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Roberto Mancini,
Idee eretiche
Edizioni Altreconomia, Milano 2010
Pag. 127, euro 11.00
“…l’altra economia è un sogno ad occhi aperti,
ma è anche un dovere, una felicità possibile: come quando,
in cuor nostro, iniziamo a credere alla primavera”
L’economia si può cambiare. Una rivoluzione che conduce “dal profitto
al dono, dalla proprietà all’affidamento responsabile, dall’accumulazione
alla condivisione, dalla competizione alla cooperazione, dalla flessibilità
alla dignità, dall’esclusione all’ospitalità reciproca...”. Ecco la moderna
eresia di Roberto Mancini: 33 “illuminazioni” che anticipano un’altra
economia, al servizio delle persone e della comunità
Una proposta per la lettura
La rivista Altreconomia ha pubblicato i 33 scritti di Roberto Mancini
dal n. 81, marzo 2007 al n. 113, febbraio 2010. L’autore merita che il
lettore percorra in modo cronologico questo itinerario di scrittura, ma
a questa vogliamo affiancare una diversa chiave di lettura, che permette
di scindere e ricomporre altrimenti il testo. Un “lessico”, prima di tutto,
dove le parole dell’altra economia sono portate alle estreme conseguenze:
da dono (9.) a misericordia (10.), da benessere (22.)
a spiritualità (27.), da natura (28.) a valore (29.)
e giustizia (32.). Poi lo “stato dell’arte” della nostra società,
nei suoi principali tratti concettuali - politica e religione, educazione,
formazione - e nelle sue deformità -denaro, precarietà, individualismo,
capitalismo distruttivo- nei capitoli 2., 5., 6., 8., 14., 18., 19.,
21, 23. Da qui si scende in profondità e la scrittura si fa riflessione
personale e morale: un’analisi su essere e avere, umiltà, angoscia
e speranza, nei capitoli 3., 7., 16., 17., 20. Per cambiare davvero
bisogna infine sporcarsi le mani, mettere in pratica i principi del “pensiero
critico” (1.), “libertà solidale” (11.), “giustizia organica”
(12.), “democrazia agìta” (13.), “educazione civica” (15.),
ripensando l’azione politica in un’ottica di servizio e di nonviolenza
(4, 24., 25., 26., 30., 31.,33.).
Roberto Mancini insegna Filosofia
teoretica all’Università di Macerata. È editorialista per il mensile “Altreconomia”
ed è autore di numerosi articoli e saggi. Tra i sui ultimi libri, tutti
pubblicati nel 2009, L’umanità promessa (Qiqajon), Desiderare
il futuro (Pazzini) e La laicità come metodo (Cittadella editrice)
Conclusione. Il dovere di cambiare
Di fronte a tanta apologia del sistema economico vigente, quando la coscienza
collettiva rischia di essere saturata da un impasto di malafede, conformismo
e rassegnazione, non si può rispondere con un facile accostamento di parole
d’ordine. E’ sterile evocare “economia aperta”, “sviluppo sostenibile”
ed “eco-democrazia”, come fanno ad esempio Jean-Paul Fitoussi ed Eloi
Laurent, senza impegnarsi a chiarire né le cause degli squilibri né i
processi del cambiamento e anzi bollando come “decrescita rassegnata”
(J. P. Fitoussi ed E. Laurent, La nuova ecologia politica, Feltrinelli,
p. 24) la proposta di un’alternativa all’economia della crescita illimitata.
In una situazione come la nostra occorre un’analisi lucida, capace di
evidenziare anche le verità scomode per noi occidentali e per il nostro
benessere materiale, un’analisi che sia legata all’azione in una stessa
dinamica di responsabilità. Vale per noi quanto Dietrich Bonhoeffer affermava
rivolgendosi, nel 1944, alle nuove generazioni: “penserete solo ciò di
cui dovrete assumervi la responsabilità agendo” (D. Bonhoeffer, Resistenza
e resa, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 1996, p. 368).
