Ancora una volta si rischia di preparare il terreno ad un compromesso fondato
sulla "monetizzazione" dei diritti ripercorrendo l'esperienza già vissuta,
a livello regionale, nella fase successiva all'approvazione del "decreto Craxi"
ed a quella di attuazione della normativa sulla "chiusura" degli Ospedali Psichiatrici.
In ogni caso, nei mesi successivi alla conferenza stampa, la mobilitazione dei
Comuni e degli Enti gestori dei servizi sociali - già ampiamente coinvolti nel
dibattito sulla proposta di Piano Socio-Sanitario (fermo in Consiglio Regionale)
e sul disegno di legge regionale di attuazione della legge 328/2000 (all'esame
della Giunta) - si estende alle Organizzazioni Sindacali, al Forum del Terzo
Settore, alle Associazioni dei Comuni, delle Comunità montane, delle Province
ecc.
Attraverso l'intervento degli organismi di rappresentanza degli Enti Locali,
sostenuti dagli ordini del giorno votati da molti Consigli Comunali in tutta
la Regione - che riprendono sostanzialmente i contenuti della conferenza stampa
di denuncia - viene respinto il tentativo di dare immediata applicazione al
DPCM (che viene posticipato dalla Regione al mese di giugno).
Il 22 aprile le Associazioni di rappresentanza vengono convocate dagli Assessorati
Regionali alla Sanità ed alle Politiche Sociali: all'ordine del giorno "la
definizione delle modalità di esame dei problemi connessi all'applicazione dei
Livelli essenziali di assistenza (L.E.A)" e l'"approfondimento sui contenuti
del Piano Socio Sanitario Regionale". I risultati dell'incontro sono sintetizzati
in un comunicato redatto dalla "Lega delle Autonomie Locali": "Rispetto al
primo punto gli Assessori D'Ambrosio e Cotto hanno proposto la costituzione
di un Tavolo tecnico regionale o per quadranti con la funzione di esaminare
i problemi connessi all'applicazione dei LEA ed individuare soluzioni. Si è
concordato che il Tavolo sia regionale, pur con la possibilità di approfondimenti
provinciali che tengano conto delle specificità dei territori, onde ottenere
il massimo livello di omogeneità degli interventi su tutta la regione. Riguardo
all'applicazione dei LEA nell'anno 2002, la Lega delle Autonomie Locali ha chiesto
che venga congelata la situazione fino a fine anno, senza alcun aggravio di
spesa per i Comuni, che non hanno risorse e che comunque sono tenuti a rispettare
il tetto di spesa previsto dalla Finanziaria. Rispetto a questa richiesta gli
Assessori hanno dichiarato il loro impegno a verificare la possibilità di trovare
nel bilancio regionale risorse per non far gravare sui Comuni maggiori costi.
L'Assessore D'Ambrosio ha comunque ipotizzato che venga richiesto un maggiore
impegno finanziario ai Comuni".
Non arretrare sul terreno della tutela dei diritti fondamentali
Come già avvenuto in occasione delle "rivalutazioni" dei pazienti psichiatrici
ed ex O.P, grazie alla mobilitazione, si è ottenuto un "tavolo negoziale". In
quell'occasione, come si è detto, si ottennero le risorse finanziarie per dar
continuità all'assistenza accettando il trasferimento dell'utenza al comparto
assistenziale, caratterizzato (allora come oggi) da una "esigibilità" delle
prestazioni ben diversa da quella assicurata dal sistema sanitario. Il problema
cruciale che si pone in questa fase è se sia opportuno "trattare sui diritti",
come si è fatto in passato, barattandoli con "ammortizzatori" economici che
rendano più confortevoli i processi di esclusione.
I Comuni di Collegno, Grugliasco, Rivoli e Nichelino - tutti collocati nella
prima e seconda cintura di Torino - hanno inviato un forte segnale che va in
senso diverso. Hanno infatti presentato ricorso al Tribunale Amministrativo
Regionale per il Lazio contro la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero
della Salute ed il Ministero dell'Economia e delle Finanze "per l'annullamento,
previa sospensione, del DPCM del 29/11/2001, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale
del 08/02/2002, allegato 1 C, intitolato 'Area integrazione socio-sanitaria".12
In buona sostanza i Comuni ricorrenti sostengono che "tutte le prestazioni
del DPCM in questione sono terapeutiche in senso stretto e proprio, riguardando
appunto attività infermieristiche, diagnostiche, di recupero funzionale, interventi
di sollievo, cura e riabilitazione e trattamenti farmacologici. Non si tratta
pertanto, come viene semplicisticamente indicato nella premessa richiamata,
di prestazioni nelle quali la componente sanitaria e quella sociale non risultino
operativamente distinguibili. Anzi, l'unico motivo di incidenza in ambito sociale
delle prestazioni in oggetto, attiene al fatto che si tratta di attività terapeutiche
da porre in essere in favore di categorie 'deboli', destinatarie di una specifica
normativa di tutela e che, per quanto attiene alla materia della integrazione
sanitaria che qui interessa, devono essere assicurate, per legge, dalle aziende
sanitarie e comprese nei livelli essenziali di assistenza sanitaria".
