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Cecco Bellosi
Piccoli gulag
Sentieri e insidie delle comunità terapeutiche

Editore Derive Approdi

pp. 176
Prezzo: Euro 14,00
Isbn: 88-88738-31-2

Le storie professionali di Cecco sono così dentro la sua vita individuale, la sua "tecnica" della relazione è così dentro la sua esperienza del vivere, dentro il suo sguardo mai conformista, sempre posizionato dalla parte di chi non ha diritti, ironico, partecipe eppure leggero, da darci il senso forte di una libertà: la libertà – nonostante e oltre un contesto nemico e duro – di praticare la propria differenza, di non doversi alleare né con il prete né con il medico, di non doversi arrendere alla spartizione del corpo del tossico tra paradigma della malattia e paradigma della morale. La libertà di vedere il volto dell’altro, di non scarnificarlo, di non negarlo, nemmeno con la scusa della guarigione dal dolore. La libertà di trovare nelle pieghe di ogni esistenza, anche la più dura e la più disperata, la parola della ribellione, della soggettività, dell’individualità irripetibile. La libertà di affermare con le proprie pratiche che ribellione, soggettività e individualità non vanno "curate", "guarite", piegate.
Chi parla di rispetto per la persona – e lo fanno tutti, nel lavoro sociale, ma davvero tutti, anche gli aguzzini – senza riconoscere il suo diritto alla ribellione, non fa che recitare una giaculatoria vuota, mendace.
E chi non ricorda la propria, di ribellione – o peggio, non ne ha mai conosciuto la felicità inebriante insieme allo smarrimento e ai prezzi da pagare – non sa lavorare per quella degli altri.
Susanna Ronconi

Quasi nessuno di quanti fanno il mestiere di Cecco è culturalmente e umanamente egualmente capace di negare ogni distanza tra sé e l’altro, tra l’operatore e l’"utente" come i racconti in queste pagine dimostrano. In un mondo di "professionisti della solidarietà" spesso ripiegato e rinchiuso su se stesso, con figure di riferimento mai soggette a ricambio, a elezione e verifica o sia pure solo a sollecitazione critica, che si relazionano sempre e solo ex cathedra, quella di Cecco è una preziosa testimonianza.
Sergio Segio

"Il carcere è luogo delle privazioni e del controllo. La comunità è luogo del controllo e delle privazioni. Entrambi territori dell’imposizione, non sono però la stessa cosa. La galera costringe all’ozio forzato, la comunità al suo contrario: il lavoro forzato, anche nei confronti di se stessi. Il carcere è così fuori dal tempo da essere maledettamente attuale; la comunità è talmente ripiegata sul qui e ora da legare le proprie radici vischiose a un passato remoto."
"Le comunità rappresentano un punto di ibrido incontro tra etica religiosa e spirito del socialismo reale. L’etica religiosa si esprime nell’assoluto della regola, lo spirito rieducativo nelle frementi ansie di adeguamento alla norma, attraverso percorsi di riabilitazione sociale. Le comunità terapeutiche sono in generale un formicaio frenetico, nelle ore dedicate al lavoro ma anche in quelle di non lavoro. Fluisce un attivismo sconosciuto alle prigioni: questo non significa che vi scorra attività. Sedute di psicoterapia, preghiere, corsi di formazione o di ginnastica, riflessioni guidate, momenti ricreativi riempiono le persone di informazioni e convinzioni senza, di contro, ascoltare nulla. Si svolge un condizionamento operante che, nelle intenzioni, dovrebbe poi proseguire all’esterno, come una sveglia capace di mantenere a lungo la carica."
"A parte la divisa, che cosa differenzia un operatore di comunità da un agente di custodia? Il secondo è un carceriere del corpo, il primo lo è dell’anima: a volte, di tutti e due."

Cecco Bellosi (Isola Comacina, 1948), da quindici anni si occupa di persone con problemi di dipendenza da sostanze stupefacenti. Attualmente è il coordinatore di comunità e case alloggio per uomini e donne malati di Aids. Nel 1991 è stato tra i soci fondatori della Lila (la Lega italiana per la lotta all’Aids). Ha collaborato all’Annuario sociale e al Rapporto sui diritti globali 2003 (Edizioni Ediesse).

