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Gabriella Caramore,
La fatica della luce. Confini del religioso
Morcelliana, Brescia, 2008, pp. 256, Euro 16.00
www.morcelliana.com
L’esperienza religiosa è anche un viaggio: allontanarsi da ciò che è
noto verso qualcosa che da un lato attrae, «chiama», dall’altro persiste
nella sua lontananza, nel suo enigma. Ma un viaggio è innanzitutto un
lavoro su di sé, uno «straniarsi» per esporsi ad altro. Appunto, una «fatica»
come quella che si fa «luce» - che dà il titolo a questo libro – per illuminare
il mondo. Un percorso lungo i confini, incerti, tra credenti e non credenti,
investigando luoghi della Bibbia, eventi della vita, del nascere, del
morire e figure del linguaggio e dell’arte. Un libro di domande sul religioso
– chi è il Dio sconfitto? cosa significa sperare?, come essere liberi?
– poiché, osserva l’autrice, solo nell’ostinazione di questo insonne interrogare
si conserva l’umano. Un libro di formazione; un compito sempre da ricominciare,
mai concluso.
GABRIELLA CARAMORE è autrice, dal 1993, della trasmissione di cultura
religiosa di Radio Tre «Uomini e profeti». Dirige l’omonima collana presso
la Morcelliana. Ha curato l’edizione italiana di opere di V. Segalen (Il
doppio Rimbaud, Milano 1979), G. Lukács (Diario 1910-11, Milano
1983), Endre Ady (Poesie, Reggio Emilia, 1985), Y. Bonnefoy (L’impossibile
e la libertà, Genova 1988; Entroterra, Roma 2004), Sergio Quinzio
(Mi ostino a credere, Brescia 2006).
La recensione del teologo valdese Paolo Ricca
Molti lettori di Riforma conoscono – mi auguro – Gabriella Caramore grazie
alla rubrica di Radiotre Uomini e Profeti, che lei dirige da quindici
anni, settimana dopo settimana (due trasmissioni: una il sabato mattina,
sull’attualità religiosa, intitolata «Domande»; l’altra la domenica mattina,
tematica, intitolata «Letture»). Si tratta della migliore trasmissione
religiosa diffusa oggi in Italia dai mezzi di comunicazione di massa,
pubblici e privati. È anche l’unica sede – ripeto: l’unica – che dia voce
alle minoranze religiose presenti nel nostro paese.
Ma perché Uomini e Profeti è una trasmissione così seguita e apprezzata?
Perché si occupa di Dio e dell’uomo (non di uno senza l’altro) senza paraocchi
confessionali e senza pagare tributi all’Istituzione (ecclesiastica o
di altro genere), muovendosi in ampi spazi aperti, liberamente e laicamente,
frequentando con amore e rigore i grandi testi religiosi dell’umanità,
senza però ignorare o addomesticare sia le grandi domande che da sempre
albergano nel cuore dell’uomo, sia quelle che via via emergono dalla storia
nella quale siamo immersi. Uomini e Profeti piace perché non confonde
Dio con la chiesa (virtù rara nel nostro clericale paese), né la fede
con il dogma. Gabriella Caramore, poi, eccelle nell’arte del dialogo,
così difficile, così vitale. Sa ascoltare (virtù anche questa rara nel
nostro retorico paese) e sa porre le domande scomode ma utili a far avanzare
il discorso nella ricerca paziente di una verità che ci supera e al tempo
stesso ci attrae e invita a sé, essendo la ricerca stessa un pezzo – se
così posso dire – della verità cercata.
Ora è possibile conoscere Gabriella Caramore più da vicino ancora, non
solo attraverso l’ascolto della sua trasmissione, ma attraverso le pagine
di un libro, intitolato La fatica della luce. Confini del religioso, uscito
nell’aprile di quest’anno*. È il suo primo libro, anche se ne ha già curati
molti, ma di altri autori. Il titolo – leggiamo nella «Premessa» al volume
– è ispirato da un passo dell’Ecclesiaste in cui si dice che «la luce
è dolce», ma che «i giorni delle tenebre saranno molti» (11, 7-8), «rendendo
manifesta – scrive l’autrice – la fatica che la luce fa per stendersi
sul corpo del mondo». Come spiegare questa fatica? È perché le tenebre
sono comunque più forti e l’uomo ama le tenebre più della luce e quindi
la luce, alla fine, non ce la fa, oppure è perché la luce rinuncia volutamente
al suo splendore e si offre a noi smorzata per non abbagliarci e lasciarsi
vedere «da quell’impasto di fango e di soffio che è l’essere umano» senza
accecarlo? L’autrice pone la domanda, senza fornire la risposta, che spetta
semmai al lettore. Sappiamo del resto che una buona domanda avvicina di
più alla verità di una risposta improvvisata o di comodo. L’autrice non
spiega la fatica della luce, la descrive però benissimo nei cinque capitoli
che compongono il volume, impreziosito da quattro tavole a colori sapientemente
scelte per dipingere, oltre che descrivere, la fatica della luce, e forse
anche per accennare, molto discretamente, alla sua vittoria, come nell’acquarello
d’apertura di J. M. W. Turner che raffigura una Venezia che, accarezzata
dalla luce mite dell’aurora, emerge come una dea dai vapori delle acque
dei suoi canali, o come nella Cena a Emmaus di Rembrandt, dove l’unica
luce è un Gesù ormai invisibile, già scomparso («egli sparì d’innanzi
a loro», dice l’evangelista Luca), ma la sua luce continua a splendere:
Gesù è scomparso, ma la sua luce no, e illumina come di giorno i volti
dei discepoli.