Si tratta di una posizione - condivisa dalle associazioni d'utenza e da quelle
del volontariato - che è auspicabile venga sostenuta, in sede di trattativa
con la Regione Piemonte, da tutti gli Enti Locali interessati dal provvedimento
ed anche dalle Organizzazioni Sindacali. A ben riflettere, le tematiche che
stanno alla base della mobilitazione contro il decreto "Berlusconi-Sirchia-
Tremonti" non sono affatto diverse da quelle che hanno ispirato il recente sciopero
generale contro l'introduzione delle modifiche allo statuto dei Lavoratori.
In entrambi i casi è infatti posta in discussione, in primo luogo, la dignità
della persona ed il diritto ad un trattamento equo e non
discriminante.
Note:
- D.P.C.M. 8 agosto 1985 "Atto d'indirizzo e coordinamento alle regioni e
alle province autonome in materia di attività di rilievo sanitario connesse
con quelle socio-assistenziali, ai sensi dell'art. 5 della legge 23 dicembre
1978, n. 833".
- D.P.C.M. 8 agosto 1985, articolo 2.
- Secondo il Piano Sanitario Regionale nei 5 Ospedali Psichiatrici piemontesi
risiedono, in quegli anni, ben 626 "ospiti" (di cui ben 533 a Collegno) e
420 "ricoverati" per un totale di 1.046 persone. Dai dati si evince come il
superamento fosse ad un buon grado di realizzazione a livello regionale e
che l'Ospedale di Collegno risultava da tempo interamente superato.
- Legge 8 novembre 2000, n.328 "Legge quadro per la realizzazione del sistema
integrato di interventi e servizi sociali".
- In particolare: le prestazioni di aiuto infermieristico, erogate
sia nell'ambito dell'A.D.I. che dell'A.D.P., vengono ricomprese nel 50% della
spesa posta a carico degli utenti o dei Comuni. Le prestazioni diagnostiche,
terapeutiche, in regime semiresidenziale per disabili gravi, vengono
ricomprese nel 30% addebitato agli utenti o ai Comuni. Le prestazioni terapeutiche,
di recupero e mantenimento funzionale delle abilità per non autosufficienti
in regime semi residenziale, ivi compresi interventi di sollievo, vengono
ricomprese nel 50% di spesa posta a carico degli utenti o dei Comuni. Le prestazioni
terapeutiche, in strutture a bassa intensità assistenziale a favore
delle persone con problemi psichiatrici, vengono ricomprese nel 60% di spesa
posta a carico degli utenti o dei Comuni. Le prestazioni terapeutiche,
in regime residenziale per disabili gravi vengono ricomprese nel 30% posto
a carico degli utenti o dei Comuni. Le prestazioni terapeutiche, in
regime residenziale per disabili privi del sostegno familiare vengono ricomprese
nel 60% a carico di utenti o Comuni. Le prestazioni terapeutiche, di
recupero e mantenimento funzionale delle abilità per non autosufficienti
in regime residenziale ivi compresi interventi di sollievo, vengono ricomprese
nel 50% a carico degli utenti o dei Comuni. Le prestazioni di cura e riabilitazione
e trattamenti farmacologici nella fase di lungo assistenza in regime residenziale
a favore di persone affette da AIDS , vengono computate nel 30% a carico degli
utenti o dei Comuni.
- Nella Regione Piemonte oltre ai tradizionali "Centri Socio-Terapeutici (CST)"
per disabili gravi sono presenti i "Centri di attività diurne (CAD)" che ospitano
persone con grado di disabilità più lieve. Non sempre le strutture sono rigidamente
distinte. In alcune situazioni il centro è frequentato da entrambe le tipologie
anche se, agli utenti, vengono proposte attività ed orari diversi (ad esempio
frequenza part time del centro abbinata ad attività esterne per disabili con
adeguato grado di autonomia). Ad oggi le spese per le attività dei centri
diurni vengono suddivise tra sanità ed assistenza a prescindere dalla tipologia
degli ospiti e delle strutture.
