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I due dogmi
Oggettività della scienza e integralismo etico

Roberto Satolli
Paolo Vineis

Feltrinell 2009
Pag,192
Prezzo: Euro 16.00

In breve
Un invito al dialogo costruttivo tra “persone di buona volontà”, nella convinzione che la complessità dei problemi legati alla vita vieti la contrapposizione tra un campo laico arroccato nella difesa della scienza, e un campo religioso chiuso nella salvaguardia di principi astratti drammaticamente inadeguati.

Il libro
La scienza si scontra sempre più spesso con posizioni che si oppongono alle sue conquiste in nome della religione o dell’etica. Il più delle volte questa opposizione si risolve in un doppio dogmatismo. Da una parte l’inflessibilità di chi, soprattutto nella gerarchia cattolica odierna, ritiene di avere accesso a una verità trascendente o comunque superiore alle conoscenze empiriche. Dall’altra si contrappone la rigidità di quanti, dall’interno del mondo scientifico, tendono a presentare le proprie conoscenze come certezze, ignorandone o fingendo di ignorarne i limiti. I guasti di queste due debolezze travestite da dogmi si vedono nel dibattito, ormai quasi quotidiano, su argomenti come il cambiamento climatico, le cellule staminali, il prolungarsi artificiale e magari indesiderato della vita e della morte. Quasi tutti abbiamo la sensazione di essere “agiti” in queste discussioni, senza mai realmente capire quali sono i fatti e quali sarebbero le decisioni giuste.
Il libro non pretende di dare risposte, ma afferma alcuni semplici presupposti che consentono di condividere un metodo di deliberazione partecipata sui temi rilevanti per la società intera. Il primo è che la scienza non è una ricetta per trovare risposte “giuste” ai dilemmi etici e politici della società contemporanea. Il secondo è che le conoscenze prodotte dalla scienza sono comunque quanto di meglio abbiamo a disposizione per illuminare (non dettare) le scelte e soprattutto per scartare le opzioni non più sostenibili.

Gli autori

Paolo Vineis, medico, è professore di Epidemiologia ambientale all’Imperial College di Londra e professore aggiunto di Epidemiologia alla Columbia University di New York; dirige la sezione di Scienze della vita alla Fondazione ISI di Torino. Il suo campo principale di attività è la ricerca sulle cause ambientali dei tumori e l’interazione con la suscettibilità genetica. Ha pubblicato più di 400 articoli scientifici e alcuni libri: Il crepuscolo della probabilità (Einaudi 1999), Equivoci bioetici (Codice 2006). Ha curato, The Molecular Epidemiology of Chronic Diseases (con Chris Wild e Seymour Garte, Wiley 2008).



Roberto Satolli, medico, ha lasciato la professione ospedaliera per dedicarsi interamente all’informazione e comunicazione sulla salute. Nel 1993 ha fondato l’agenzia Zelig di informazione, comunicazione e formazione medica. È responsabile dal 2001 dell’Unità operativa comunicazione e informazione nell’ambito del Sistema nazionale linee guida; membro del Consiglio direttivo del Gruppo 2003 per la ricerca scientifica e del Comitato di indirizzo Cochrane italiano; presidente, dal 2005, del Comitato etico indipendente dell’Istituto nazionale dei tumori di Milano. Tra gli ultimi suoi libri: Dizionario storico della salute (con Giorgio Cosmacini e Giuseppe Gaudenzi, Einaudi 1997), La clonazione e il suo doppio (con Fabio Terragni, Garzanti 1998), Lettera a un medico sulle cure dell’uomo (Laterza 2003). Con Feltrinelli ha pubblicato, nel 1992, Vita morte miracoli – medicina, genetica, diritto: conflitti e prospettive (con Stefano Nespor e Amedeo Santosuosso).

Prefazione
di Ignazio Marino

Tornai a casa più vecchio dopo
aver percorso il mondo.
Non chiedo nulla a nessuno.
Ma so ogni giorno meno.
Pablo Neruda, Estravagario, 1958

