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Eugenio Borgna
La solitudine dell'anima
Feltrinelli 2011
Pag. 200, Euro 15,00


In breve
"La solitudine è una condizione ineliminabile dalla vita: e in essa si riflettono desideri di riflessione e di contemplazione, di tristezza e di angoscia, di silenzio e di preghiera, di attesa e di speranza." La solitudine interiore e la solitudine dolorosa sono i due aspetti tematici con cui si manifesta nella nostra vita l'esperienza radicale della solitudine. Un libro che si confronta con i modi con cui l'una e l'altra forma di solitudine si intrecciano, e si separano, nella vita di ogni giorno.

Il libro
La solitudine interiore, la solitudine creatrice, e la solitudine dolorosa, la solitudine-isolamento, sono i due aspetti tematici con cui si manifesta nella nostra vita l'esperienza radicale della solitudine. Questo libro si confronta con i modi con cui l'una e l'altra forma di solitudine si intrecciano, e si separano, nella vita di ogni giorno, nelle esperienze del dolore e della paura, della felicità perduta e della vita mistica; ma anche nelle aree delle esperienze poetiche, della sofferenza psichica, della malattia e del mistero del vivere, e del morire.

Eugenio Borgna è primario emerito di psichiatria dell’Ospedale Maggiore di Novara e libero docente in Clinica delle malattie nervose e mentali dell’Università di Milano.

Premessa
Sono in cammino, in questo libro, verso i modi di essere, verso i linguaggi, della solitudine perduta nella vita di ogni giorno, e divorata dalla mondanità e dalla ricerca di mete non di rado nutrite di illusioni e di apparenze: di stelle filanti; e in questo cammino vorrei inizialmente distinguere la solitudine interiore, la solitudine dell’anima, la solitudine creatrice, e la solitudine dolorosa, la solitudine negativa, la solitudine-isolamento. Sono, queste, due immagini radicalmente diverse di solitudine; anche se ci sono sconfinamenti dell’una nell’altra che, in ogni caso, fanno ugualmente parte della vita. Nella solitudine interiore, che rinasce sulla scia di esigenze portatrici di riflessione e di meditazione, di serenità e di speranza, non si delineano se non differenze emozionali legate alla maggiore, o minore profondità e radicalità di vissuto. Nella solitudine dolorosa, invece, nella solitudine-isolamento, si distinguono le forme determinate dalla malattia, dal dolore del corpo, dalla indigenza, dal franare di ideali, dalla perdita di umane relazioni, e quelle causate dal volontario distacco dal mondo, dal mondo delle persone e dal mondo delle cose, dalla intenzionale ricerca di motivi, e di desideri, unicamente individuali: sigillati dalla indifferenza, dalla noncuranza e dal disinteresse verso il destino degli altri-da-sé.
Nel mio cammino vorrei, poi, cercare di analizzare, e di descrivere, quali esperienze di solitudine rinascano nelle situazioni, nelle forme di vita, incrinate dal dolore del corpo e dal dolore dell’anima: dal dolore somatico e dalla sofferenza: nelle loro diverse fondazioni semantiche. Quando il dolore grida in silenzio dentro di noi siamo indotti a lacerare le nostre abituali relazioni interpersonali, e sociali, e a rinchiuderci nei confini di una solitudine che è più facilmente quella dolorosa, quella negativa, che non quella interiore, quella creatrice, così fragile e così vulnerabile: così frantumabile e così scomponibile nei suoi elementi. Il dolore del corpo, il dolore febbrile e sanguinante di un corpo ferito, ci trascina in una solitudine-isolamento quasi impenetrabile; ma anche il dolore dell’anima, quello che sgorga dalla coscienza depressiva, o quello che è stato definito con parole inenarrabili da Simone Weil come sventura, si rispecchia in una solitudine lacerante e, quasi, insostenibile che è solitudine interiore ma recisa da una qualche riconoscibile comunicazione con il mondo degli altri. Sono situazioni, queste, che testimoniano degli sconfinamenti reciproci fra solitudine aperta e solitudine chiusa: fra solitudine interiore e solitudine-isolamento. Come cercare di incrinare, e in ogni caso di analizzare, le pareti che il dolore innalza intorno a sé, ricreando muraglie kafkiane chiuse e ostinate, buie e talora disperate, che ne contrassegnano le solitudini? Come si confrontano, a loro volta, le esperienze, i modi di essere, della solitudine quando la nostra vita è incrinata, o è sommersa, cosa che oggi avviene con grande frequenza, dalla paura, o dall’angoscia? La paura non è l’angoscia; questa si manifesta al di là, e al di fuori, di ogni motivazione psicologica; quella riemerge sulla scia di determinati avvenimenti. Certo, la paura non ridesta in noi stati d’animo sconvolgenti, anche perché inattesi e improvvisi, come sono quelli dell’angoscia; ma ci sono paure, oggi, che ci assediano, e ci sommergono, con incandescenze emozionali non lontane da quelle dell’angoscia, e tali da cambiare radicalmente il nostro abituale modo di vivere, e di vivere in relazioni interpersonali significative, e creatrici. Sono molte le forme di espressione della paura; e quelle dominanti nella nostra epoca sono la paura della diversità, della stranierità, e la paura, retaggio immemoriale e infrangibile almeno per ora, della follia. Sono, queste, le paure che sfuggono ad ogni controllo razionale, e ad ogni decifrazione emozionale; radicandosi in profonde stratificazioni esistenziali, e sottraendosi ad ogni strategia di cura. La paura, ogni forma di paura, non può non conoscere esperienze di solitudine: di solitudine dolorosa, di solitudine talora interiore, ma soprattutto di solitudine aspra e talora aggressiva. La solitudine, quando non sia pietrificata in una radicale solitudine-isolamento, ci consente nondimeno di scendere nella nostra interiorità, e di riconoscere le cause, a volte davvero immotivate, delle nostre paure.