Il testo
Chi ha detto che i tossici sono dei fannulloni, incapaci di riempire il tempo? Che lavorino in proprio, rubando, o con regolare libretto, la loro vita è appesa a una produttività frenetica. Stakanov, al confronto, non era nessuno.
I tossici faticano come formiche, mentre consumano come cicale. Per un’estate che dura poche ore: poi, la clessidra rovesciata torna a scandire obblighi e fretta.
Brescia, primavera 1980.

Il carcere di Canton Mombello al solito stava scoppiando: non di salute ma di detenuti. Le due sezioni si riempirono di drogati che pagavano il contributo periodico alla voglia di marciapiedi puliti. Il fiume, straripando, giunse a lambire la nostra cella. L’abitavamo in tre, un cubicolo di dieci metri quadrati: teoricamente si apriva la possibilità di un altro castello. Uno stendipanni pieno, senza vuoti di bucato.
La cortese ipocrisia del brigadiere nasceva dal bisogno: "So che lo spazio è piccolo, ma vi dispiace aggiungere un letto? Altrimenti devo mandare questo ragazzo ai topi…". Ad altri l’avrebbe imposto con metodi bruschi, nei nostri confronti si mostrava gentile. Sapeva già che non avremmo detto di no e non sapeva ancora che avevamo perso.
Il ragazzo era pallido, percorso da brividi, sudava freddo. Per cinque notti non ci lasciò dormire, saltava su e giù dal castello come un grillo impazzito. Sopportavamo, ci incazzavamo, imprecavamo.
Ma si capiva che stava male: non conoscevo l’astinenza, la vedevo in atto. Gli davano valium solo dopo le nostre insistenze; quando lo chiedeva lui gli ridevano in faccia. La cura era generalmente diversa, in quel periodo; nel carcere di San Donnino massacrarono un ragazzo a calci nella pancia: voleva una pastiglia, lo mandarono al creatore.
All’aria di Canton Mombello i tossici non esistevano. Sdraiati in un angolo, si spostavano lentamente alla ricerca del sole come una mandria svogliata di lucertole. Scheletri barcollanti si trasformavano in poco tempo in lenti pachidermi. Potere dimagrante dell’eroina, potere bulimico della pastasciutta. Guardandoli nella metamorfosi, trovavo strano che nessun pubblicitario avesse ancora lanciato una linea dietetica: una pera al giorno leva il grasso di torno. Meno costosa delle improbabili cliniche della salute, più attraente delle insipide paste integrali, e dai risultati efficaci.
Nessuno dei tossici passeggiava con gli altri detenuti, divisi in bande rivali; a volte qualcuno veniva ammesso alle partite di calcio. Solo quelli che giocavano bene, però: come per i negri valeva il criterio di merito. Invisibili, salvo quando agivano gesti di autolesionismo. Un disperato, in mezzo al cortile, cominciò un giorno a tagliarsi le vene: il piccolo boss di turno lo rimproverò perché queste cose non si fanno davanti a tutti.
Andrea non era invisibile: viveva con noi venti ore al giorno. Raccontava del Carmine, popolare Bronx bresciano, e degli sbattimenti quotidiani. Per farsi, doveva prima fare due, tre, quattro autoradio: dipendeva dalla qualità, i ricettatori esibivano una competenza da Scuola Radio Elettra.
Come i ladri di Marx (Carlo), i tossici non si limitano ad accrescere il consumo: danno il loro obolo alla produzione. Andrea era ai limiti dello sfinimento: lo trovarono, addormentato, su una macchina rubata. Il carcere diventò per lui un momento di riposo, dove potersi ripigliare. Come alle terme di Montecatini, dove uno va a fare per una settimana la cura dell’acqua dopo 51 settimane dedicate al vino.
All’aria andava poco, come atto di presenza nell’angolo dei fantasmi. Dovevano ricordarsi di lui, al momento del carico. Una volta alla settimana un sorriso ebete si stampava sui loro volti: i cavalli avevano portato la roba.
