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Alberto Vitali
Oscar A. Romero
Pastore di agnelli e lupi

Paoline, 2010
pag. 312, Euro 19.00

Il 24 marzo 1980 Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador, fu assassinato mentre celebrava l’eucaristia. Il mondo ne restò sconcertato, ma per i salvadoregni non fu una sorpresa: la sua, infatti, era una morte annunziata. Da tre anni ormai, Oscar Arnulfo Romero si era trasformato nella "voce di denunzia più lucida e attendibile del paese"; punto di riferimento obbligato per chi volesse capire che cosa stesse davvero succedendo e il solo capace di rendere la dignità rubata a migliaia di vittime, che mai sarebbero passate alla storia. Il suo omicidio aprì una porta sul baratro per il piccolo paese centroamericano: più di ottantamila morti, tra uccisi e desaparecidos, in dodici anni di guerra civile. Per comprendere la figura di Romero è necessario guardare anzitutto al suo popolo. Lui, infatti, non sarebbe mai diventato profeta se non gli fosse toccato d’essere vescovo di un popolo profetico già prima di lui. E non avrebbe mai avuto il coraggio di arrivare fino al martirio, se non gli fosse toccato d’essere vescovo di un popolo martire, molto più di lui. Per accostare e approfondire la figura di questo pastore è perciò necessario considerare la storia sociale e politica di El Salvador.
È quanto si propone l’autore in questa biografia, che si caratterizza per non fare del personaggio un mito, un «santino», un esempio di spiritualità avulsa dalla storia.


“Alcune persone sembrano nate
per cambiar la storia, per indicare vie nuove.
Lui no…
Non sarebbe mai diventato un rivoluzionario.
Il suo ministero episcopale, però,
in mezzo a un popolo profetico e martiriale,
gli provocò un processo irreversibile di cambiamento”.

Alberto Vitali

 

PREFAZIONE
Non ho conosciuto personalmente monsignor Romero, l’arcivescovo di San Salvador. L’avrei potuto incontrare a Puebla, nel Messico, per l’incontro dei vescovi latinoamericani nel gennaio 1979, per il quale ero stato designato come rappresentante dei vescovi italiani dalla Commissione della CEI per le Missioni, se all’ultimo momento non si fosse preferito sostituirmi con un vescovo più « sicuro ». Oppure nel gennaio 1980 – dal 4 al 13 – nella missione dei vescovi europei (incluso un cardinale, l’arcivescovo di Vienna), sollecitata da monsignor Romero per dare prestigio e coraggio agli episcopati dell’America Centrale, compresi dalle dittature controllate dagli USA.
La missione, organizzata dal Movimento internazionale per la riconciliazione (Jean Goss, apostolo della non violenza, aveva tenuto un apprezzato convegno a Bogotà e monsignor Romero ne aveva ricavato l’idea della missione dei vescovi europei), era stata sospesa su richiesta dello stesso monsignor Romero che si rifaceva all’abbattimento della dittatura nicaraguense da parte dei sandinisti e alla nuova giunta del suo Paese in cui sarebbe entrato anche il democristiano Napoleón Duarte.

Il 24 marzo 1980 monsignor Romero viene ucciso. E fu Pax Christi internazionale (di cui ero presidente) a promuovere, con il consenso dei vescovi locali, una « missione per i diritti umani », che visitò il Guatemala, El Salvador, il Nicaragua, convergendo poi, con rappresentanti di quei Paesi, in Panama per una sintesi che venne in seguito pubblicata. Personalmente vi partecipai
in modo informale, anche per non richiamare troppa attenzione in quei momenti difficili (in El Salvador venimmo avvertiti che eravamo già controllati dagli squadroni della morte!), toccando i singoli Paesi e ritrovandomi poi a Panama.
Nelle due notti che passai in El Salvador fui ospitato presso l’ospedaletto sulla collina, nella cameretta dove alloggiava monsignor Romero (non si fidava a dormire in centro città; nelle ultime notti si era addirittura fermato in un corridoio segreto presso la cappella dove poi fu ucciso). Confesso che mi lasciai prendere dalla curiosità di perlustrare la cameretta, lasciata come ne era uscito monsignor Romero l’anno antecedente (oggi è diventata un museo-sacrario). Mi colpì che libri e documenti si dividessero tra Bibbia, teologia e sociologia: era evidente l’impegno a conoscere sempre meglio la sua gente e a scoprirne le vicende concrete di sofferenza e oppressione, e d’altra parte di volerla aiutare con la luce della parola di Dio e con la forza della fede.
Nei molti colloqui con i suoi collaboratori, ma anche con la gente dei quartieri più poveri della città, emergeva la figura attenta e paterna dell’arcivescovo, confermata nei viaggi successivi, con visite ai villaggi e con l’itinerario del viaggio che portò padre Rutilio Grande alla morte e alla sepoltura nella chiesetta del suo villaggio. È così che venni a conoscere ulteriormente la personalità di monsignor Romero e a rendermi conto di come un vescovo fondamentalmente « conservatore »
e garantito dai politici della dittatura fosse poi stato « convertito » dalla sua gente e fosse diventato talmente critico del sistema dittatoriale da provocare il proprio assassinio. Quando ho preso in mano il libro dell’amico don Alberto Vitali (amico mio, ma soprattutto amico di El Salvador, dove si è recato ormai innumerevoli volte) devo dire che ho finalmente conosciuto monsignor Romero, tanta è l’accuratezza con cui don Alberto si è documentato e tanta è la precisione con cui espone la vicenda della vita di monsignor Romero compresa la «conversione» che ha avuto momenti singolari (come la notte di veglia sulla salma di padre Rutilio), che ha
avuto però un’evoluzione lenta ma costante, fino al martirio.
Riprendo la parola martirio perché ritengo che veramente monsignor Romero sia un martire, così come lo venera ormai tanta parte dell’America Latina. Che se i martiri tradizionalmente erano testimoni (così significa la parola greca martire) della fede, papa Giovanni Paolo II ha asserito il « martirio della carità » per quelli che – come padre Massimiliano Kolbe, offertosi in cambio di un compagno di prigionia designato a morire – testimoniano una carità che fa accettare per essa anche la morte. Monsignor Romero sapeva che il suo atteggiamento alimentava la speranza di una vita più libera, più umana e lo faceva in forza della sua missione di cristiano e di vescovo; sapeva che questo poteva portarlo alla morte e ha continuato proprio perché cristiano e vescovo.
Credo allora che possiamo definire monsignor Romero come martire della speranza. Se sarà canonizzato per la qualità della sua vita, sapremo che potremo invocarlo come martire, martire della speranza.

