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Francesco Gesualdi
Il mercante d'acqua

Feltrinelli 2007
Pagine: 168
Prezzo: Euro 8

Una storia, un apologo che con sobrietà ricostruisce la parabola del “progresso” per lasciar intravedere una possibilità diversa di produrre e lavorare per il bene comune.

Il libro
Un giovane, che gira il mondo zaino in spalla e si guadagna da vivere con piccoli lavori che gli consentono di continuare a viaggiare, si imbarca un giorno con dei pescatori di coralli e approda su un’isola semideserta. Lì decide di fermarsi. In realtà sull’isola un villaggio c’è e il giovane si trova di fronte una comunità a suo modo felice, che lo accoglie e lo integra velocemente. La vita prosegue serena fino a quando l’acqua nei pozzi comincia a scarseggiare e poi si esaurisce completamente.
Nell’isola di Terrasecca – questo è il suo nome – c’è anche un padrone: Melebù. Vive in una villa al centro dell’isola circondata da bodyguard e soldati in divisa. Il suo pozzo è l’unico ancora pieno. Per ottenere l’acqua della sopravvivenza, il villaggio decide di vendere tutti i pozzi vuoti a Melebù, che ha già organizzato una stazione di rifornimento d’acqua per le navi in transito.
Melebù ha tutte le caratteristiche di un imprenditore ottocentesco, è un “capitalista classico” e vede nei lavoratori soltanto manodopera da sfruttare per ricavarne il massimo profitto. Alla sua morte subentra il nipote, che decide di prendere in considerazione le richieste salariali e sociali del villaggio. La vita sull’isola sembra così migliorare. Anche perché il nuovo padrone permette agli operai di diventare consumatori dei propri prodotti e crea in questo modo nuove esigenze di consumo. Fioriscono nuovi stabilimenti, la pubblicità e i primi fast food: la rincorsa ai consumi disgrega però la comunità-villaggio e i pozzi sono ormai in buona parte avvelenati dalla plastica e dai pesticidi. Un gruppo di ribelli convince allora gli abitanti a boicottare i prodotti industriali e a procurarsi da soli ciò di cui hanno bisogno.
Ce la faranno. A Terrasecca ormai le sicurezze personali sono garantite dall’economia del bene comune, che riesce a garantire diritti in cambio di tempo.


da 1. In cerca di legami

Un parallelepipedo compatto, lunghe file di finestre tutte uguali e un aspetto dimesso. È al terzo piano di uno di quei palazzi di periferia che sono cresciuto. Una vita come tante altre fatta di scuola, palestra, partite di calcio e tanta televisione. La mia camera era zeppa di tutte le felicità: vestiti firmati, telefonino dell’ultima generazione, computer a schermo ultrapiatto, televisore al plasma. Eppure qualcosa non andava. Dentro di me. Mi sentivo insoddisfatto, senza prospettive, avvertivo quel vortice di cosiddetta felicità come la facciata del regno del niente.
Se ripenso alla mia immagine di allora, la ricordo sempre imbronciata. Davanti allo specchio assistevo, negli anni, alla mia trasformazione, alla prima peluria sulle guance, al primo accenno di baffi e agli immancabili brufoli. Ma la bocca era sempre all’ingiù, come se agli angoli avesse dei tiranti.
I miei genitori lavoravano dal mattino alla sera, uscivano di casa con il buio e tornavano solo per cena. Mi vedevano poco, ma abbastanza per cogliere la mia aria lugubre. Una sera, passando davanti alla loro camera, li sentii parlare:
“Vorrei sapere perché Sergio ha sempre quella faccia da funerale,” diceva mio padre, “non gli facciamo mancare niente!”.
E mia madre: “Forse dovremmo aumentargli la paghetta. Ormai ha sedici anni, è giusto che possa comprarsi quello che vuole”.
Soldi. Forse è stato il primo messaggio che i miei genitori mi hanno trasmesso. Mia madre era convinta che fossero tutto, che potessero lenire qualsiasi ferita. Ma il mio male non si curava col denaro. La cura sarebbero stati l’affetto, l’ascolto, il contatto. La presenza dei miei genitori mi è sempre mancata come l’aria all’annegato. Mi mancavano le loro coccole, le loro attenzioni, i loro rimproveri perfino.
Quando ero piccolo, mi accudiva mia nonna. Poi morì, se la portò via un male incurabile. Fu allora che mia madre mi fece il discorso di rito:
“Ormai sei un ometto e devi badare a te stesso. Io e papà non possiamo stare a casa con te, dobbiamo andare a lavorare perché senza soldi... ”. E allargò le braccia, nel tentativo di abbracciare i mobili, il televisore, i miei videogiochi, l’intera casa se fosse stato possibile.
Gli anni passavano e il mio migliore amico divenne lo specchio, compagno di giochi e confidente. A lui raccontavo le mie rabbie, le mie paure, i miei desideri. Gli facevo le boccacce per ridere un po’ e lo fissavo per scorgere il mio corpo che si allungava fino a diventare un metro e ottanta, che si riempiva di peluria, che si irrobustiva. Studiavo il mio viso, compiacendomi del verde delle iridi, delle sopracciglia folte, del naso marcato ma non esagerato, dei capelli robusti che poi al liceo lasciai crescere fra le proteste di papà.
Quella bocca, però, si ostinava a rimanere all’ingiù. Finché non decisi di uscire dalla gabbia. Mi guardai come al solito allo specchio e mi dissi che era giunto il momento di abbandonare i falsi rapporti, i tradimenti. Era inutile piangersi addosso, bisognava tuffarsi nel mondo e cercare fuori di casa ciò che i miei genitori non erano stati capaci di darmi: i legami umani.


