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Sobrietà
Dallo spreco di pochi ai diritti per tutti
Centro nuovo modello di sviluppo
Francesco Gesualdi
Collana: Nuova Serie Feltrinelli
Pagine: 168 Prezzo: Euro 9
In breve
Dalla protesta a tutto campo alla proposta di un nuovo stile di vita
che ci induca a evitare i tanti sprechi che costellano la nostra quotidianità.
Il libro
Il mondo siede su due bombe: la crisi ambientale e quella sociale.
Mentre le risorse si fanno sempre più scarse, alcuni segnali relativi
al cambiamento del clima indicano che gli equilibri naturali si stanno
alterando in maniera irrimediabile. Nel contempo sappiamo che la maggior
parte della popolazione terrestre non riesce a soddisfare neanche i bisogni
fondamentali: il cibo, l’acqua potabile, il vestiario, l’alloggio, l’istruzione
di base. Ci troviamo di fronte a un dilemma angosciante: più crescita
economica per uscire dalla povertà o meno crescita economica per salvare
il pianeta? C’è un modo per coniugare equità e sostenibilità. La soluzione
sta nel fatto che i popoli ricchi si convertano alla sobrietà, ossia accettino
uno stile di vita, personale e collettivo, più parsimonioso, più pulito,
più lento, più inserito nei cicli naturali, in modo da lasciare ai poveri
le risorse e gli spazi ambientali di cui hanno bisogno. Varie esperienze
individuali e di gruppo dimostrano che la sobrietà è non solo possibile
ma anche liberatoria. Ma la sobrietà preoccupa per i suoi risvolti sociali.
In primo luogo l’occupazione. Se consumiamo di meno, come creeremo nuovi
posti di lavoro? Se produciamo di meno, guadagnando quindi di meno, chi
fornirà allo stato i soldi necessari a garantire istruzione, sanità, viabilità,
trasporti pubblici? In conclusione, è possibile vivere bene con meno?
È possibile coniugare sobrietà con piena occupazione e garanzia dei bisogni
fondamentali per tutti? È possibile passare dall’economia della crescita
all’economia del limite, facendo vivere tutti in maniera sicura? Questo
libro dimostra che è possibile purché si mettano in atto quattro rivoluzioni
che riguardano stili di vita, produzione e tecnologia, lavoro ed economia
pubblica.
Dal Capitolo 1,
Squilibri scandalosi Una volta tanto svègliati dall’apatia e imponiti
un sussulto di dignità. Scrollati di dosso la scimmia dell’indifferenza.
Liberati dalle frivolezze della televisione. Vai oltre il provincialismo
imposto dalla grande stampa. Dai un calcio alla retorica del nazionalismo,
del patriottismo, del militarismo e altri rigurgiti fascisti. Torna a
pensare con la tua testa e guarda il mondo in faccia in tutta la sua realtà.
Allora scoprirai che l’umanità sta vivendo il più grave scandalo della
sua storia. Mai ha prodotto tanta ricchezza, mai ha creato tanta povertà.
Poveri in casa dei ricchi Che viviamo in un mondo ricco, non abbiamo
bisogno che ce lo raccontino. Basta guardarci allo specchio, mettere la
testa nei nostri guardaroba, nei nostri frigoriferi, nei nostri garage,
nelle nostre pattumiere. Se facessimo attenzione al nostro stile di vita
ci renderemmo conto di vivere addirittura nell’opulenza e nello spreco.
Ignoriamo, però, che è una condizione di privilegio riservata a pochi.
La povertà sta entrando a passi da gigante anche nelle nostre società
opulente e non colpisce solo gli immigrati clandestini, ma i nostri stessi
connazionali. Le statistiche ci dicono che in Italia la povertà riguarda
quasi il 12% della popolazione per un totale di sette milioni di persone.