Il mio cammino mi porterà poi a confrontarmi con esperienze emozionali profondamente diverse da quelle della paura e dell’angoscia, e cioè con quelle della felicità e della felicità perduta: della infelicità. La parola tematica del mio discorso, la solitudine, mi ha indotto a recuperare, a cercare di recuperare, le dimensioni fenomenologiche di queste due fondamentali esperienze della vita che sono la felicità e la infelicità. Cambiano in loro i modi di essere della nostra interiorità, e cambiano anche i modi con cui interpretiamo i linguaggi del mondo in cui siamo immersi: radiosi e luminosi quelli della felicità, oscuri e talora insondabili quelli della felicità perduta. Ci sono nondimeno felicità intense e profonde, le grandi felicità, che non rifiutano di partecipare alla felicità degli altri, e felicità effimere e inconsistenti, mondane e non interiorizzate, le piccole felicità; ma ci sono infelicità, felicità perdute, riempite di nostalgia, e di smarrimento, di memoria ferita e non frantumata dal dolore, e infelicità dolorose e laceranti: talora crudeli. Quali forme di solitudine si accompagnano agli stati d’animo felici e infelici? La felicità, quella profonda, tende ad essere rivissuta nel segreto di una solitudine interiore che ne colga gli orizzonti di senso; mentre la felicità perduta si accompagna ora alla solitudine-isolamento ora alla solitudine interiore che analizzi la cifra fragile e nascosta del nostro dolore, e della nostra nostalgia.
La solitudine, una arcana solitudine, una solitudine che è distacco dal mondo, e insieme misteriosa comunità di destino con un Altro-da-sé, è stata la premessa alle esperienze mistiche di Angela da Foligno e di Maria Maddalena de’ Pazzi, di Teresa d’Ávila e di Thérèse de Lisieux, ma anche di quella di Teresa di Calcutta che si è realizzata mirabilmente non chiusa in un monastero ma nelle frontiere aperte e sanguinanti di una vita consumata dal dolore, e dalla partecipazione agli abissi sconfinati del dolore, nei luoghi della sofferenza estrema in una città come Calcutta: divorata dalle malattie e dalla povertà. La solitudine, la grande solitudine mistica, non è stata solo alla radice di esperienze umane e spirituali: come quelle lontane, e vicine, nel tempo alle quali ho ora accennato; ma è anche nel cuore di una vita monastica benedettina, o carmelitana, dei giorni nostri. Cosa ci dice una solitudine come quella che si intravede nel monastero benedettino di Isola San Giulio: sospesa sulle trakliane acque azzurre del lago d’Orta? A cosa ci fa pensare questa, almeno apparente, esclusione dal mondo, e questa discesa irrevocabile nella solitudine e nel silenzio? Ci sono frammenti del nostro cuore, isole della nostra vita interiore, che si riflettano nelle solitudini limpide, come ghiacciai, nelle quali sivive in un monastero? La solitudine è parola tematica di alcune poesie nelle quali emozioni fragili e umbratili risplendono, e non si dimenticano più. Mi sono, così, confrontato con poesie di Francesco Petrarca, di Giacomo Leopardi, di Emily Dickinson, di Rainer Maria Rilke e di Antonia Pozzi: poesie celeberrime e poesie (quasi) sconosciute; ma in ciascuna di esse risuona il timbro misterioso e stregato di una solitudine, ritrasfigurata, della quale non si può fare a meno in alcune ore della nostra vita. Sono le ore di inquieta nostalgia del cuore e di assorta ricerca dell’indicibile. Sono le ore in cui si rivive la solitudine come premessa ad ogni colloquio interiore con se stessi: con la propria interiorità e la propria coscienza. Sono le ore, o le giornate, in cui le parole poetiche sciamano in noi, e sono balsamo per le molte ferite della vita; distogliendoci dal richiamo, e dalla suggestione, di sirene ingannatrici e futili. Le poesie, certo, ma anche le lettere ad un giovane poeta di Rilke, e i testi stregati di Nietzsche, ci rimandano le immagini di una solitudine fragile e incorporea: così facilmente perduta, e così necessaria alla nostra memoria, e al nostro cuore. O, forse, non parla più alla nostra anima la voce della poesia; la sua voce esile e arcana, luminosa e aerea, scintillante e impalpabile? Non ci dice più nulla nemmeno la solitudine che è la parola tematica dei Lieder schubertiani divorati da una straziata malinconia, e da una indicibile nostalgia? Non è più il tempo della poesia, allora? E nondimeno anche la psichiatria, e non solo la filosofia, ha bisogno della poesia.
