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L'amore politico
Sulla via della nonviolenza con Gandhi, Capitini e Levinas

Roberto Mancini

collana Orizzonti nuovi

pp. 296
Euro 15.90
Il volume, rivolto non alle tecniche della nonviolenza ma alle implicazioni antropologiche, etiche e politiche della sua verità di fondo, punta a mostrare come l'amore interpersonale possa e debba essere dilatato in forme collettive.

Paola Mancinelli presenta "L'amore politico" di Roberto Mancini

Una suggestiva proposta filosofica e' quella di Roberto Mancini, docente di ermeneutica filosofica presso l'Universita' di Macerata, il cui fascino consiste nell'aver correlato diverse fonti, non gia' proponendo una sintesi, ma cercando di mantenere la tensione dialogica, cosi' che esse possono coabitare, secondo il valore etico del termine, dando forma ad una mondialita' riscattata da possibili tentazioni di supremazia culturale.
Gia' il titolo ci sembra importante in quanto dice di un'eccedenza sulla scorta di una mancanza, facendo in modo che il filosofare mai pago del per se notum, divenga una sorta di freccia scoccata verso la sempre nuova possibilita' del pensare. L'eccedenza nasce dall'intenzionalita' politica assunta dalla parola amore, che traduce, in tal modo, una prassi di emancipazione e di responsabilita' come legame ontologico in avanti, ovvero verso la generativita' incessante dell'essere umano alla relazione con la verita'; ma anche all'indietro, perche' permette di riscattare la memoria delle vittime di violenze e guerre od oppressioni, cosi' che esse non siano piu' mute, ma pienamente compartecipi di questo novum da pensare e da sperare. La mancanza, al contrario nasce dal fatto che il termine traduce la nonviolenza gandhiana.
Qui va subita denunciata un'impotenza lessicale, che, dopo la svolta linguistica, denota una sorta di malattia ontologica: quella stessa che Levinas ha contrassegnato come pensiero della medesimezza, ossessionato dall'alterita' per cui nutre una sorta di allergia. Si e' normalmente fatto ricorso ad un termine negativo per identificare una categoria del tutto positiva. Ora, pero', tale impotenza crea una nuova grammatica generativa non solo del filosofico ma dell'umano tout court.
Mancini interpella Levinas in questo percorso ed il fatto che il filosofo ebreo-francese sia collocato alla fine dice, a nostro avviso, di come egli abbia invitato la filosofia a recuperare criticamente il suo inizio pensandolo altrimenti, ovvero in maniera da mantenere una tensione con l'altra sua fonte, quella ebraica; tuttavia la fedelta' al suo pensiero esige anche che questo altrimenti pensare si sviluppi fino a dialogare con istanze del tutto nuove.
Questo pensiero e' quindi arrischiato sull'enigma della sua origine, ma senza malia dell'anamnesi; paradossalmente l'origine trova la sua coniugazione solo nel futuro, cosi' che la sua topologia si estende sui due perni dell'immemoriale e della promessa, nonche' su quello dell'oggi messianico e della visione fondata sulla speranza. C'e' un filo rosso che lo percorre interamente, ed e' quello della redenzione come il non-ancora che rende possibile questo coabitare; come scrive lo stesso filosofo maceratese a p. 69: "La vera visione e' attesa della redenzione". Voci della teologia politica e della speranza echeggiano all'unisono con quelle della teoria critica della Scuola di Francoforte, la cui convergenza e' la possibilita' di una coappartenenza all'Invisibile che non puo' non rigenerare anche quei rapporti e quelle ferite che hanno inferto dei colpi alla dignita' umana ed al suo legame con la verita'. Mancini, seguendo Gandhi, parla di una continuita' con la propria storia interiore per cui chi e' capace di nonviolenza non ha distrutto la propria infanzia, e questo ha chiare assonanze evangeliche traducibili come prassi politica.
C'e' dell'altro, pero', notevolissimo da un punto di vista filosofico, quanto di grande incidenza a livello antropologico. Questo pensiero ha perso il fondamento, intendendo per fondamento quell'ubi consistam incontrovertibile ed oggettivante refrattario al tempo umano ed alla relazione, eppure ha guadagnato una fondazione altrettanto incontrovertibile dal punto di vista epistemologico da ravvisare nell'eccedenza della speranza che permette di leggere la vita activa come agire simbolico ed intenzionale il cui riempimento di senso e' dato proprio da quanto e' sperato. Una fondazione, dunque, guadagnata ex post attraverso una suggestiva analogia trascendentale per cui l'ingiustizia e l'oppressione non devono poter essere l'ultima parola. La ricaduta antropologica e' indubbia: la comunione dei volti come tensione escatologica che permette di pensare scenari di pace in nome della responsabilita', l'esperienza dell'essere sempre rigenerati alla Verita' come possibile trasformazione interiore che mi fa essere testimone della sua eccedenza e mi convoca alla liberta' dell'impegno in un mondo comune e liberato dal dominio, la certezza di un dover essere che interrompendo la chiusura del fenomenico schiude il gia'-non-ancora della sua redenzione. Riteniamo che Mancini ci offra una suggestiva pista per ripensare la politica come sogno di un mondo comune e di un possibile ordo amoris dove anche una categoria come la xeniteia diviene sua riserva critica e suo compimento.

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