- In realtà tale quantificazione è tutta da discutere in quanto rimanda alla
definizione della "gravità" della condizione di disabilità. Gli attuali ospiti
dei Centri diurni di Collegno e Grugliasco hanno, nella stragrande maggioranza
dei casi, il 100% di invalidità riconosciuta (la frequenza dei centri è infatti
riservata "ai gravi"). Gli ospiti delle residenze hanno invece percentuali
di invalidità diverse, come diverse sono le strutture residenziali nelle quali
vivono: "Comunità per gravi", "micro comunità" per disabili con livelli di
autonomia intermedi, "convivenza guidata" per disabili con buon grado di autonomia.
In tutti i casi vi è, attualmente, compartecipazione alla spesa da parte della
sanità. Una compartecipazione che - con l'applicazione del DPCM e stante la
vigente normativa regionale - verrà assicurata esclusivamente ai disabili
"valutati (come gravi) sulla base dell'accertamento effettuato dalla commissione
di cui all'art. 4 della legge 104/92" (medicina legale integrata "da
un operatore sociale e da un esperto nei casi da esaminare, in servizio presso
le unità locali") "tenendo conto di quanto previsto dall'articolo 19 della
legge 104/92". In buona sostanza andranno sottoposti a tale commissione tutti
i disabili attualmente in carico ai servizi al fine di verificarne il diritto
a beneficiare della "quota sanitaria".
- I centri per malati di Alzheimer nella Regione Piemonte non sono certamente
diffusi e la compartecipazione alla spesa è regolata da accordi locali. L'ASL
nella quale sono inseriti i Comuni di Collegno e Grugliasco dispone di un
Centro da 15 posti all'interno del quale operano, in modo integrato, professionalità
sanitarie (ASL) e sociali (Consorzio dei due Comuni). Gli oneri di spesa sono
però totalmente a carico dell'ASL che rimborsa al Consorzio le spese del personale
distaccato presso la struttura diurna.
- Se la determinazione della gravità comporta l'attivazione della commissione
di cui all'art.4 della legge 104/92, la definizione della condizione di "privo
del sostegno familiare" rimanda sicuramente ad una (non agevole) interpretazione
da parte della Regione.
- Articolo 3- septies, comma 3 e 4, del decreto legislativo 19 giugno 1999
n.229
- Legge 4 agosto 1955 n.692: l'assistenza deve essere fornita senza limiti
di durata alle persone colpite da malattie specifiche della vecchiaia; decreto
del Ministro del Lavoro del 21 dicembre 1956: l'assistenza ospedaliera deve
essere assicurata a tutti gli anziani quando gli accertamenti diagnostici,
le cure mediche o chirurgiche non siano normalmente praticabili a domicilio;
legge 12 febbraio 1968 n.132, art. 29: le Regioni devono programmare i posti
letto ospedalieri necessari a soddisfare le esigenze dei malati acuti, cronici,
convalescenti e lungodegenti; legge 13 maggio 1978 n. 180: le USL devono assicurare
a tutti i cittadini, qualsiasi sia la loro età, le necessarie prestazioni
dirette alla prevenzione, cura e riabilitazione delle malattie mentali; legge
23 dicembre 1978 n. 833: le USL sono obbligate a provvedere alla tutela della
salute degli anziani, anche al fine di prevenire e di rimuovere le condizioni
che possono concorrere alla loro emarginazione, qualunque siano le cause,
la fenomenologia e la durata delle malattie.
- Le motivazioni addotte sono così sintetizzate:
- violazione di legge per violazione del combinato disposto dell'art.1 del
D.Lgs. 30/12/92 n. 502 e degli artt. 1 e 2 L.23/12/78 n. 833; violazione dell'art.
3 septies D.Lgs 30/12/92 n. 502;
- violazione di legge per violazione degli artt.14 e 26 L. 23/12/78 n. 833;
violazione della L. 13/05/78 n. 180 violazione dell'art.1 L. 05/06/1990 n.
135; violazione dell'art. 3 L. 04/08/1955 n. 692; violazione dell'art. 29
L. 12/02/1968 n. 132;
- violazione dell'art. 23 della costituzione; eccesso di potere per illogicità
manifesta, irragionevolezza, carenza di motivazione.
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