Ma la Cgil ritiene che siano molti di più perché, ci avverte, ci sono
tre milioni di lavoratori che guadagnano meno di ottocento euro al mese
e altri tre che ne guadagnano meno di mille. Nella vecchia Europa dei
quindici, i poveri sono 55 milioni pari al 14% della popolazione, mentre
negli Stati Uniti sono 49 milioni e nell’Europa dell’Est addirittura 157
milioni. Sommati a quelli del Giappone e dell’Australia fanno 283 milioni,
pari al 23% della popolazione dei paesi industrializzati. Per chi la vive,
la povertà non ha bisogno di molti aggettivi. Ma chi la studia ha bisogno
di sezionarla, misurarla, classificarla. Per esempio, la povertà che si
incontra nella nostra parte di mondo è definita povertà relativa
per indicare che è il risultato di un confronto. Più precisamente, si
considera povero chiunque sia nell’impossibilità di andare oltre il 50%
dei consumi medi. Un caso è rappresentato dalle famiglie di due persone
con entrate inferiori agli ottocentosettanta euro al mese. La categoria
dei poveri è molto vasta e comprende disoccupati, anziani con pensioni
insufficienti, bambini senza famiglia, malati psichici abbandonati. Alcuni
si trovano in condizione di povertà strisciante, mentre altri fanno addirittura
la fame. La Fao, l’agenzia delle Nazioni unite per l’agricoltura, ci ricorda
che nel mondo opulento ben dieci milioni di persone soffrono la fame.
Camminando per le città, capita anche a noi di vedere senzatetto che frugano
nei bidoni della spazzatura in cerca di avanzi di cucina. Ma al colmo
del paradosso, la povertà si manifesta anche con il volto dell’obesità,
sintesi perfetta di quattro privazioni: la mancanza di istruzione, la
mancanza di senso critico, la mancanza di dignità e la mancanza di denaro.
L’obesità è emblema del consumismo a buon mercato di chi può ingozzarsi
solo di cibo spazzatura confezionato con le peggiori porcherie salvacosti.
[…]
Francesco Gesualdi presenta Sobrietà
a cura della redazione di www.feltrinelli.it
Nel tuo libro proponi una scelta apparentemente semplice e comunque condivisibile,
quella di uno stile di vita improntato alla sobrietà. Ci puoi spiegare
in breve la tua proposta?
La sobrietà è uno stile di vita, personale e collettivo, più parsimonioso,
più pulito, più lento, più inserito nei cicli naturali. La sobrietà è
più un modo di essere che di avere. E' uno stile di vita che sa distinguere
tra i bisogni reali e quelli imposti. E' la capacità di dare alle esigenze
del corpo il giusto peso senza dimenticare quelle spirituali, affettive,
intellettuali, sociali. E' un modo di organizzare la società affinché
sia garantita a tutti la possibilità di soddisfare i bisogni fondamentali
con il minor dispendio di risorse e produzione di rifiuti. In ambito personale,
la sobrietà si può riassumere in dieci parole d'ordine: pensare, consumare
critico, rallentare, ridurre, condividere, recuperare, riparare, riciclare,
consumare locale, consumare prodotti di stagione. Naturalmente non dobbiamo
limitarci a rivedere i nostri consumi privati, ma anche quelli collettivi
perché anche fra questi ce ne sono di dannosi e di superflui. Di sicuro
dovremo eliminare gli armamenti, ma dovremo anche sprecare meno energia
per l'illuminazione delle città, dovremo accontentarci di treni meno veloci
e meno lussuosi, dovremo costruire meno strade. Perfino in ambito sanitario
dovremo diventare più sobri affrontando la malattia non solo con la scienza,
ma anche con una diversa concezione della vita e della morte, in modo
da evitare l'accanimento terapeutico e l'eccessiva medicalizzazione di
eventi naturali come la vecchiaia.
Rinunciare al superfluo, ma anche ragionare più analiticamente su tutto
ciò che compone la nostra quotidianità, per la gente può sembrare uno
sforzo straordinario. E' molto difficile cambiare gli stili di vita e
le abitudini...
Dovremmo riflettere di più sui risvolti negativi del consumismo. Un aspetto
che non consideriamo mai è il tempo. Prima di tutto quello che passiamo
al lavoro per guadagnare i soldi necessari per i nostri acquisti. Prendiamo
come esempio l'automobile. Secondo un rapporto dell'Aci pubblicato nel
gennaio 2004, mediamente il possesso dell'auto costa 4.414 euro all'anno.