LUIGI BETTAZZI
vescovo emerito di Ivrea, già Presidente di Pax Christi


INTRODUZIONE
« La Chiesa ha una buona notizia da annunziare ai poveri. Quelli che da secoli hanno ascoltato cattive notizie e hanno vissuto le peggiori realtà, stanno ascoltando ora, attraverso la Chiesa, la parola di Gesù: “Il regno di Dio si avvicina”, “Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio”. E da ciò ha anche una buona notizia da annunziare ai ricchi: che si convertano al povero, per condividere con lui i beni del Regno». Queste parole, pronunziate da monsignor Romero all’Università di Lovanio (Belgio) il 2 febbraio 1980, un mese prima del suo martirio, riassumono bene il punto di arrivo e il lascito della sua esperienza pastorale. Nato e cresciuto in una realtà fortemente polarizzata tra pochi ricchi e la maggioranza impoverita e oppressa, Romero aveva condiviso l’idea, comunemente diffusa in ambito ecclesiale, secondo cui per essere un buon pastore bisognasse «farsi tutto a tutti»: non nel senso più autenticamente paolino, ma in quello di un accompagnamento pastorale sostanzialmente acritico dell’ingiustizia strutturale e accondiscendente nei confronti di quanti ne beneficiano.
Per questo, per alcuni anni si era mostrato infastidito dalle posizioni che la sua stessa Chiesa stava assumendo per realizzare le intuizioni della Conferenza di Medellín e ancor più sospettoso nei confronti della Teologia della liberazione. Quando però il ministero lo portò a scontrarsi con la tragica realtà del suo popolo, si rese conto che tanto il paternalismo nei confronti dei poveri quanto i consueti tiepidi inviti rivolti ai ricchi non erano più sufficienti a soddisfare il mandato evangelico. Comprese perciò di essere giunto a un bivio: doveva cambiare per non cambiare. Cambiare nella prassi per mantenersi fedele a quel Dio che l’aveva costituito pastore. Ciò non comportò una semplice scelta di campo, a favore degli uni contro gli altri. Anzi, quanto più si radicalizzava in lui l’opzione per i poveri – pastoralmente sostenuta dalle scelte dei suoi preti, delle religiose e comunità di base e teologicamente maturata con l’aiuto di Ignacio Ellacuría e Jon Sobrino – tanto più si faceva chiara la gravità della situazione morale in cui versavano i ricchi e la necessità di pronunziare una parola di salvezza anche per loro. Nella logica paradossale del Vangelo, infatti, la conversione è un appello rivolto anche e soprattutto ai servi di mammona3, perché – per quanto possa sembrare inverosimile – a Dio è possibile far passare persino i cammelli nelle crune degli aghi4. Capì allora che l’amore assume toni e posizioni diverse a seconda del destinatario delle sue attenzioni e accettò di andare incontro anche ai ricchi: con una parola di condanna del loro peccato, ma che schiudesse pure una possibilità di riscatto, pur consapevole che la sua San Salvador non era la Gubbio di Francesco e i lupi se a volte si ammansiscono, molto più spesso sbranano. Romero intuì così l’ultimo insegnamento del Maestro sulla croce superava tutti i precedenti: « Non c’è amore più grande di dare la vita anche per i propri nemici » (cfr. Gv 15,13). Nel frattempo la situazione è cambiata: in peggio. Dall’inizio del nuovo millennio, infatti, i numeri della fame hanno iniziato a crescere in modo esponenziale: il Rapporto FAO 2009 parla ormai di 1 miliardo e 20 milioni di persone affamate, una su sei nel mondo; mentre già oggi 1,3 miliardi di individui non ha accesso all’acqua potabile, ma saranno la metà dell’umanità nel 2015, con una conseguente scia di malattie, a cominciare dalla dissenteria: vera sterminatrice di bambini. Non è necessario quindi essere indovini o grandi analisti per capire come questo inasprirà i conflitti esistenti e ne provocherà di nuovi, intensificando il fenomeno delle migrazioni, a cui le società del