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Ivan
Nicoletto
Transumananze. Per una spiritualità del/nel
mutamento
Città aperta edizioni, Troina, 2008
p. 95, euro 13.50
Nulla può essere conservato se non nella trasformazione. Ogni giorno ci
è chiesto di rimettere in gioco tutto. L’umano è un cantiere aperto e
inconcluso.
In tutti gli ambiti della attività umana assistiamo a un mutamento profondo,
al passaggio da un tipo di umanità ad un altro, ad una trans-umananza.
In un panorama di mutazioni epocali, scientifiche e antropologiche, è
ancora rinvenibile lo Spirito e dove? Il cammino percorso da Ivan Nicoletto
evidenzia tre dinamiche di un processo transumanante: la prima
in cui coglie le situazioni in cui affiorano i nuovi modi di vedere e
di sentire in campo cognitivo, sociale, emotivo; la seconda in cui sente
l’affiorare di una nuova percezione della vita che connette i diversi
aspetti della realtà: umano, caosmico (caos e cosmo) e divino; la terza
in cui esamina le modalità di stare al mondo che le fratture della modernità
rendono disponibili.
Ivan Nicoletto è monaco all’Eremo di Camaldoli.
Introduzione
UN AVVIO SENSIBILE
Wolfgang Laib è creatore di una serie di opere che egli chiama Milkstones/Pietre
lattee [immagine 1 e 2]. Pietra e latte, solidità pietrosa e liquidità
lattea: materie che sembrano, di primo acchito, incompatibili l’una all’altra,
ma il cui nome provoca il balzo immaginativo di un possibile connubio,
di una paradossale com-posizione.
Una lastra di marmo bianco, quadrato o rettangolare, posa immobile sul
pavimento, offrendo allo sguardo la stabilità rassicurante della pietra.
Evoca una solidità affidabile e compatta, basamento di un progetto costruttivo,
o pagina bianca che supporta ogni iscrizione di testo o, ancora, l’immobilità
di una lapide tombale.
Avvicinandoci all’opera, ci accorgiamo con stupore che la superficie marmorea
non è così omogenea come sembrava ma suscita una crespa d’incertezza,
di perplessità. Si avverte un’impercettibile differenziazione, dai contorni
indefinibili, fra bianco e bianco. Un riflesso luminoso diverso. Scopriamo
che la superficie è stata lievemente, pazientemente incavata, per essere
ricoperta di latte. Percepiamo che il biancore liquido del latte sconfina
con quello consistente della pietra.
Laib si applica con insistita, appassionata dedizione nella levigazione
della materia, lievemente avvallandone la superficie e versandovi del
latte. Nel gesto reiterato del limare, egli fa interagire l’alterità impermeabile
della pietra liberando uno spazio accogliente. Diluisce la durezza, disarticola
le opposizioni o le definizioni nette, instaura un’oscillazione, precaria
e transitante, fra il limite liquido e quello solido, tanto da insinuare
un indugio, una sospensione nel riconoscimento dei confini: dove inizia
la solidità e dove termina la liquidità?
Prossimità dialogante degli elementi differenti: mentre il marmo vive
di tempi geologici, potrebbe durare all’infinito, il latte va a male nel
giro di qualche ora, cambia consistenza, colore e odore, va quotidianamente
rigenerato. Allo stesso tempo il latte ha radici corporee, è simbolo della
fecondità e del ciclo della vita, evoca la connessione fra vivi e morti,
fra trapassati, presenti e venienti... Ogni mattina, con dedizione rituale,
esso viene asciugato, l’incavo ripulito, il liquido cambiato.
Il latte, stigma della vitalità e della caducità del corporeo, della cura
e della crescita, della condizione effimera ed evanescente dell’esistenza,
che la rende così preziosa. Come il latte, la vita ha costantemente bisogno
di essere rigenerata, amata, nutrita dal flusso dell’energia vitale, dal
respiro, dall’accudimento, dall’inquieta attesa: una creazione sempre
in fieri, esposta e precaria.