Che cos’è questo libro? È una sorta di Simposio del nostro tempo, il cui
tema non è l’amore come quello di Platone, ma Dio e l’uomo che si cercano
a vicenda. Intorno a questo tema Gabriella Caramore ha per così dire convocato
un gran nuvolo di testimoni, da Kierkegaard a Rilke, da Simone Weil a
Dag Hammarskjöld, da Hans Jonas a Sergio Quinzio, da Dietrich Bonhoeffer
a Emmanuel Lévinas, da Pavel Florenskij a Nelly Sachs, e molti, molti
altri – un libro corale, quindi, ma anche molto personale: i testimoni
sono tanti, ma il filo del discorso lo tiene in mano l’autrice, e il messaggio
complessivo dell’opera reca distintamente la sua impronta. Essa ci guida
in un percorso che attraversa «l’insonne interrogare dell’uomo» nella
sua ininterrotta ricerca di Dio e di se stesso, «lungo la stessa impervia,
dolente, esaltante strada».
Non è possibile riassumere un libro ricco e sostanzioso come questo. Mi
limito quindi a mettere in luce quelli che mi sembrano essere i suoi pregi
maggiori. (1) Il primo l’ho già detto: la coralità. L’autrice non pensa
e non parla da sola, ma in dialogo. L’orizzonte è dilatato, il discorso
ha un ampio respiro. (2) Alla qualità elevata della bella scrittura corrisponde
la qualità elevata del pensiero: al piacere di leggere si aggiunge così
il piacere di pensare insieme all’autrice. (3) Originale è il punto di
osservazione da lei scelto per la sua riflessione: «sul confine». Paul
Tillich, citato in apertura, lo considerava «il luogo propriamente fecondo
della conoscenza». Questo libro lo dimostra. (4) La molteplicità dei linguaggi,
alla quale un intero capitolo è dedicato, che si apre con una magnifica
meditazione sulla «poesia come preghiera». «Sul confine» tra poesia e
preghiera, tra arte e fede, tra letteratura e teologia, ma anche tra parola
e silenzio, Gabriella Caramore scopre o istituisce nessi fecondi. (5)
Infine, c’è il tema centrale del libro, che è Dio, di cui parla ogni pagina
in maniera diretta o indiretta. Gabriella Caramore non fa professione
di fede, ma si confronta animatamente con quel «Tu» immancabile in ogni
dialogo e in ogni preghiera. Lo fa con grande riguardo, misura, ma anche
segreta passione: santifica il nome di Dio senza nominarlo.
E proprio perché Dio, in questo libro, è più approdo finale che presupposto
iniziale, più promessa che possesso; proprio perché è, sì, realtà, ma
non ovvia, non scontata, non risaputa: è l’Inedito rispetto al quale tutto
è vecchio, il Nuovo che nella sua libertà sorprende e stupisce («sono
stato trovato da quelli che non mi cercavano» Romani 10, 20) – proprio
per questo La fatica della luce (che vuole anche dire: fatica della fede,
fatica dell’amore e fatica della speranza, ma l’apostolo Paolo ci ricorda
che «la nostra fatica non è vana nel Signore» – I Corinzi 15, 58!) è un
libro che può fare del bene a molti, sia a coloro che, rispetto a Dio
(e a loro stessi), hanno più domande che certezze (la luce c’è, anche
se fa fatica a prevalere), sia a coloro che, rispetto a Dio (e a loro
stessi), hanno solo certezze e nessuna domanda (la luce fa fatica a prevalere,
anche se c’è).
Infine: il libro è dedicato «ai miei genitori, che avrebbero capito».
I genitori di Gabriella Caramore non ci sono più, ma, se ci fossero, capirebbero.
È molto bello pensare così i rapporti con i genitori: generazioni diverse
che si capiscono.
tratto da: «RIFORMA» settimanale delle Chiese Evangeliche
Battiste, Metodiste, Valdesi
anno XVI - numero 28 - 11 luglio 2008, p. 5. - internet: www.riforma.it
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