Qualcosa come 500 ore di lavoro secondo i salari medi. Se ci aggiungiamo
il tempo passato nel traffico, quello che serve per cercare un parcheggio
e per la manutenzione, l'automobile assorbe ogni anno un migliaio di ore
della nostra vita. Se facciamo lo stesso calcolo per tutti gli altri beni
ci accorgiamo che viviamo per consumare. Consideriamo che di media ogni
casa dispone di 10.000 oggetti, contro i 236 che erano in uso presso gli
indiani Navajos. Per ognuno di essi dobbiamo lavorare, recarci al supermercato,
sceglierlo, fare la coda alla cassa. Una volta a casa, dobbiamo pulirli,
spolverarli, sistemarli. Se consideriamo tutto, il superconsumo è un lavoro
forzato che ci succhia la vita. Un altro aspetto da tenere presente sono
i rifiuti. In Italia se ne producono circa 120 milioni di tonnellate,
di cui 90 industriali e 30 urbani. Ogni individuo produce mezza tonnellata
di rifiuti domestici all'anno e nove tonnellate di gas serra. L'inquinamento
atmosferico ha il difetto di essere invisibile, mentre i rifiuti solidi
li depositiamo per strada e li dimentichiamo. Ma prima o poi ci presentano
il conto. Il cambiamento del clima è già una drammatica realtà. Potremmo
continuare con le risorse. La base biologica del pianeta, su cui poggia
la nostra esistenza, si sta assottigliando di giorno in giorno. L'acqua,le
foreste, i pesci, i suoli sono elementi già fortemente compromessi. Perfino
le risorse minerarie danno segni di scarsità. Primo fra tutti il petrolio
per il cui controllo siamo tornati a combattere guerre di tipo coloniale.
Nella tua proposta un ruolo importante viene assegnato all'ambito della
produzione locale, con una inedita rivalutazione di lavori e professioni
di tipo artigianale, in grado di sopperire a eventuali cali occupazionali.
Ci puoi spiegare meglio questo aspetto?
Apparentemente la sobrietà è solo una questione di stile di vita. In realtà
è una rivoluzione economica e sociale perché manda in frantumi il principio
su cui è costruito l'intero edificio capitalista. E' il principio della
crescita, invocato non solo dalle imprese, ma anche da chi si batte per
i diritti, in base al credo che senza crescita non può esistere sicurezza
sociale né piena occupazione. Fino ad oggi nessuno ha osato mettere in
discussione questo dogma e stiamo affogando nella nostra opulenza iniqua
e violenta. Ma se riuscissimo ad avere un'altra concezione del lavoro,
della ricchezza, della natura, della solidarietà collettiva, ci renderemmo
conto che è possibile costruire un'altra società capace di coniugare sobrietà,
piena occupazione e diritti fondamentali per tutti. In questa prospettiva
l'economia locale assume un ruolo centrale per tre ragioni. La prima è
di tipo energetico. Dobbiamo risparmiare carburante, perciò dobbiamo avvicinare
la produzione al consumo. Inoltre dobbiamo sfruttare l'energia rinnovabile
che per definizione è una risorsa diffusa da sfruttare su base locale,
addirittura individuale. Dovremo dire addio alle megacentrali che producono
energia elettrica per intere nazioni e dovremo abituarci ad un pullulare
di microcentrali che producono per le singole famiglie o per le singole
imprese. In altre parole dovremo trasformarci da consumatori in prosumatori.
Gente, cioè, che al tempo stesso produce e consuma in un rapporto di scambio
continuo con la rete, di cui a volte si è fornitori, a volte fruitori.
La seconda ragione è di tipo ambientale. Un tempo, quando il pane era
fatto col grano del luogo, quando i pesci erano pescati nel fiume che
attraversa la città, quando ci si scaldava con la legna dei boschi circostanti,
ci prendevamo cura dei suoli, delle acque, dei boschi perché sapevamo
che la nostra vita dipendeva dalla loro integrità. Oggi, invece, che il
nostro benessere si fonda su oggetti comprati al supermercato e provenienti
da chissà dove, non ci preoccupiamo se i fiumi sono delle fogne, se i
terreni si impoveriscono o se scarseggia l'acqua per irrigare. Solo tornando
ad avere un rapporto intimo col nostro territorio capiremo quanto sia
importante prenderci cura di lui. Allora analizzeremo ogni collina per
valutare se può accogliere generatori a vento. Selezioneremo ogni rifiuto
per evitare la presenza di discariche disgustose. Cementificheremo il
meno possibile per rispettare i terreni agricoli. Ripuliremo ogni bosco
per evitare incendi e raccogliere meglio i suoi frutti. Doteremo ogni
zona rurale di servizi pubblici essenziali per trattenere la gente. Svilupperemo
le coltivazioni tradizionali e ogni possibile attività artigianale e manifatturiera
in base alle specificità del territorio. La terza ragione è di tipo occupazionale.