L’opera/performance evidenzia il processo immersivo e ibridativo
dell’esperienza estetica, che connette territori differenti: solido e
fluido, corporeo e incorporeo, durevole ed effimero, geologico e biologico,
minerale e animale, purezza e corruzione… Arte come fare che diluisce,
metamorfizza, rende attigui, coniuga il fondare con l’affondare, la lucidità
con l’emozione, la natura con l’artificio, l’impenetrabilità con l’immersione…
I gesti che originano queste pietre lattee, il levigare e l’alimentare,
mi sembrano costituire il DNA biologico e spirituale del nostro tempo.
L’atto tattile del levigare, incavare, imparare a creare spazio
accogliente e interagente per gli elementi più diversi, il fluidificare
la materia solida e resistente rendendola porosa per altro. L’azione di
cambiare quotidianamente il latte, di nutrire ogni giorno la vita
dei sensi, del pensiero, dell’anima, delle relazioni, così come ci alimentiamo
di cibo ogni giorno, e di aria ad ogni istante.
Mi sembra che in tutti gli ambiti dell’umana sensibilità, delle nostre
emozioni come dei nostri nervi e neuroni, stia avvenendo un mutamento
trasfigurativo profondo, il passaggio da un tipo di umanità ad un altro,
una trans-umananza che ci chiede di corrisponderle, arrischiandoci
nel divenire e nelle resistenze pietrificanti o ostili che le si oppongono,
in noi e attorno a noi. Un cambiamento nel quale ciascuno/a si scopre
soglia di accadimento per altro e di più rispetto a quello che già siamo
e sappiamo… Le nomadi identità moderne sono onde, più che alberi con radici,
le nutrono il mare e il vento, non solo la terra, e ogni giorno si rimette
tutto in gioco, e nulla si custodisce se non nella trasformazione.
Ci scopriamo noi stessi parte di una performance, di un enorme
travaglio creativo iniziato all’incirca 13,7 miliardi di anni fa, gremito
di tentativi azzardati, riusciti, falliti e rilanciati, in mezzo ai quali
le biotecnologie odierne annunciano nuove soglie del processo evolutivo
umano.
Di questa genesi, tortuosa e imprevedibile, ma sempre più e meglio decifrata
nei profondi ritmi cosmici, geologici e storici, la nostra specie umana
non è il culmine, ma una fase transitoria e mutante, condotta chissà verso
quale foce, che è anche potenziale sorgente.
Trans-umananze evoca un umano che, come tutta la creazione,
è un cantiere aperto, inconcluso, animato da un’insoluta tensione interrogante
e immaginante, trasformata dalle trasformazioni che essa stessa provoca.
In questo panorama di mutazioni epocali, epistemologiche, scientifiche
e antropologiche, come e dove rinvenire lo Spirito? Hanno ancora un senso
le parole cui la nostra fede bambina ha indirizzato la sua preghiera,
oppure occorre levigarle, riplasmarle, perché illuminino i segni dei tempi?
O, forse, è necessario “fare nuove tutte le cose”, cogliere nelle tradizioni
religiose, nelle metafore bibliche, negli assiomi della ricerca, quella
novità sempre insorgente e in fieri che l’assuefazione ermeneutica non
ci fa più vedere? Un dottore della Chiesa che è anche una grandissima
santa diceva nell’Ottocento “Sono l’amica degli atei”. Dopo oltre un secolo
occorre forse tener conto della sua intuizione e posizionarsi, in attesa
vigile, dalla parte del mutamento: accettare la sfida vertiginosa dei
tempi e catturarne bagliori di spirito come intimazioni della Parola che
anela a farsi carne.
Il percorso che stiamo per intraprendere riguarda appunto dei tentativi
di corrispondenza dello spirito ad alcune emergenze che premono e ci coinvolgono,
minacciose ed esaltanti ad un tempo, dove il rischio può volgersi in opportunità:
Il passaggio dalla sacralità della natura, custode di limiti, regole e
principi dati una volta per tutte, all’accrescimento e alla pervasività
del potenziale tecnologico umano, che può intervenire sia sulla modificazione
del patrimonio genetico dei viventi come anche trasformare gli equilibri
ecologici complessivi, in senso promettente o distruttivo.