benessere – rinchiuse a difesa dei propri privilegi – reagiranno con nuove forme di repressione. L’esperienza salvadoregna si rivelerà allora un microcosmo, nel quale si sono rivelate in anticipo una serie di dinamiche pronte a esplodere su scala internazionale. Per questo è necessario e urgente che i cristiani sappiano raccogliere il lascito di Romero: solo una Chiesa capace di fare una scelta radicale a favore dei poveri e abbia il coraggio di denunziare, senza censure né retropensieri, tanto l’ingiustizia strutturale come i singoli interessi di parte, può sperare di salvare assieme al gregge anche i lupi che gli girano attorno.
Già questo è sufficiente a dire come sia praticamente impossibile scrivere una biografia di Romero obiettiva, perlomeno nel senso comune del termine. Ognuno certo si sforzerà – com’è giusto che sia – di essere il più veritiero possibile, ma quella di Romero è una voce che provoca; che chiama cioè a prendere una posizione e non permette il benché minimo distacco. È così oggi, che viviamo un tempo relativamente vicino e presenta molte analogie sociali, politiche ed ecclesiali; ma lo sarà
sempre, perché quella vicenda tocca gli aspetti più essenziali e permanenti del nostro essere umani e cristiani.
Interrogato su che cosa resterà della Teologia della liberazione, Dom Pedro Casaldáliga rispose: «Resteranno i poveri e il Dio dei poveri ». Di Romero potremmo dire lo stesso: finché resteranno
i poveri e il Dio dei poveri, la sua storia ci ricorderà che il Vangelo ci obbliga a guardare e giudicare la realtà dal loro punto di vista, il più veritiero ed eticamente corretto, perché «l’emarginato ha interesse a smascherare la violenza della quale è vittima e a far trionfare la luce». Questa consapevolezza ha implicato una precisa scelta metodologica, nella ricerca delle fonti: assieme aidocumenti ufficiali, infatti, sono state raccolte le testimonianze di molte persone che a diverso titolo hanno collaborato con lui o semplicemente l’hanno incontrato.
Siano semplici ricordi o riflessioni elaborate negli anni, si tratta di racconti che non trovano «pezze giustificative» negli archivi curiali o civili e perciò qualcuno vorrebbe screditare come inattendibili; soprattutto perché carichi della passione di quanti non si sono limitati a guardare, ma hanno condiviso i pericoli e la mistica che hanno caratterizzato il servizio episcopale di monsignor Romero. Con il dovuto rispetto ai criteri della storiografia, non possiamo però ignorare come spesso anche i documenti ufficiali siano un po’ « accomodati », per mandare alla storia la verità appunto « ufficiale »; mentre i semplici e i poveri, non avendo particolari interessi da difendere, possano rivelarsi più veritieri. D’altronde, se negli stessi evangeli dovessimo salvare soltanto ciò che ha una conferma documentale, eliminando quanto è dovuto al racconto « di parte » dei suoi... resterebbe ben poco.
Quella descritta in queste pagine è quindi, principalmente, la vicenda di Romero come ce l’ha raccontata il suo popolo, in anni di accompagnamento reciproco. Desidero, infine, ringraziare alcune persone il cui aiuto mi è stato prezioso: Emma Nuri Pavoni, per la scelta, catalogazione e traduzione dei documenti; Mariella Tapella e Ana Concepción Castillo, per la raccolta di dati e testimonianze in El Salvador; monsignor Luigi Bettazzi e don Angelo Casati, rispettivamente per la Prefazione e la Postfazione, ma soprattutto per l’amicizia che mi hanno sempre dimostrato. Un ricordo particolare va infine a don Abramo Levi che, con la sua pubblicazione: Oscar Arnulfo Romero, un vescovo fatto popolo6 (la prima, apparsa in Italia nel 1981), ci ha fatto conoscere e amare la figura di questo grande pastore e martire e ora starà sorridendo con lui su tutti gli aspetti di questa storia che non abbiamo ancora capito.

ALBERTO VITALI