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PERSONALIZZARE L'INTEGRAZIONE
Un progetto educativo per l’handicap tra professionalità docente
e dimensione comunitaria
Editrice la Scuola Collana: Scuola Primaria ISBN: 88-350-1714-9 €
13,00 144 pagine
È inutile riformare la scuola e i metodi,
se a questa scuola e a questi metodi
sfuggono appunto coloro che per la difesa sociale
più ne sarebbero bisognosi!
Qualunque metodo vale a rendere utile e morale
un individuo sano e normale.
La riforma che s'impone è quella della scuola e della pedagogia,
che ci conduca a proteggere nel loro sviluppo tutti i fanciulli,
compresi quelli che si dimostrano refrattari
all'ambiente della vita sociale.
(Maria Montessori, 1910)
Marisa Pavone La scuola primaria rinnova il suo impianto culturale
e organizzativo assumendo a fondamento per tutti gli alunni la personalizzazione
dell'educazione: un processo che da anni viene adottato nei confronti
dei minori in difficoltà. In una continua reciprocità del dare e dell'avere,
si può riconoscere che l'integrazione scolastica degli studenti disabili
continua a rappresentare, ancora una volta nella nostra tradizione storica,
uno stimolo al miglioramento dell'offerta formativa. Il libro si propone
di evidenziare, in particolare, come l'applicazione della riforma della
scuola possa imprimere una rinnovata spinta di qualità al cammino dell'inclusione,
attraverso alcuni dispositivi: i piani di studio personalizzati; la differenziazione
e la flessibilità sul piano didattico, metodologico, organizzativo; il
portfolio; l'integrazione tra i segmenti scolastici, con le famiglie e
con le istituzioni dell'extrascuola. L'indagine si sviluppa in tre parti.
Nella prima viene analizzato il concetto di persona, paradigma complesso
appartenente a ciascun soggetto - indipendentemente dalla presenza di
minorazioni - che rimanda alle categorie dell'individualità, della relazionalità,
e alla prospettiva evolutiva. Viene inoltre illustrato il nuovo strumento
di classificazione delle condizioni di salute e disabilità che la comunità
scientifica propone: un modello descrittivo a carattere non solo medico,
ma anche psico-educativo-sociale, da cui scaturiscono nuove indicazioni
per la formulazione delle diagnosi e per la progettazione educativa. Nella
seconda parte si prende in esame il funzionamento della scuola-comunità
di apprendimento impegnata ad accogliere, conoscere ed accompagnare ogni
studente - soprattutto in situazione di handicap - attraverso lo strumento
della programmazione didattica intesa come "cantiere aperto". L'ultima
parte guarda alla prospettiva del futuro, illustrando le caratteristiche
di un progetto educativo personalizzato che, fin dalle prime esperienze
in famiglia e nella scuola dell'infanzia, si orienta nell'ottica del progetto
di vita.
Si riprende dalle pagine 15-30 del volume,
Personalizzare l'integrazione. Un progetto educativo per l'handicap
Dall'individuo alla persona
Nell'impianto culturale del progetto di riforma del sistema di educazione
e di istruzione il riferimento alla "personalizzazione" è ricorrente e
significativo. (..). Alla base del principio di personalizzazione sta
la scommessa che la previsione di itinerari diversificati possa elevare
la qualità della formazione per tutti e per ciascuno, e possa contribuire
a ridurre gli insuccessi, adeguando la proposta ai bisogni educativi dei
singoli. Il modello paradigmatico che colloca il soggetto al centro dell'attenzione
educativa – nel caso degli allievi disabili anche riabilitativa – trae
ispirazione dall'attivismo pedagogico, sviluppatosi nei primi decenni
del Novecento (…). Sono quanto mai rivelatrici, in proposito, alcune pagine
scritte da Claparède nel 1920, nelle quali rivolge aspre critiche alla
scuola tradizionale, e auspica una "scuola su misura" degli allievi:
Quando un sarto fa un vestito […] lo adatta alla corporatura del cliente
e se questo è grosso e piccolo, non gli fa indossare un abito troppo stretto,
col pretesto che ha la larghezza corrispondente, di regola, alla sua altezza.
Il calzolaio che fa una scarpa comincia col tracciare su un foglio di
carta il contorno
del piede che deve calzarla, e ne segna la particolarità ossia le deformazioni.