Di quale pensiero e di quale azione sto parlando ? Mi riferisco a un pensiero
che sia critico, perché sa riconoscere la falsità e l’ingiustizia, ed
euristico, nel senso che sa trovare e prefigurare strade alternative.
Alludo a un pensiero che sia lo svolgimento della visione, partecipata
da molti, di una società umanizzata e sia il frutto di consapevolezza
generato dalla passione per il bene comune e da una speranza per tutti.
Mi riferisco nel contempo a un’azione che non resti frammentata in gesti
o microiniziative autoreferenziali e che invece si sviluppi come processo
collettivo di cambiamento. Un’azione simile va a collocarsi nel cuore
dei problemi, interviene sulle frontiera tra la logica dominante e il
dinamismo della rigenerazione della convivenza. Agire con questa profondità
significa, anzitutto, raccogliere la sofferenza degli esclusi, degli sfruttati,
dei respinti per sollevarla creando dinamiche di liberazione. Si tratta
di dare risposta ai bisogni effettivi, alle sofferenze, alle ingiustizie
più devastanti. Questa è la differenza tra l’azione feconda e un agire
superficiale, che serve solo a far sentire attivo chi lo intraprende.
L’orientamento alla fecondità non comporta affatto il vincolo a muoversi
solo quando si ritiene di avere una potenza sufficiente a “vincere”. Comporta
la concreta lungimiranza di fare in modo che ogni azione, per quanto abbia
in sé una portata piccola e insufficiente, sia però mirata ad alimentare
i processi del cambiamento e non si perda nel nulla.
Basta uno sguardo alla mappa dei problemi, come basta sentire il naturale
sgomento dinanzi all’immensa portata di un cambiamento di sistema che
pochi ritengono anche solo pensabile, per capire che nessuno può considerare
il cammino da fare come se potesse conoscerlo totalmente e “dall’alto”.
Non abbiamo alcun progetto compiuto né una conoscenza adeguata di tutti
i passaggi necessari. Proprio qui ci si rende conto di come sia urgente
imparare a pensare insieme. Da parte mia posso solo segnalare alcuni di
questi passaggi, quelli che a mio avviso hanno un’efficacia positiva indispensabile
e che, come sa bene chi partecipa in qualche modo alle iniziative per
un’altra economia, per molti versi sono già in corso.
a. Lo stile di vita. Ci si può conformare completamente al sistema
economico vigente, adottandolo come una cultura globale che decide di
ogni atto quotidiano e persino dei sentimenti e delle relazioni interpersonali,
oppure si può stabilire una distanza critica concreta, operativa, scegliendo
uno stile di vita diverso. La sobrietà nella soddisfazione dei bisogni
materiali, la cura nell’evitare sprechi, un uso dei beni economici e del
denaro che non li trasformi in un fine in se stessi sono i tratti di comportamenti
praticabili e capaci di alimentare il cambiamento.
L’economia del capitale e del mercato globale come soggetti che sottomettono
umanità e natura inizia a essere trascesa quando perde la profondità di
una cultura diffusa. Quando i suoi criteri di profitto e di accumulazione
vengono relativizzati o sostituiti da altri criteri nelle motivazioni
delle persone e delle comunità. Questa economia non potrà essere superata
se anzitutto non cambiano la prospettiva, le convinzioni e la logica dei
comportamenti di ciascuno ogni giorno. Perciò è necessario che siano ampliati
gli spazi di vita in cui non conta il denaro come scopo motivante e come
valore supremo, perché contano piuttosto scopi legati ai valori viventi
che sono le persone e, con essi, ai valori affettivi, morali, civili,
giuridici, artistici, spirituali.
b. L’azione educativa. Ogni nostra facoltà non può essere lasciata
incolta, ma va affinata, arricchita. E ogni forma di convivenza è la risultante
di un apprendimento sociale e storico più o meno illuminato o distorto.