Oggi aspettiamo che siano le multinazionali ad aprire delle fabbriche,
che magari fanno funzionare con semilavorati importati dall'altra parte
del mondo, o ad avviare delle piantagioni, che magari coltivano con semi
geneticamente modificati. Ma le multinazionali adottano la politica del
mordi e fuggi: investono il meno possibile e si fermano nello stesso posto
finché ci sono risorse da saccheggiare e manodopera da sfruttare. Poi
se ne vanno, noncuranti dei disastri ambientali e della disoccupazione
che lasciano dietro di sé. L'alternativa al caos disfattista delle multinazionali
è il ritorno all'economia locale. Le nostre regioni, con i loro boschi,
i loro terreni, i loro laghi, i loro fiumi, le loro pianure, le loro colline,
i loro mari, le loro spiagge, i loro pascoli, i loro saperi, conservano
tesori nascosti che potrebbero garantire un'occupazione stabile a tantissima
gente. Si tratta solo di valorizzarli garantendo ovunque i servizi essenziali
come la scuola, la sanità di base, le comunicazioni, l'assistenza tecnica
affinché la vita possa essere dignitosa anche nei luoghi più remoti. E
naturalmente si tratta di garantire uno sbocco di mercato, sicuro, intramontabile.
E' il mercato locale sostenuto da una nuova consapevolezza dei consumatori
e da adeguate leggi e misure fiscali.
Nel libro, accenni al ruolo importante che dovrebbe giocare lo stato.
Una sorta di nuovo welfare, incentrato sull'accudimento e l'aiuto svolto
dalle comunità locali per permettere il mantenimento di strutture di utilità
sociali quali ad esempio gli ospedali e le scuole. Ci puoi spiegare meglio
questo aspetto? Questa tua consapevolezza deriva forse dalle esperienze
attuate dalle banche del tempo, già presenti sul territorio nazionale
e non solo?
Preferisco parlare di comunità, piuttosto che di stato. Lo stato è un
concetto di tipo mercantile. E' un corpo a se stante a cui si chiedono
servizi in cambio di tasse. Pur essendo di tutti, non te lo senti tuo,
perché il rapporto è mediato esclusivamente dal denaro. Invece dobbiamo
recuperare l'idea di comunità, un gruppo sociale di cui ci si sente parte
integrante, perché si hanno legami che vanno oltre il denaro. Sostengo
questa posizione non solo per una questione di democrazia e di partecipazione,
ma anche di efficienza. Oggi i bisogni sociali sono così vasti che ci
vorrebbe un esercito per soddisfarli. Per di più i governi trovano mille
pretesti per tagliare le spese sociali. Ed è uno scandalo. Ma neanche
l'economia più forte potrebbe raccogliere tasse sufficienti per pagare
gli stipendi a centinaia di migliaia di operatori. Meno ancora ne potrebbe
raccogliere un'economia che si ispira alla sobrietà. L'alternativa è la
partecipazione diretta ai servizi da parte dei cittadini. La tassazione
del tempo, invece della tassazione del reddito. Del resto, in ambito sociale
non ci vogliono sempre dei professionisti con anni di studio sulle spalle.
In molti casi basta la piccola solidarietà diffusa a livello di quartiere.
Nel caso degli anziani basterebbe che le famiglie di ogni condominio si
facessero carico delle due o tre coppie non più autosufficienti. Che si
organizzassero a turno per preparare i pasti, per tenere le loro case
in ordine, per fare la spesa, per aiutarli a farsi il bagno. In una parola
basterebbe riattivare la politica del buon vicinato in uso nei caseggiati
di una volta. Riattivarla e riconoscerla come servizio sociale. Lo stesso
riconoscimento che andrebbe dato al lavoro svolto fra le mura di casa.