Il cappellaio adatta i suoi copricapo ad un tempo alla forma e alle dimensioni
dei crani… Al contrario l'insegnante veste, calza, incappella tutte le
menti nello stesso modo. Egli ha solo roba fatta in serie, e i suoi scaffali
non consentono la minima scelta: qualche numero di grandezza, è vero,
ma sempre lo stesso modello! Così, fra gli alunni delle nostre scuole
ne vediamo alcuni che annegano negli anfratti di un programma troppo immenso
per le loro deboli aspirazioni e le loro capacità problematiche, ed incespicano
ad ogni passo nelle falde sovrabbondanti di quella uniforme che essi non
riescono a riempire, né fino alla cima, né fino al fondo – mentre altri
sono soffocati da una disciplina troppo stringata che impedisce lo sviluppo
normale della loro personalità intellettuale e morale, tanto che non possono
permettersi un movimento senza fare saltare qualche bottone. Perché non
si avrebbero per le menti i riguardi di cui si circondano il corpo, la
testa, i piedi? […] Che fare perché le attitudini vengano rispettate e
valorizzate per il maggior bene di chi le possiede? […] Come fare affinché
ogni tipo individuale di intelligenza tragga dalla scuola il massimo di
beneficio che si ha il diritto di pretendere? […] La scuola, fatta per
la media, potrà mai tenere conto dei casi individuali? Non si può tuttavia
avere una scuola per ciascun fanciullo! Eppure bisogna risolvere questo
problema, ché, in definitiva, nelle nostre società, l'individuo è tutto.
Nello stesso interesse della collettività, bisogna che l'individuo sia
capace del maggior rendimento possibile (1)
(..) Ancora oggi, dopo oltre mezzo secolo - e soprattutto dopo che le
istanze piuttosto elitarie dell'attivismo hanno ceduto il passo a teorizzazioni
pedagogico-didattiche che hanno cercato nella razionalizzazione/sistematizzazione
dei processi di istruzione la formula per qualificare i risultati scolastici
per la generalità degli alunni - il concetto di istruzione individualizzata
non è sostanzialmente cambiato. Gli esperti affermano che "l'istruzione
individualizzata consiste essenzialmente nell'adattare i codici linguistici,
i ritmi, le modalità di trasmissione culturale e la sequenza dei compiti
dell'insegnamento alle capacità linguistiche, ai ritmi, alle modalità
di apprendimento e ai prerequisiti cognitivi specifici dei diversi allievi"
(2).
Il concetto di individualizzazione dell'insegnamento guarda al minore
considerandolo sotto gli aspetti della singolarità e originalità:
caratteristiche particolarmente accentuate nei soggetti portatori di minorazione,
tanto da indurre i ricercatori a ipotizzare per loro un peculiare sviluppo
eterocronico (3), che manifesta la coesistenza di aree ad alto
e basso funzionamento, e pertanto è suscettibile di scarsi e saltuari
riferimenti all'evoluzione normale. Fin dalle prime esperienze di inserimento
nelle classi comuni, la specificità unica del profilo personale
degli alunni disabili – al di là delle tipologie di deficit - ha richiamato
istanze di differenziazione didattica, che si sono concretizzate nell'elaborazione
del progetto educativo individualizzato integrato. Tuttavia, sulla base
di una prassi inclusiva consolidata e illuminata da un considerevole e
articolato rispecchiamento teorico, ci si è resi consapevoli che i percorsi
di individualizzazione possono tramutarsi in itinerari di separazione.
Anche entro un contesto di normalità, il piano educativo individualizzato
può rappresentare un sofisticato dispositivo di isolamento, soprattutto
se supportato da una serie di opzioni di sfondo a carattere segregazionista:
ad esempio, un rapporto uno-uno stretto tra l'allievo e l'insegnante di
sostegno, la rarefazione delle interazioni con i compagni e con gli insegnanti
curricolari, l'utilizzo esclusivo di laboratori o locali "dedicati". Con
il tempo e l'esperienza è maturata la consapevolezza che l'evolvere della
personalità del soggetto in difficoltà non può essere ripiegata sul deficit,
né può essere appagata da interventi tecnico-riabilitativi totalizzanti.
La categoria dell'individualità e il conseguente processo di individualizzazione
educativa vanno declinati con un respiro più ampio, e ricompresi nella
dimensione della persona e della personalizzazione. Il filosofo
di ispirazione cristiana Maritain ricorda giustamente che la persona umana
è un tutto, un universo a se stessa, ma è anche una parte del divenire
della natura e della società; è una "essenza mista" (4). (..) L'individuale
che ci distingue dagli altri e ci rivela al mondo con la nostra identità
può anche presentarsi con il peso di un danno organico, psichico o intellettivo
(..) Spiega Vico che "l'accostamento educativo della persona handicappata
deve fondarsi e trovare le sue giustificazioni filosofiche ed educative
in una antropologia che, pur prendendo nella dovuta considerazione l'esistenza
(il fatto, l'hic et nunc, l'uomo in situazione) e la relazione
(i rapporti, il problema-primato del Tu, le dinamiche relazionali), privilegi
pur sempre un orientamento essenzialistco che […] comprenda e proceda
oltre quel che soggiace al mero fenomeno per orientare la persona alla
massima realizzazione di sé". L'handicappato accentua l'aspetto della
diversità, in quanto la minorazione fisica, psicobiologica, sensoriale
lo espone a presentarsi come soggetto diverso su questi piani;
tuttavia questa diversità non intacca la sua dignità originaria e originale.