Perciò realizzare il rinnovamento della società esige che ci siano percorsi
educativi adeguati al cambiamento, anzi adeguati alla pienezza di umanità
che attraverso di esso si vuole preparare. L’azione costante delle famiglie,
della scuola, dell’università, di gruppi e movimenti giovanili, delle
comunità locali e delle comunità religiose è essenziale per promuovere
la fioritura di persone capaci di divenire co-soggetti di una convivenza
giusta, veramente democratica, pacifica, gentile. Tutti coloro che hanno
un ruolo nei processi educativi non possono restare a lamentarsi per i
tempi bui in cui ci troviamo; devono invece esercitare al meglio la loro
passione educativa e la loro responsabilità verso le nuove generazioni.
L’azione educativa è forse l’esempio paradigmatico di una prassi quotidiana
che, anche senza un’incidenza clamorosa e fortemente visibile, non si
esaurisce in gesti sterili ma ha un’efficacia discreta e profonda.
Rientra in questa corrente radicale dell’agire educativo la cura per la
vita interiore e per l’apertura delle persone alla spiritualità dell’esistenza
vissuta con amore rispondendo a un senso, a una verità mite, a una destinazione
di pienezza per la condizione umana. Se manca questa educazione dell’anima
e del cuore, nessuno si risveglia alla responsabilità attiva per la gestazione
di una società umanizzata. La maturazione spirituale delle persone dovrà
comprendere il passaggio dalla logica dell’appropriazione alla sapienza
del non-attaccamento alla proprietà e alle cose, per cui avere una dote
o un bene, così come esercitare una funzione professionale, sono qualcosa
che rappresenta non una proprietà privata assoluta, ma il frutto di un
affidamento: ciò che abbiamo ci è affidato per rispondere ai nostri bisogni
ma anche per accrescere il bene comune. Ne siamo responsabili in quanto
affidatari, amministratori fiduciari di talenti e possibilità da cui anche
altri potranno ricevere frutto. Una simile spiritualità del non attaccamento
come atteggiamento interiore dei soggetti economici potrà favorire la
nascita di un’ “economia inclusiva”, come la chiama l’economista indiano
Narendar Pani (Inclusive Economics, New Dehli, Sage Publications,
2001, p. 10) ispirandosi all’opera di Gandhi. Con tale espressione egli
allude a un’economia che non si fondi più sull’esclusione sociale, né
la produca. In questo senso economia di servizio ed economia
inclusiva sono formule coessenziali, che suggeriscono l’idea di un
sistema che non sia più impastato di violenza.
c. L’attivazione di processi tipici dell’economia di servizio. Un
altro passaggio fondamentale per la maturazione dell’economia di servizio
è dato evidentemente dalle esperienze specificamente economiche orientate
ai diritti umani, alla cooperazione, all’equità, alla solidarietà, all’armonia
con il mondo naturale. Dalla sfera del modo di produzione alle condizioni
in cui viene svolto il lavoro, dall’organizzazione delle imprese e delle
cooperative all’organizzazione del commercio e della distribuzione di
beni materiali e servizi, dalle strategie relative alle fonti energetiche
alle scelte influenti sull’equilibrio ecologico, dai circuiti della finanza
e delle banche all’intervento economico delle istituzioni dello stato
o di organismi sopranazionali, in tutti questi ambiti è possibile introdurre
logiche di riorientamento del sistema economico nella direzione del servizio
alla società e dunque a ogni persona. Parlo di un riorientamento che dovrà
includere dinamiche di decrescita materiale all’interno di un complessivo
sviluppo della giustizia e di un disegno di armonizzazione permanente
delle forme della presenza umana sul pianeta.
Lungo questa frontiera dell’altra economia in atto è di cruciale importanza
il contributo della ricerca economica specialistica. Invece che ricondurre
ogni potenzialità della conoscenza al capitalismo, facendo del “capitalismo
cognitivo” un momento funzionale alla delirante monetizzazione del mondo
e della realtà, si tratta di promuovere e di socializzare la conoscenza
economica necessaria a tessere l’alternativa. Spesso le conoscenze tecniche
e le nuove elaborazioni sono già molto avanzate, il problema sta nel diffonderle
in modo che entrino nella coscienza collettiva e nel dibattito politico.