“Scienziato non è colui che sa dare le vere risposte, ma colui che sa porre le giuste domande.” Così Claude Lévi-Strauss immaginava, poco meno di cento anni fa, l’uomo di scienza. Una definizione ancora attualissima, quella dell’antropologo francese, che ben si adatta alla visione che gli autori di questo libro hanno voluto proporci. Tre le ragioni fondamentali di tale corrispondenza di sguardi: Paolo Vineis e Roberto Satolli sanno porre le giuste domande, ci offrono risposte meditate e ci ricordano che gli scienziati spesso non possiedono la verità, più di quanto essa appartenga agli umanisti, ai credenti, agli atei. Categorie, queste, forse già in cammino verso un’evoluzione fuzzy della cultura tutta, quella cornice del mondo dai margini sfuocati, confusi e indistinti in cui ogni giorno, per lo più inconsapevolmente e convinti di molte certezze, ci muoviamo. Categorie, dunque, in una profonda crisi d’identità, portate a irrigidirsi per la paura dell’ignoto in cui vanno a sciogliersi cambiando forma, contratte nel disperato tentativo di innalzare barricate, tanto alte quanto fragili.
Una fase di trasformazione dei saperi, nella società della conoscenza, ben raccontata in un libro che, passo dopo passo, ci accompagna nella narrazione sull’importanza della voce della scienza che, lungi dal lasciarsi invischiare da istanze ideologiche, dovrebbe invece guidarci, nella revisione di tante “verità” su cui la nostra società spesso si è fondata.
Penso alla necessaria falsificazione della teoria del razzismo genetico o alla diffusa convinzione che i cosiddetti “integratori” vitaminici non possano che produrre benefici o alla difficile, mutevole, definizione del diabete, o ancora al disorientamento che ci coglie quando ascoltiamo esponenti di scuole opposte, pronunciarsi in merito agli effetti dei cambiamenti climatici sulla nostra salute.
Tutti esempi articolati in questo testo, che si pone chiaramente l’obiettivo di superare, evidenziandone la contrapposizione, due dogmatismi.
Il primo è la convinzione di larga parte del mondo scientifico di possedere definizioni univoche, non foss’altro perché raggiunte con una metodologia condivisa e collaudata da una ampia comunità, attraverso osservazioni riproducibili ed, in parte, empiriche; il secondo è quello di chi ritiene di essere il depositario di un superiore, trascendente, significato dell’esistenza e di tutto ciò che essa contiene. Insomma, l’incredibile e, a mio giudizio, artificiosa contrapposizione tra Scienza e Dio.
È un conflitto, questo, di crescente estensione e intensità. A volte anch’io, nella mia veste di scienziato credente, impegnato nelle istituzioni, mi sono trovato coinvolto in aspre discussioni (penso soprattutto al tema del testamento biologico e alla drammatica vicenda di Eluana Englaro). Il mio “triplo” profilo, di medico, uomo credente, e uomo politico, nella tradizionale banalizzazione e semplificazione delle definizioni, offerte soprattutto dalla televisione, è stato “metabolizzato” rapidamente dal sistema dei media. Eppure, nei fatti, continua a essere faticoso riuscire a rappresentare categorie del pensiero, presentate costantemente come avverse e avversarie. Uno dei principali problemi nei confronti pubblici, fuori e dentro le aule parlamentari, resta – come ben sottolineano Vineis e Satolli – l’uso di linguaggi, di codici diversi: lo scienziato ha il suo vocabolario, il filosofo ha la sua terminologia, il religioso i suoi riferimenti, il politico il suo gergo. Mediamente vi è scarso interesse di comprensione reciproca, quando non manca del tutto la mera capacità di ascolto. Ma soprattutto si corre, troppo spesso, su binari paralleli, senza possibilità di reale dialogo. Specialisti della propria disciplina, analfabeti del mondo.
Altra difficoltà è accettare e condividere, per lo stesso mondo scientifico, un nuovo modello di classificazione, basato sulla logica fuzzy, che non comprende solo i valori A e B, ma anche tutti quelli intermedi. È la stessa scienza, come scrivono gli autori, a funzionare per fuzzy sets, insiemi dai confini incerti e indistinti. Insiemi che arrivano a coinvolgere la costruzione dell’identità degli esseri umani e che pertanto costringono anch’essi, per le implicazioni sociali ed etiche che comportano, all’individuazione di una nuova categoria: la biopolitica. Qui, più che fuzzy, i confini appaiono spesso strumentalmente mutevoli, a seconda delle ragioni di opportunità che la politica, ma a volte anche la scienza, individuano di volta in volta. Spesso è il sistema politico a guidare il percorso della scienza, ma capita anche che sia il mondo scientifico a entrare prepotentemente, con le sue scoperte e le sue tecnologie, nell’agone politico.
Lo stesso concetto di natura – e la distinzione tra naturale e artificiale – è stato ridefinito a seconda del contesto storico e della rilevanza che veniva data al grado di manipolazione umana. In altri tempi si è attinto alla natura come categoria kantiana, riferimento indispensabile per dare orientamento e senso alle nostre esperienze. In tempi più recenti, invece, la scienza si è orientata, più che ad analizzare rapporti di causa-effetto, a osservare i legami tra i fenomeni, secondo il concetto matematico di funzione. Altro capitolo estremamente interessante del libro di Vineis e Satolli appare la definizione di morte. Basti pensare che, prima dell’avvento della medicina moderna, la paura di essere sepolti vivi non era affatto irrazionale: nel 1896 un impresario di pompe funebri americano riportò che quasi il 2 per cento delle persone riesumate potevano considerarsi vittime di uno stato di morte apparente. Allo scopo di evitare tali macabre evenienze, già alla fine del Settecento, l’anatomista danese Winslow indica una serie di misure da attuare sul presunto cadavere, affinché la diagnosi di morte sia certa (specchio davanti alla bocca per verificare che non si appannasse, insetti nelle orecchie, tagli sulle piante dei piedi).