Nel valore-persona si smorza la separazione tra normale e patologico e
prende sempre più consistenza il significato della personalità individuale
come manifestazione della persona nello spazio e nel tempo (5).
Modelli nella prassi educativa
Cominciamo con il riferimento classico alle origini della pedagogia
speciale: la presa in carico educativa da parte del dottor Itard nei confronti
del Selvaggio dell'Aveyron, negli anni a cavallo tra Settecento e Ottocento.
Riprendiamo quanto ha scritto Moravia, circa il diverso atteggiamento
che assunsero il famoso luminare Pinel – ancora oggi considerato padre
della psicopatologia e della psichiatria moderna – e l'allora oscuro medico
e suo allievo, nei confronti del ragazzo trovato nei boschi tra i lupi,
che camminava a quattro zampe ed emetteva suoni gutturali ed inarticolati,
più vicini al linguaggio animalesco che a quello degli uomini. Per lo
scienziato materialista, il ragazzo era "oggetto" di scienza, una "cavia"
da osservare, classificare e studiare da parte del ricercatore, che deve
stendere la sua relazione scientifica; dopo di che si esaurisce l'interesse
nei suoi confronti. Per Itard, il ragazzo era innanzitutto una persona
con cui cercare di relazionarsi. Si sforzò in ogni modo di interpretare
la sua vicenda concreta, cogliendone le caratteristiche proprie, e soprattutto
le possibilità di sviluppo; diede un nome al selvaggio "Victor", riconoscendolo
come appartenente alla specie umana; si impegnò a promuoverne l'educazione,
per restituirlo alla società (6).
L'altro esempio appartiene alla esperienza scolastica dei giorni nostri,
realizzata in una scuola dell'infanzia della provincia di Cuneo, da una
insegnante di sostegno. Il caso descritto ha come protagonista un bambino
di sette anni, ancora inserito nella scuola dell'infanzia perché considerato
"gravissimo", affetto da una rara sindrome genetica (Trisomia 13), associata
a ritardo intellettivo severo e a crisi epilettiche. Dice di lui la maestra:
Quando ho conosciuto A. [indichiamo solo l'iniziale del nome, per evidenti
ragioni di privacy, ndr.], dopo due anni di frequenza scolastica, trascorreva
ancora il tempo prevalentemente dormendo; da sveglio, stava sul passeggino
o a terra, ripiegato su se stesso, potendo vedere soltanto le sue ginocchia;
si leccava di continuo la mano, procurandosi ferite al volto e alle dita
per l'irritazione; la sua conoscenza del mondo sembrava passasse solo
attraverso la lingua. Non comunicava. Aveva capacità di controllare unicamente
parti del corpo e la testa. Quando era sulla carrozzina, riusciva a comandarla,
facendola spostare per piccoli tratti. Mangiava in solitudine, in mezzo
alla confusione di altre attività; lo imboccavano con un cucchiaino, dandogli
solo cibi liquidi o frullati. La fisioterapista diceva che non aveva bisogno
di terapie specifiche, bastava fargli dei massaggi per mantenere il tono
muscolare. Mi dicevano che purtroppo non sarebbe vissuto a lungo. Nei
primi tempi ero piuttosto preoccupata… tra l'altro era la mia prima esperienza
di insegnamento. Ho cominciato ad osservare attentamente il suo comportamento:
le diverse espressioni del viso - rabbia, soddisfazione, stupore - i suoi
movimenti volontari; ho cercato di fargli capire che ero disponibile ad
assecondarlo. Ho realizzato che lui mi comprendeva; ho iniziato a poco
a poco a offrirgli cibi tritati, e ho scoperto che li gradiva. Ho ottenuto
da lui che imparasse ad usare altre parti del corpo per esplorare l'ambiente,
e non solo la lingua; sono riuscita a fargli togliere la mano di bocca.
Abbiamo cominciato ad entrare in comunicazione: io capivo i suoi messaggi.