Gli effetti culturali della globalizzazione economica e tecnologica, che
annullando tempi e distanze ci ha messi rapidamente in presenza gli uni
degli altri, sollecitando un fare coniugativo delle differenze, piuttosto
che il rafforzamento di strutture ideologiche di violenza e di aggressività,
a difesa di identità blindate e contrappositive.
Lo scollamento sempre più sensibile tra una cristallizzazione di teorie
e prassi politiche polarizzate intorno alla gestione dell’esistente, e
le esigenze del vissuto quotidiano che sollecitano un diverso abitare,
alla ricerca di forme inedite - emotive, cognitive e relazionali - per
costruire il proprio sé e mondi con-vivibili e corresponsabili, nella
contingenza e nella libertà.
L’allargamento della sfera della nostra consapevolezza nei riguardi del
complesso planetario, ossia la presa in carico del debito che abbiamo
contratto con tutte le forme di vita non umane, inseparabili da noi, che
hanno contribuito e continuano ad influire sulle nostre attitudini e propensioni…
Infinitesimi abitatori di un pianeta, in una galassia fra milioni di altre,
consapevoli dell’enormità
del tempo trascorso dall’esplosione cosmica fino a noi, implicati in un
vorticoso sviluppo che accresce la nostra potenza, fino a consegnarci
le chiavi della vita… in che cosa potrebbe consistere il nostro legame
con la Forza creatrice e amante della quale siamo ad immagine e somiglianza?
Quale impronta digitale divina portiamo in noi, e quale soffio creativo?
Una figliolanza che possiamo rinvenire nella tensione alla relazione
accogliente dell’alterità; nel dialogo coniugativo con il non umano; nell’esercizio
di intelligenza e di amore ogni qual volta siamo chiamati ad un coinvolgimento
con-creativo del mondo; nel sentirci infine pro-vocati, appellati in avanti,
esposti alle radiazioni dell’avvenire da parte di un Dio provocante ed
eccedente, nell’orizzonte provvisorio e incompiuto di cui facciamo di
volta in volta esperienza, affidandoci all’Aperto.
Un umano esposto al rischio e alla possibilità, in uno squilibrio creativo,
gettato in spazi e tempi che nessuno ha ancora dissodato, nell’allargamento
della soglia dell’esperibile, nell’affidamento in un transito di configurazioni
sempre provvisorie, eccentrate, trasfiguranti.
Un divino che ci consegna al forse creativo di ogni istante offrendo
possibilità di sviluppo e di accoglienza delle novità emergenti nella
struttura complessa della realtà; accorda fiducia e alimenta le capacità
percettive e amanti di ogni individuo; ci raccoglie nel grembo del suo
silenzio come ciò che ancora geme e attende di nascere… Dio e mondo ad-venienti.
Ciascuno è ingaggiato, personalmente e insieme, a dare carne all’evento
di questa somiglianza, per possibilità sempre più libere e ricche di conoscere,
di fare, di amare, di co-spirare.
Gioco, ad un tempo, spirituale e cognitivo, etico e politico: testimoniale.
Vorrei ora presentare il cammino che ci attende, che evidenzia tre
dinamiche di un processo transumanante e di uno spirito corrispondente.
Nel primo movimento, che chiamo paesaggi in metamorfosi, colgo
alcune emergenze del tempo presente, in cui affiora una nuova sensorialità
emotiva, cognitiva e sociale, magari evangelica.
Un secondo sviluppo riguarda l’emersione di una percezione ecologica della
rete della vita, che connette l’ambito caosmico (caos e cosmo) e teandrico
(umano e divino), che chiamo, proprio per questo carattere connettivo,
la costellazione caosmoteandrica.
Il terzo aspetto riguarda la possibilità di inabitare le rotture,
che occorrono nel corso delle trasformazioni, quali possibili luoghi dello
sprigionarsi dell’impossibile.
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