Naturalmente la diffusione della conoscenza critica e alternativa non
basta, occorre l’emersione di soggettività operative capaci di interpretare
nella quotidianità il nuovo orientamento del servizio: cooperative, comunità,
distretti di economia solidale, imprese eticamente responsabili, enti
locali, istituzioni di varia natura. Fino a coinvolgere i governi.
d. L’attivazione di processi tipici della politica di servizio. L’assunzione
di stili di vita capaci di sobrietà, solidarietà e condivisione, l’impegno
educativo, il cambiamento culturale e le esperienze di anticipazione che
concretizzano un’economia di servizio non possono trovare uno sviluppo
adeguato se non prende corpo il processo della traduzione politica di
tali istanze. Questa traduzione non va affidata alla politica così com’è
di solito, ma richiede l’emersione di una politica ulteriore, inedita,
ispirata alla cura del bene comune e non più allo spirito di guerra. Per
contribuire a una svolta così profonda è necessario che ci siano persone
e gruppi guariti dal narcisismo e dal settarismo, pronti ad agire con
gratuità secondo il metodo della nonviolenza e della giustizia restitutiva
dei diritti a quanti ne patiscono la negazione e dei doveri a quanti finora
li hanno disattesi. Che operino nei partiti o nei sindacati, nelle istituzioni
o nei movimenti, i soggetti della politica di servizio devono riconoscere
l’importanza di mettere da parte ogni spirito di fazione per dedicarsi
allo svolgimento di una speranza di rinnovamento per tutta la società.
Da questa speranza e dalla coscienza della sofferenza delle vittime dell’iniquità
riceveranno la facoltà di identificare le priorità essenziali e di trovare
la via per dare loro attuazione.
Affinché una svolta simile diventi un processo incisivo e condiviso da
molti bisogna precisare sia lo spazio, sia la forma preferenziale di soggettività
dell’azione politica, perché queste sono due coordinate fondamentali per
dare energia e concretezza al sogno di una politica inedita. Una politica
di servizio mette al centro della sua agenda la tutela dei diritti umani
e la prevenzione della loro violazione. Un’esigenza del genere richiede
di superare la concezione emergenzialista, che lega i diritti umani sempre
solo a situazioni eccezionali e remote, lontane da noi, come se la cosa
non ci riguardasse. Si capisce che una svolta simile coincide con il passaggio
dalla passività di spettatori più o meno distratti di vicende apprese
dai media alla responsabilità di co-soggetti che si sentono solidali
e coinvolti in prima persona. Il principio di territorialità non serve
certo a creare zone di eccezione rispetto alla norma generale, zone dove
in nome di tradizioni storiche locali si possano commettere e giustificare
violazioni. Tale principio serve invece a integrare e tradurre il principio
dell’universalità dei diritti. In questo senso la cura territoriale della
loro attuazione rappresenta una risposta allo sradicamento sociale e culturale
indotto dalla globalizzazione e conferisce ai diritti stessi un concreto
principio di individuazione. Anzi, un impegno corale di cittadini, gruppi,
associazioni, Ong ed enti locali in tale direzione configura già una qualità
di convivenza e di democrazia partecipativa che aiuta la società nel suo
insieme a superare l’intreccio perverso di individualismo e massificazione.
Si tratta quindi di procedere a una vera e propria rilocalizzazione
dei diritti umani e dei corrispondenti doveri. Scrive Saskia Sassen
che “lo sviluppo di concezioni di cittadinanza postnazionale richiede
che si metta in discussione l’assunzione secondo la quale il senso di
cittadinanza della popolazione nelle democrazie liberali è fondamentalmente
caratterizzato da strutture a base nazionale” (S. Sassen, Territorio,
autorità, diritti, Milano, Bruno Mondadori, 2009, p. 368).