Ci sono – gli dicevo – dobbiamo lavorare insieme; gli proponevo una molteplicità
di esperienze sensoriali. Nel frattempo, ho cercato di trovare aiuti e
collaborazioni nell'ambiente intorno a me. Ho ottenuto che la mamma mi
aiutasse riproponendo a casa le cose che facevamo a scuola; ho cercato
di farle capire che lei era una preziosa risorsa, e che la scuola era
un luogo di cui fidarsi; che potevamo collaborare per suscitare miglioramenti
nel figlio, che bisognava avere fiducia. Ho ottenuto che un'assistente
sociale la aiutasse in casa, e che le venisse attribuito un educatore,
perché aveva anche altri figli piccoli a cui badare. Ho ottenuto la collaborazione
di una neuropsichiatra infantile, con cui abbiamo steso un profilo dinamico
funzionale e un programma di lavoro didattico riabilitativo. Sono entrate
in scena una psicomotricista a scuola e una fisioterapista a casa. Abbiamo
iniziato a usare il banco di statica (il bambino era alto un metro e venti).
Tutti questi cambiamenti hanno piano piano dimostrato alle colleghe che
il bambino poteva migliorare, che aveva delle potenzialità di apprendimento
e di sviluppo, e che meritava rispetto e aiuto. Con A. partecipavamo alla
vita di diversi gruppi, lavorando a sezioni "aperte", alla ricerca di
attività idonee e di contatti con gli altri bambini. I compagni mi rivolgevano
domande infinite su di lui: "Che cosa ha? Ha avuto un incidente? Mangia
e gioca come noi?" Cercavo di spiegare che il piccolo era uno di loro
e come loro; che purtroppo i problemi di salute lo facevano apparire diverso.
Alla fine, si sono liberati dall'ansia provocata dalla paura dell'insolito.Al
termine dell'anno, A. è riuscito a mangiare seduto al tavolo, dove erano
appoggiati piatto e bicchiere: prendeva il bicchiere da solo quando aveva
sete; il pasto durava oltre mezz'ora, e lui assaggiava tutti i cibi, portando
il cucchiaio alla bocca. È riuscito a comprendere le routines di classe;
a pronunciare "mamma"; a comprendere quando lo si stava cambiando, e a
facilitare i movimenti dell'adulto; era più presente all'attività in sezione
e riusciva a sopportare la solitudine, senza rinchiudersi in se stesso.
Partecipava alla ricreazione in giardino, con i compagni. Ha raddoppiato
il tempo di permanenza a scuola.Nella fotografia di fine anno, A. è ripreso
mentre insieme ai compagni sta mangiando un gelato, in una gelateria cittadina;
lui ha in mano un cucchiaino, e si diverte… Il prossimo anno il bambino
andrà alla scuola elementare; per facilitare il passaggio, dal mese di
maggio abbiamo organizzato visite nel nuovo ambiente, per farlo conoscere,
e per fare conoscere a lui la futura realtà scolastica: le maestre e i
locali. Abbiamo portato con noi numerose fotografie, per mostrare a tutti
quello che sa fare (7).
Il commento della docente esprime la migliore lettura dell'esperienza:
Per tutti A. era un "diverso", quasi un vegetale. "Inutile fargli assaggiare
cibi nuovi, o proporgli qualunque esperienza; tanto non capisce nulla!",
mi veniva detto. Il mio primo impegno è stato quello di farlo percepire
agli altri come persona umana, e di introdurre nel suo mondo quanto più
possibili esperienze di normalità. Ad esempio, ho preteso che anche lui
dormisse su una brandina come i compagni, e non su un passeggino
troppo piccolo e inadeguato; ho cercato di dimostrare che aveva delle
emozioni, dei sentimenti; che poteva arrivare a mangiare da solo; che
aveva desiderio di imparare come tutti.
Ovviamente, per i colleghi insegnanti e per gli specialisti si trattava
di aderire a un concetto di apprendimento in senso lato: gli altri bambini
imparavano a disegnare o a leggere piccole frasi, A. imparava a padroneggiare
alcune autonomie personali fondamentali, facendo la stessa fatica, e impegnando
la stessa volontà. Il nesso fra le due vicende, temporalmente lontanissime,
sta nell'approccio al disabile. Anche davanti a situazioni di gravità
che possono apparire scoraggianti, la sensibilità educativa verso la persona
è quella che spinge ad andare oltre la dissonante difficoltà imposta dal
deficit – senza per questo trascurarne la conoscenza approfondita – per
scoprire strumenti e canali di comunicazione che permettano il rispecchiamento
e il ri-conoscimento nella comune condizione umana, al di là della reale,
ma anche, in una certa misura, apparente perché transitoria,
diversità. Da questo punto e da questo momento comincia l'avventura
educativa per entrambi: per il docente e per l'allievo. Se si conviene
che ogni persona – con le sue potenzialità e i suoi limiti rispetto ai
quali non vi sono gerarchie di sorta – è diversa, si capovolge la logica
con cui tradizionalmente sono stati affrontati il problema della diversità
dei disabili e la loro integrazione nel contesto scolastico e sociale.