L’evoluzione del concetto di morte diventa rivoluzione con l’invenzione del ventilatore meccanico, nel 1952: così nascono le terapie intensive. Pochi anni più tardi, nel 1957, Papa Pio XII chiede ai medici di definire scientificamente quando le funzioni vitali devono essere considerate indicatori della presenza di vita umana e due anni dopo i neurologi francesi Mollaret e Goulon definiscono lo stato di “coma irreversibile” (coma dépassé). Nel 1968 viene pubblicato il Rapporto del Comitato ad hoc della Harvard Medical School (JAMA 205: 337, 1968): da quel momento la morte è “morte cerebrale”. Nella vasta area grigia, ancora una volta fuzzy, tra la vita e la morte – come ben raccontano Vineis e Satolli – spesso ciò che accade con l’intervento medico, non è tanto allungare una vita, ma prolungare il processo del morire. Eppure la Costituzione italiana (scritta nel 1947, ma straordinariamente attuale) afferma che la libertà personale è inviolabile (art. 13), nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge e la legge non può in alcun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana (art. 32).
Tanto per restare all’interno della cornice dei due dogmatismi proposti da questo libro, sottolineando l’artificiosa fragilità di tale radicalizzazione, appare qui opportuno ricordare il messaggio che Paolo VI , nell’ottobre 1970, ha voluto far pervenire ai medici cattolici, attraverso una lettera del cardinale Giovanni Villot: “Il carattere sacro della vita è ciò che impedisce al medico di uccidere e che lo obbliga nello stesso tempo a dedicarsi con tutte le risorse della sua arte a lottare contro la morte. Questo non significa tuttavia obbligarlo a utilizzare tutte le tecniche di sopravvivenza che gli offre una scienza instancabilmente creatrice. In molti casi non sarebbe forse un’inutile tortura imporre la rianimazione vegetativa nella fase terminale di una malattia incurabile? In quel caso, il dovere del medico è piuttosto di impegnarsi ad alleviare la sofferenza, invece di voler prolungare il più a lungo possibile, con qualsiasi mezzo e in qualsiasi condizione, una vita che non è pienamente umana e che va naturalmente verso il suo epilogo. Anche in questo il medico deve rispettare la vita” (“Il rispetto della vita e della persona nell’esercizio della professione medica”, in “L’Osservatorio Romano”, 12 ottobre 1970).
Non mi permetto di interpretare le parole di un pontefice, credo non sia né necessario, né opportuno. Voglio solo tentare con umiltà di instillare il dubbio tra i dispensatori di certezze e in coloro che vivono nella convinzione di conoscere sempre la verità. Mi sono confrontato spesso – a volte in discussioni che si perdevano in territori lontani dalla scienza e dalla conoscenza – sulla definizione di nutrizione e idratazione artificiali quali trattamenti medici, e sono grato agli autori per aver voluto ricordare ancora una volta quanto ho cercato di sostenere in questi anni: si tratta di atti medici perché richiedono conoscenze e competenze di natura professionale e possono essere mantenuti solo in un contesto strettamente medicalizzato. Vineis e Satolli fanno di più: sottolineano il curioso sillogismo per cui, chi sostiene che non si tratti di interventi terapeutici, sembra dedurne che per ciò stesso si debbano considerare obbligatori e possano essere imposti anche a chi li vorrebbe interrompere o aveva espresso un chiaro intendimento in tal senso. Mai come in questo caso, caricare di colori accesi i margini non serve a renderli più veri, solo più visibili e ingombranti.
Non voglio peccare di scientismo considerando, con questo libro, il problema del doppio dogmatismo definito e quindi risolto, ma credo che l’approccio di chi l’ha scritto sarà un significativo contributo nel percorso di un sapere unitario, in cui non vi siano figli di un dio minore (come sottolineava il chimico Charles Snow nel rivoluzionario Le due culture del 1959, lamentando il primato della cultura umanistica su quella scientifica). E se è vero, come affermato dal filosofo Giulio Giorello, che “l’amore per la democrazia passa anche per un approccio che accantoni l’assolutismo da talk show per un percorso di negoziazione”, credo che, in tal senso, anche il mondo scientifico possa dare il suo contributo, certamente non facendosi dettare l’agenda dalla politica e derogando al rigore metodologico, ma aprendosi (auto)criticamente, sicuro di poter contemplare la diversità di orientamenti come ricchezza e completezza nella visione di un fenomeno.
Il risultato della crisi delle classificazioni potrà essere allora la definizione di nuove categorie del pensiero (non solo scientifico), in quell’ottica fuzzy che appare determinante per la crescita dell’intera società della conoscenza.