La sera raramente veniva in socialità con noi. Dalle sei alle otto si poteva uscire a cena: andavamo nella cella dei bergamaschi. Questa abitudine ci aveva procurato qualche fastidio; il clan dei calabresi aveva letto la frequentazione come un’alleanza per il controllo del carcere: quel piccolo potere che fa molto via Pal per la posta in gioco ma che, per la sua irrilevanza, rischia quotidianamente di assumere toni drammatici.
Salvo nei casi di suicidio, le tragedie in carcere non accadono mai per motivi seri.
Dei bergamaschi ci piaceva la cucina, ma non volevamo litigare per il peperoncino. Una domenica andammo a pranzo dai calabresi, infilando come gli anelli di una corona d’aglio una gaffe dopo l’altra: ci presentammo con i pantaloni corti, ci sedemmo a tavola prima del capobastone, versammo il caffè con la mano sinistra perché la caraffa girava in senso contrario. Gesti al limite dell’insulto, ci dissero poi, per il rituale; capirono però che non avevamo nulla contro di loro.
Dei bergamaschi non amavamo solo la cucina, ma anche la genuinità spaccona di banditi senza tempo: ci appariva più intrigante del rapporto formale con una associazione gerarchica, sia pure a delinquere. Chiamavano gli altri mandarini. Non si trattava tanto di una definizione etnica a sfondo razzista, quanto del tentativo di connotare con puntuale sarcasmo caratteri burocratici e lingua in codice dei clan meridionali. La terra bergamasca è fertile di relazioni forti e di cantieri; produce cottimisti della cazzuola e del prelievo: non a caso usavano le ruspe anche per assaltare le banche e chiamavano lavori le rapine. Il sabato sera, la cena delle valli aveva una carta d’obbligo: polenta e coniglio. La tradizione, conosciuta, non gioca scherzi. Una volta la donna del più raffinato della banda aveva portato col pacco un vasetto di caviale; uno dei suoi compagni lo buttò dalla finestra: pensava fosse tonno andato a male. Almeno con il coniglio non si correvano rischi.
Andrea, quel sabato, non venne con noi. Disse che non aveva fame. Quando tornammo in cella ci assalì la voglia di dolce: la privazione esalta i piccoli piaceri. Al colloquio, mi avevano portato una forma di Toblerone. Cercai il cioccolato sul ripiano che separa le due file di sbarre della bocca di lupo, il frigorifero delle stagioni fresche e fredde. Chiesi ad Andrea se sapeva che fine avesse fatto; aprì la bocca ma non riuscì a parlare perché era piena di una poltiglia marrone: l’aveva mangiato tutto. Il mattino seguente, al ritorno dall’aria, decidemmo di preparare la pastasciutta, ma il formaggio grana era sparito; Andrea, rimasto di nuovo in cella da solo, si era fatto: questa volta di parmigiano.
Oltre la rabbia, mi apparve del tutto evidente una cosa: i tossici, di là, finiscono nel girone dei golosi.
Non mi sono mai affrancato da questa convinzione: nei primi giorni di comunità sgranavo gli occhi di fronte alle montagne di spaghetti riversate nei piatti, vedevo le ragazze trasformarsi da aringhe in balene bianche; ancora oggi rimango turbato dal caffè zuccherato da uno di loro: i cioccolatini, al confronto, si fanno rimpiangere per un sano, amaro gusto. Mi è capitato di parlare di queste abitudini con uno psicologo, ricco di una delle mille teorie sulle ragioni della tossicomania: mi ha risposto con ovvietà saputa che si tratta di una forma di compensazione.
Bene, ma non ho mai visto compensare le abitudini di un cavallo con quelle di una gallina: al massimo, con quelle di un mulo.
L’eroina è la regina dei golosi: mangiarne troppa fa star male, né più né meno del cioccolato, del vino o del sesso. A San Donnino dissero un giorno a Silvio che la noce moscata provocava sensazioni allucinogene; per essere sicuro dell’effetto ne ingoiò tre: rimase una settimana sul water. Lo psicanalista ci dirà compìto che l’origine del disturbo è da ricercare lontano nel tempo, nei conflitti della fase orale. Ma i sette vizi capitali esistevano senza sentire la mancanza di Freud: facevano parte del patrimonio dell’umanità ben prima della scoperta della nostalgia di un capezzolo.