Vico ricorda: "Il primato personalistico della persona ci viene incontro
e ci sostiene nella tesi che non c'è mai una integrazione da parte degli
altri, così come non esiste una integrazione ex novo di un individuo.
[…] È la persona che integra se stessa, ritrovando se stessa"(8) . Non
si pone la questione di integrare l'alunno disabile in un contesto di
astratta normalità, che sovente si traduce in tensione accomodante verso
l'uniformità. Si tratta piuttosto di valorizzare al meglio le dotazioni
individuali: escludendo qualunque modalità stereotipata di approccio alla
pluralità di situazioni e di prestazioni che caratterizzano ogni essere
umano, e togliendo dal percorso educativo le condizioni negative che potrebbero
ostacolare l'originale, eterocronico e comunque a suo modo armonico,
sviluppo della personalità del minore con deficit. Nessuna persona dovrebbe
essere definita esclusivamente per sottrazione: non sa, non è in grado
di fare, non può essere…; non è la carenza che dovrebbe contraddistinguere
un profilo individuale; piuttosto, la capacità di sentire, di comunicare,
di agire, di pensare, secondo la peculiare modalità personale. "È da qui,
dal positivo, che si inaugura l'educazione che non è poi altri che lo
sviluppo dell'unità e dell'integralità di se stessi a partire dalle capacità
unitarie e integrali che si possiedono e, quindi, a partire anzitutto
dall'accettazione globale di sé". La persona integrale "è per definizione
una miniera inesauribile di risorse e di energie, perciò mai ‘sfruttata'
fino in fondo e una volta per sempre. Per questo così sorprendente e generativa
da affermarsi perfino quando i limiti e i condizionamenti sembrerebbero
comprimerla in modo invincibile" (9).
Superare stereotipi e luoghi comuni
L'assunzione di questo quadro teorico come punto di vista privilegiato,
come sguardo attraverso cui trattare il tema dell'integrazione scolastica
dei disabili, ci aiuta a tenere lontane le derive conseguenti
ad alcuni diffusi quanto deleteri stereotipi.
Le mode tecnicistiche. Il primo fra tutti consiste nell'adesione
assolutizzante a mode tecnicistiche, siano esse di impostazione medica,
riabilitativa, o psicologica. Il luogo comune ci può indurre a pensare
che l'alunno in situazione di difficoltà inserito in classe abbia bisogno
soprattutto e primariamente di interventi di tipo sanitario-rieducativo,
piuttosto che di attenzioni educative. L'assunzione acritica e totale
a questo modo di pensare da parte del mondo della scuola assume, di volta
in volta, una molteplicità di manifestazioni. Il comune denominatore sta
nel subordinare l'approccio formativo a quello riabilitativo: nel privilegiare
lo sguardo della parzialità piuttosto che quello dell'integralità della
persona. Al contrario, la maieutica educativa deve difendersi "contro
un'idea totalizzante di 'educazione' sfociante sempre nella forma della
propria autoreferenzialità strumentale e violenta che è la rieducazione"
(10). Non si vuole negare la possibilità di un nesso – non automatico
o necessario – tra l'entità della compromissione individuale e una conseguente
situazione di handicap in ambiente scolastico. Si vuole piuttosto rilevare
che, di fatto, troppo spesso il mondo della scuola riserva
al deficit la funzione di pronosticare e delineare l'orizzonte e gli spazi
di educabilità personali dell'alunno. Ancora troppo frequentemente non
solo gli specialisti della sanità, ma anche i docenti, adottano come criterio
privilegiato ed esclusivo di conoscenza e di classificazione del disabile
la categoria diagnostica. Sulla base di questa – piuttosto che sull'osservazione
sistematica e continua del comportamento globale del minore – prefigurano
la sua possibilità di rispondere a un progetto prima di tutto riabilitativo,
e solo in seconda battuta formativo. Quasi che la tipologia e l'entità
della minorazione abbiano il potere di creare un effetto alone, capace
di irrigidire l'originalità del profilo personale, e di predeterminare
la qualità della futura esperienza di vita del soggetto.