La solitudine, non più la solitudine creatrice, e nemmeno più la solitudine aperta alla relazione e alla trascendenza, si ritrova nei modi di essere delle esperienze psicotiche; con le quali la psichiatria ha a che fare, ogni giorno, nei diversi luoghi in cui si può, e si deve, fare psichiatria. Sono esperienze, quelle psicotiche, imprigionate in una solitudine dolorosa, in una solitudineisolamento, del tutto involontaria e radicalmente estranea a quell’isolamento che ci separa intenzionalmente dagli altri; rinchiudendoci nei laghi oscuri dell’egoismo e del silenzio, e negandoci alle esperienze di umana solidarietà. Nella solitudine psicotica, nella solitudine autistica, non c’è solo distacco dal mondo, non c’è solo solitudine-isolamento, ma c’è anche solitudine dolorosa che è nostalgia di incontro, e desiderio di dialogo.
Il mio cammino si avvierà alla sua conclusione con la riflessione sulla solitudine che si accompagna alla malattia, all’ammalarsi di una malattia somatica, di una malattia del corpo, che si riflette con risonanze psicologiche diverse in ciascuno di noi. Ogni malattia cambia gli orizzonti di senso della nostra vita; e di questo cambiamento vorrei descrivere, e analizzare, alcune emblematiche testimonianze. Non è possibile confrontarsi con la solitudine di chi si ammala, e di chi entra in ospedale in particolare, senza una costante riflessione sui modi, sulle parole così facili e così difficili, indispensabili alla comprensione e alla cura delle angosce e delle paure che dilatano, e feriscono, la solitudine.
Nello svolgimento del mio lavoro non potrei non confrontarmi con la solitudine, la grande solitudine interiore, che si accompagna alla morte e al morire, e alla scelta della morte volontaria. Sono temi inesauribili sui quali anche la psichiatria ha bisogno di riflettere. Sono temi che vorrei temerariamente delineare richiamandomi alle strazianti risonanze emozionali conseguenti alla morte della madre in Agostino e in Roland Barthes, uno scrittore francese dalla insondabile sensibilità; ma richiamandomi alla esperienza del morire così mirabilmente rappresentata da Georges Bernanos, nei mesi in cui stava morendo, in una delle carmelitane di Compiègne: lasciando intravedere in essa, come in uno specchio oscuramente, la fine della sua propria vita. Si muore soli; ma si è soli anche quando una persona cara muore. Solitudini diverse, certo, nella misura in cui, ovviamente, si conosca la solitudine che nasce in noi quando muore una persona amata, e non si conosca la solitudine in chi sta morendo se non quando questo non avvenga in noi. Ma la solitudine di chi muore è radicalmente lontana dalla solitudine di chi scelga volontariamente di morire; quando, negli ultimi istanti prima di morire, ripensi alla sua vita che finisce? Destini che, forse, in parte si sovrappongono; ma, nonostante questo, come possono non essere diversi gli stati d’animo di chi, nell’angoscia e nella paura, sta morendo, e quelli di chi recide la propria vita? Si agonizza nondimeno nel morire, e non si agonizza, o almeno si può non agonizzare, nel suicidio; e, la domanda cruciale, quale libertà nella genesi e nella scelta ultima della morte volontaria?
Lungo queste vie, luminose e oscure, dolorose e nonostante tutto aperte alle stelle cadenti della speranza, alle parole del silenzio e della speranza, alle parole che nascano dalla solitudine interiore, e siano creature viventi, si verrà svolgendo il mio lento cammino verso il linguaggio delle solitudini. Non dimenticando mai quello che ha scritto Franz Kafka: “La vera via passa per una corda che non è tesa in alto, ma appena al di sopra del suolo. Sembra destinata a far inciampare più che a essere percorsa”[ ].