Da questo punto di vista, bisognerebbe superare l’equivoco del “federalismo”
oggi all’ordine del giorno per molte forze politiche in Italia. Non si
tratta di riportare il calcolo della ricchezza prodotta alle regioni in
modo che ognuna di esse possa assicurare servizi corrispondenti: di elevata
qualità nel caso delle regioni più ricche, di qualità scadente nelle altre.
Chiamare “federalismo” questa logica di egoismo regionale significa operare
una mistificazione e, del resto, disattendere la Costituzione della Repubblica,
che stabilisce uno stesso riconoscimento dei diritti fondamentali per
tutti i cittadini. Si tratta invece di concepire e attuare il decentramento,
valorizzando le autonomie locali, proprio rafforzando l’azione sistematica
delle istituzioni più vicine ai cittadini, come sono quelle territoriali,
nell’attuazione dei diritti umani e nella prevenzione delle dinamiche
della loro violazione.
Conferire nuova importanza ai territori significa al tempo stesso guardare
nella direzione dell’emergere di forme comunitarie aperte di soggettività,
anziché caricare sulle spalle del singolo cittadino i pesi e i compiti
implicati nella promozione del cambiamento. Nel parlare di forme comunitarie
aperte di soggettività - fermo restando il ruolo insostituibile del Parlamento,
dei partiti e dei sindacati - alludo al protagonismo politico dei vari
enti locali (circoscrizione, comune, provincia, regione), delle scuole
e delle università, di coordinamenti di gruppi e associazioni, delle comunità
di persone straniere, delle scuole di pace operanti in Italia, nella misura
in cui tutti questi soggetti acquisiscono la coscienza propria del riconoscersi
come una comunità in riferimento a un determinato territorio. Tali forme
intermedie di comunità civile sembrano più capaci di dare vita a una prassi
politica congruente con le esigenze dei diritti e dei doveri umani di
un Paese nelle sue articolazioni territoriali in quanto la dimensione
circoscritta favorisce l’appropriatezza degli interventi. D’altra parte
questi soggetti collettivi intermedi hanno sia l’interesse e la capacità
di concorrere agli orientamenti della politica nazionale, sia l’opportunità
di collegarsi a comunità territoriali di altri Paesi nello spirito della
solidarietà internazionale. La città di Firenze, ai tempi del sindaco
Giorgio La Pira, è tuttora un esempio di questo respiro universale dell’azione
peculiare delle comunità aperte in quanto soggetti della politica di servizio.
Una società che può contare su una rete di simili realtà comunitarie possiede
il tessuto connettivo più sano per la rivitalizzazione democratica dei
partiti, dei sindacati, del Parlamento e anche del circuito informativo
dei media nazionali.
I passaggi ora sinteticamente richiamati non sono gli unici da prendere
in considerazione. Volevo solo dare un’idea della sostituzione che abbiamo
il dovere di operare già da subito: la sostituzione dello scoramento di
fronte alla situazione esistente, dell’illusorio ritiro a vita privata,
dell’indifferenza e della resa al cinismo con una partecipazione responsabile
che riunisca sentimento, pensiero, azione, associazione e convergenza
con gli altri. Sarà senza dubbio una via faticosa, carica di tensioni,
di sofferenze e spesso di frustrazioni. Ma non un sacrificio. Infatti
una delle esperienze più intense e reali della felicità è l’esperienza
dell’essere d’aiuto per sollevare qualcuno dalla condizione di oppressione
in cui è tenuto da un sistema iniquo di convivenza. Alcuni hanno il coraggio
di desiderare la possibilità di una vita felice, altri finiscono per non
pensarci più. Ma, intanto, contribuire alla liberazione degli esclusi,
dei poveri, dei respinti apre il cuore a un piacere di essere al mondo
che è la traccia di una felicità intera e universale. Una felicità sconosciuta,
eppure già abbastanza reale da risultare credibile.
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