Al contrario, la più avanzata ricerca scientifica insegna che il legame
tra deficit e handicap va letto non tanto all'interno di un processo causale-lineare
riguardante solo l'individuo, quanto piuttosto all'interno di un paradigma
sistemico, che coinvolge variabili soggettive e ambientali. Questa nuova
attenzione alle situazioni di disabilità mette d'accordo il punto di vista
medico e quello pedagogico, richiamandone
la necessaria collaborazione. Per i professionisti della scuola è doveroso
confrontarsi e comprendere la documentazione sanitaria che accompagna
la frequenza scolastica del disabile – in particolare diagnosi e profilo
dinamico funzionale – così come è indispensabile saper dialogare con
le professionalità mediche e riabilitative. Tuttavia, non va trascurata
la specificità dello sguardo pedagogico, che pur muovendo da singole prospettive
parziali, mira a metterle in collegamento in vista di un progetto di vita
globale: un progetto che proietti il minore oltre la scuola e verso il
futuro, prefigurando condizioni di vita adulta.
Immobilismo permanente. Un altro diffuso luogo comune risiede nella
tendenza a mantenere il processo di insegnamento dell'allievo disabile
in una condizione di permanente immobilismo, di staticità, con la giustificazione
che i progressi sono lenti e tardivi, e i risultati scarsamente apprezzabili.
Se pure l'argomentazione incontra una qualche ragionevolezza didattica
– qualora riferita ad un arco temporale breve – nondimeno può rivelare
da parte dei docenti pregiudizi, o incapacità a elaborare itinerari di
didattica differenziata e/o innovativa, adeguati alle peculiari situazioni
di handicap. Il pregiudizio – prigioniero del timore del rischio e della
cultura dell'autoconservazione – manifesta l'indisponibilità a pensare
che lo studente disabile possa approdare ad uno stato adulto, e la persistenza
a giudicarlo "eterno bambino". Spiega Vico: «Nella "contingenza" del vissuto,
all'assenza di continuità
e consequenzialità puntualmente corrispondono la "passività"
del soggettivo e l'"'impersonalità" dell'io.[…] Il "repentino" è strettamente
legato all'"accader-mi-senza-un perché"; […] è il fenomeno patico:
è il paradossale traumatico vissuto dalla coscienza infranta, discontinua,
estraniata da sé» (11). Per usare due espressioni care a Ricoeur, nei
confronti dell'alunno considerato handicappato non vi è rapporto armonico
tra lo "spazio di esperienza" – spesso uguale a se stesso, nel trascorrere
dei giorni, dei mesi e degli anni – e "l'orizzonte di attesa". Quest'ultima
dimensione richiama la progettualità, il futuro reso intenzionalmente
presente nella consapevolezza che il fine è ciò che è già prima; in una
parola la persona del disabile, e non essenzialmente la sua disabilità,
come idea direttiva.
L'universo scolastico non ha ancora elaborato competenze sufficientemente
qualificate a "tradurre" il deficit in bisogno educativo e didattico.
Pertanto gli insegnanti sono indotti, nello stesso tempo, a sottovalutare
e sopravvalutare la compromissione, trascurando che essa si configura
come una componente - non unica ed esclusiva - all'interno di una struttura
complessa di personalità, e che l'individuo in sviluppo - se opportunamente
aiutato – può attivare risorse positive di coesistenza con la minorazione
e per l'adattamento presente e futuro alle sollecitazioni ambientali.
Così, ad esempio, un bambino considerato in situazione di gravità all'ingresso
nella scuola dell'infanzia perché affetto da "tetraparesi spastica" -
diagnosi che può apparire fortemente compromissoria all'età di 2-3 anni
- se sostenuto con interventi qualificati sia sul piano riabilitativo
che educativo, quando diventerà adolescente potrà giungere anche a sviluppare
un sufficiente livello di autonomia personale e sociale. Cristopher Brown,
il protagonista del famoso film Il mio piede sinistro, offre una
testimonianza di vita emblematica. Nonostante gli ostacoli ancora da superare,
famiglia e scuola continuano ad essere le due principali agenzie educative
impegnate nella responsabilità di favorire il percorso del disabile verso
la vita adulta, che si concretizza nell'accesso alle esperienza che la
società considera rituali: la conquista dell'autonomia, da non confondere
con l'autosufficienza; dell'integrazione lavorativa; di una equilibrata
vita socioaffettiva. Gli esperti fanno notare che le difficoltà diverse
incontrate dai soggetti considerati handicappati durante il tempo della
frequenza scolastica non fanno che aggravare e rendere problematico il
loro passaggio alla vita lavorativa. Se poi viene a mancare l'opportunità
di inserimento lavorativo, c'è il rischio che vadano dispersi gli apprendimenti
in termini cognitivi e di socializzazione guadagnati negli anni della
scuola; che ritornando a vivere entro le pareti domestiche il disabile
regredisca; che la famiglia torni ad essere lasciata sola, ad affrontare
i problemi dell'assistenza e della riabilitazione (12).