I figli sono il fondamento del domani ed è interesse di tutti che crescano
sani, equilibrati e ben educati. Il patto fra comunità e cittadini potrebbe
essere semplice. Ogni adulto mette a disposizione 10 giorni al mese, o
quello che sarà, e in cambio si aggiudica il diritto, per sé e i propri
familiari, ad accedere, gratis, a tutti i servizi pubblici. Non più ticket
sulla sanità. Non più tasse di iscrizione a scuola. Non più biglietti
per gli autobus di città e per i treni interregionali considerati trasporti
essenziali. Ma un'economia pubblica che si rispetti dovrebbe produrre
anche energia elettrica, dovrebbe gestire acquedotti e fogne, dovrebbe
produrre alimenti di base, dovrebbe produrre vestiario essenziale e molti
altri prodotti di prima necessità. Dunque il patto dovrebbe anche includere
il pagamento, ad ogni membro della comunità, di un assegno mensile per
l'acquisto dei beni e servizi essenziali acquistabili in quantità variabili.
Una sorta di reddito di esistenza, di reddito di cittadinanza garantito
a tutti, abili e inabili, uomini e donne, ricchi e poveri, dalla culla
alla tomba. Con un colpo solo risolveremmo anche il problema delle pensioni
che oggi viene fatto passare come la rovina della società. A prima vista,
l'idea della partecipazione diretta ai servizi pubblici può sembrare bizzarra,
ma pensandoci bene non è una grande novità. Un rapporto pubblicato dalle
Acli nel giugno 2003, ci rivela che il 50% degli italiani si impegna nel
volontariato. Chi per imboccare gli ammalati, chi per spegnere gli incendi,
chi per ripulire le spiagge, chi per raccogliere feriti, chi per servire
la minestra nella mensa dei poveri. E il volontariato cos'è, se non un
servizio gratuito messo a disposizione della collettività?
Come intendi il rapporto tra piano globale e locale?
Per regioni di sostenibilità, di partecipazione e di democrazia, sono
convinto che dobbiamo valorizzare il locale sul globale. Ma ciò non significa
opposizione a qualsiasi accordo planetario. Proprio chi ha a cuore le
sorti del pianeta insiste sulla necessità di un livello decisionale mondiale.
Il problema è per che cosa e da parte di chi. Il sistema lavora in maniera
autoritaria per un ordine mondiale al servizio delle multinazionali e
dei paesi forti. Noi vogliamo lavorare in maniera democratica per un ordine
mondiale al servizio dell'equità, dei diritti, della pace, dei beni comuni.
Il sistema stipula accordi per garantire l'espansione degli affari. Noi
vogliamo accordi per garantire un uso equo delle risorse, per proteggere
il clima, i mari, le foreste, per garantire relazioni economiche rispettose
dei diritti dei deboli. Se qualcuno pensa di potere fare politica senza
occuparsi del globale è sconfitto in partenza. Ma si può fare politica
globale proprio partendo dal locale. Molti accordi stipulati in seno all'Organizzazione
Mondiale del Commercio (WTO) hanno una ricaduta capillare che condiziona
anche le scelte delle amministrazioni comunali e regionali. Basti pensare
all'Accordo sui servizi. Se questo accordo verrà perfezionato, diventerà
obbligatorio lasciare il libero ingresso alle multinazionali in servizi
di utilità pubblica come gli acquedotti, la sanità, la pubblica istruzione
e financo la viabilità. Ma c'è un modo per impedire a questo accordo di
essere attuato. La via si chiama disobbedienza civile. Se i comuni si
rifiutassero di procedere alle privatizzazioni si creerebbe una pressione
molto più efficace di qualsiasi manifestazione di piazza che obbligherebbe
il Governo e il Parlamento a riconsiderare il trattato sui servizi. Ecco
l'importanza di partecipare alla vita pubblica locale in tutti i modi
possibili: la presenza nei consigli comunali, le attività di sensibilizzazione
popolare, le campagne di pressione nei confronti dell'Amministrazione.
La parola d'ordine oggi deve essere azione contemporanea a tutti i livelli
nei confronti di tutti i poteri, con due strategie: la resistenza e la
desistenza. Frughiamo nella nostra fantasia per non lasciare niente di
intentato.
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