Tentazioni emarginanti. Come abbiamo visto, il concetto di persona
è multiforme e plurale: i termini costitutivi sono la singolarità, la
razionalità intesa come direzione di senso e apertura al progetto di vita,
e la relazionalità (13). L'identità, la differenza e la storicità della
persona vengono a coniugarsi con la relazione e la partecipazione alla
vita sociale e scolastica. Ci soffermiamo su questo argomento, in controtendenza
ad un luogo comune ancora troppo diffuso nell'immaginario collettivo,
nonostante la ormai trentennale tradizione di integrazione dei disabili
nella scuola e nella società. La questione dei rapporti tra individui
cosiddetti normali e individui definiti diversi si è manifestata,
e ancora si manifesta, con molteplici sfaccettature. Storicamente ci sono
state e ci sono tendenze ad annullare le diversità personali, in nome
di istanze di omologazione e di uniformità, ritenute meglio confacenti
a conseguire traguardi di efficienza e di efficacia. Ci sono all'opposto
rivendicazioni tese ad accentuare marcatamente le singolarità di alcune
categorie di deficit – ad esempio la sordità, o la sindrome di Down -
quasi identificassero una particolare etnia, che l'integrazione rischierebbe
di disperdere.
Canevaro ha eloquentemente definito questi atteggiamenti con l'espressione
"ipertrofia identitaria" (14). Periodicamente tornano alla ribalta isolate,
anacronistiche nostalgie che considerano l'inclusione dei soggetti in
situazione di handicap inutile o dannosa. Il fatto è che la relazione
con la diversità legata al deficit impone "l'incontro col limite", che
è componente - per quanto dinamica - tuttavia necessaria della condizione
umana. Dice Montobbio che "nel nodo dell'incontro col limite troviamo
contemporaneamente i sentimenti del coraggio e del rischio ma anche quelli
della rassegnazione e della rinuncia" (15), dell'assenza di speranza e
dell'illusione negata: messaggi dissonanti, a doppia banda. La disponibilità
a riconoscere ed accettare il limite, a incontrare la pena mantenendo
la speranza, a intrattenere solidaristiche relazioni di aiuto, a chiedere
e offrire sostegni concreti a chi ci sta accanto, a concretizzare questi
atteggiamenti in un realistico progetto esistenziale da condividere con
gli altri è cosa che, in varia misura, riguarda la generalità delle persone.
Per quanto difficile da accettare, la "lezione" del contatto con il limite
appartiene alla storia di ciascuno. Ricorda Morin: «C'è già nell' "io
sono me" una dualità implicita: il soggetto è nel suo sé potenzialmente
altro pur essendo se stesso. È perché il soggetto porta l'alterità
in se stesso che può comunicare con l'altro. […] La comprensione permette
di considerare l'altro non solo come ego alter, un altro individuo
soggetto, ma anche come alter ego, un altro me stesso con cui comunico,
simpatizzo, sono in comunione. Il principio di comunicazione è dunque
incluso nel principio d'identità e si manifesta nel principio di inclusione»
(16).
Aveva già spiegato Gilbert: "L'esperienza dei bambini-lupo ce lo insegna:
la persona umana non accede a se stessa quando si trova abbandonata in
una solitudine perfetta. […] Non diremo che la persona risulta dalla società,
ma che accede alla propria identità personale grazie alle sue relazioni
interpersonali o sociali. […] perché io sia me stesso, tu devi essere
qui, al mio fianco, e limitarmi radicalmente. La persona e la comunità
umana si danno insieme, contemporaneamente" (17). Molto prima di lui,
quasi quarant'anni or sono, il religioso francese Bissonnier, aveva profeticamente
compreso che l'educazione dei soggetti "subnormali" – così all'epoca venivano
denominate le persone con minorazione intellettiva – deve avvenire nel
contesto di normalità. Partire dal soggetto vuol dire, infine, sapere
che questo soggetto vive in una comunità ed è una persona. L'educazione
dovrà dunque essere comunitaria e personalizzata insieme. […] Come è stato
sovente ricordato, unità e diversità non sono infatti assolutamente dei
concetti contraddittori, ma, al contrario, sono complementari e si richiamano
reciprocamente. […] Questo personalismo comunitario, nel quale la persona
fiorisce tanto meglio quanto più è unita alla comunità e nel quale la
comunità stessa è tanto più unita quanto più sono differenti le persone
che la compongono, questo personalismo comunitario deve essere realizzato
a tutti i livelli, dalla cellula familiare all'organizzazione delle Nazioni
Unite, passando attraverso tutte le comunità intermedie (18).
Lo scopo fondamentale del vivere sociale è quello di aiutare la vita,
dovunque, in tutti, di più in coloro che trovano nel vivere la massima
difficoltà. Là dove le possibilità personali sono ridotte o divergenti,
occorre muovere qualche passo in più dal versante familiare, sociale,
sanitario, e in modo particolare scolastico, vista la finalità educativa
di questa istituzione; occorre allestire o potenziare servizi comunitari
formali ed informali, coordinarli in rete, stimolare nuove risorse, offrire
supporti personali e materiali, nell'ottica di considerare il minore disabile
e la sua famiglia come protagonisti attivi dell'intervento (19). Infatti,
la possibilità di esercizio di competenza, di offrire risorse oltre che
riceverne, è una delle due gambe su cui il benessere personale è obbligato
a camminare. L'accettazione del diverso trova nel processo di comunicazione
una soglia ineludibile: le principali difficoltà di interazione con i
disabili, specie con quelli in situazione di gravità, si concretizzano
come ostacoli comunicativi. "La parola è apertura, disvelamento del mondo
interno e prerequisito per un coinvolgimento sempre più personale
e autentico in quello esterno. È la parola, nella sua dinamica
di graduale punto focale delle motivazioni intrinseche della persona ad
essere, a sapere, a saper-fare, che arricchisce ordinatamente l'esperienza
umana" (20). Come sappiamo, nel rapporto tra il dottor Itard e il selvaggio
dell'Aveyron, il medico ha riconosciuto veramente l'umanità del ragazzo
nel momento in cui questi ha dimostrato di intendere il messaggio dell'adulto,
e di sapervi rispondere ricorrendo a gesti e a suoni intenzionali (..).
Di fronte alla eventuale impossibilità della persona disabile ad utilizzare
la parola parlata, molti educatori e insegnanti non si arrendono, ma danno
vita a un percorso di ricerca che li porta gradualmente a scoprire altri
canali di comunicazione e di espressione, che arricchiscono tutto il gruppo
di nuove conoscenze: la gestualità, la drammatizzazione, il disegno, la
pittura, la musica, la manipolazione. In una realtà scolastica in cui
l'espressione non verbale è ancora troppo trascurata, questo apporto caratteristico
della pedagogia speciale deve essere sottolineato e apprezzato, per le
ricadute cognitive, oltre che sociali, per l'intera collettività dei compagni
di scuola.
1) E. Claparède (1920), La scuola su misura, La Nuova Italia, Firenze
1952, pp. 43-45.
2) M. Baldacci, L'istruzione individualizzata, La Nuova Italia,
Firenze 1993, pp. 10-11.
3) R. Zazzo-Équipe HHR, (1968), I deboli mentali, SEI, Torino 1974.
4) J. Maritain (1943), L'educazione al bivio, La Scuola, Brescia
1961, pp. 20-21.
5) G. Vico, Handicappati, La Scuola, Brescia 1984, p. 127
6) S. Moravia, Il ragazzo selvaggio dell'Aveyron. Pedagogia e psichiatria
nei testi di J. Itard, Ph. Pinel e dell'anonimo "Décade", Laterza,
Bari 1972.
7) Si ringrazia l'insegnante specializzata di scuola dell'infanzia Piera
Turco, per la preziosa collaborazione nell'aver accettato di narrare la
sua esperienza professionale
8) G. Vico, op. cit., p. 82.
9) "Raccomandazioni per l'attuazione delle indicazioni nazionali per i
Piani di studio personalizzati nella scuola primaria", in Annali dell'Istruzione,
n. 5-6, cit., p. 142
10) G. Vico, Scienze pedagogiche e orizzonti educativi, LED, Milano
1997, p. 263.
11) Ibidem, pp. 255-256
12) C. Selleri, "Ma per gli handicappati non basta il bla, bla", in Scuola
e professione, anno X, n. 5, ottobre 1982
13) V. Melchiorre, Essere e parola, cit., p. 54.
14) A. Canevaro, Pedagogia speciale, cit., p. 77.
15) E. Montobbio-C. Lepri, Chi sarei se potessi essere, Edizioni
del Cerro, Pisa 2000, p. 62.
16) E. Morin, La testa ben fatta, cit., p. 132.
17) P. Gilbert, "Differenza e persona", in AA.VV., L'idea di persona,
Vita e Pensiero, Milano 1996, p. 97.
18) H. Bissonnier (1959), Pedagogia di risurrezione, Leumann, Elle
Di Ci, Torino 1966, pp. 51-52.
19) M. Pavone, "La rete", in M. Pavone-M. Tortello, Pedagogia dei genitori,
Paravia, Torino 1999, pp. 309-342.
20) G. Vico, Scienze pedagogiche, cit., p. 279
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