Mi lasciai crescere la barba per coprire la bocca all’ingiù e partii con un bagaglio leggero. Zaino, sacco a pelo e qualche soldo. Volutamente pochi. Non avevo un itinerario da seguire, né un tempo per tornare, solo una gran voglia di conoscere e sperimentare i rapporti umani.
Mi spostavo in autostop e stabilivo le tappe in base ai passaggi. Panini e acqua alle fontane erano il mio pasto. Come riparo, fienili o case in costruzione. Talvolta il solo ciglio della strada.
Non ci misi molto a scoprire, con piacere, che la generosità abitava ancora fra gli esseri umani. Molti camionisti mi presero a bordo, portandomi prima a nord, poi a est, a ovest e infine a sud. Il poco denaro che avevo finì presto e cominciai a fermarmi nelle campagne, per dare una mano ai contadini nella raccolta dei pomodori, dell’uva, delle mele, in cambio di qualche spicciolo, oltre al vitto e all’alloggio. Uno scambio equo, una vita alla pari che fino a quel momento non avevo ancora sperimentato.
Incontrai famiglie accoglienti e ladri senza scrupoli. Contadini che amavano la natura come la loro madre e agricoltori che in nome del denaro spargevano veleni come caramelle. Santi e malfattori mescolati sotto lo stesso cielo. Uomini e donne, nel bene e nel male. Finalmente potevo dire di essere anch’io uno di loro.
Di famiglia in famiglia raggiunsi il mare e chiesi lavoro ai pescatori. Sembravo nato per riparare le reti, sistemare le vele, reggere il timone. Il vento fra i capelli mi faceva sognare altri mondi e l’infinito del mare mi trasmetteva un profondo senso di pace. Decisi di restare come se fosse la mia scelta di vita.
Poi arrivò l’inverno e scoprii il lato duro del mestiere. Quando infuriava la bufera, i nostri barconi diventavano gusci di noce che rischiavano continuamente di rovesciarsi.
Fra lavoro, canti e paure i mesi volarono impalpabili, finché tornò il tepore della primavera. Una mattina il capo dei pescatori – un pezzo d’uomo con una zazzera bianca e una barba altrettanto candida che risaltavano sulla carnagione olivastra – mi disse di prepararmi, saremmo usciti per due settimane.
“Quindici giorni in mare?” chiesi.
“No,” rispose lui, “andiamo su un’isola a un giorno di barca da qui. Ci fermeremo per raccogliere coralli, questa è la stagione propizia.”
Il tempo di arrotolare il sacco a pelo e preparare lo zaino e raggiunsi gli altri per occuparmi delle provviste. Stivammo pane, farina, salsicce, formaggio, frutta. Quanto bastava per la traversata e le necessità dei primi giorni. Con l’acqua, invece, abbondammo. Gli ordini del capo erano stati chiari:
“Caricate più acqua che potete. Se possibile, per l’intera permanenza”.
“Perché?” chiesi incuriosito.
“Lo capirai da solo,” tagliò corto lui, quasi seccato.
Quando la costa fu alle nostre spalle, mi accorsi che mi accompagnava un altro spirito. L’idea di navigare senza fermarci a gettare le reti mi faceva sentire come un turista in crociera e alcuni particolari che prima davo per scontati ora mi apparivano sotto un’altra luce: i gabbiani ci seguivano come angeli custodi e i delfini si esibivano in giochi acrobatici. E poi l’azzurro del mare, sempre diverso. Turchese, blu cobalto, una sinfonia di tonalità che prima dell’imbrunire lo trasformavano in blu scuro, quasi nero.
Per cena, pane e salsicce. Il cibo piccante stimolò la voglia di vino e ci passammo il fiasco di mano in mano. Seduti uno accanto all’altro, spalla contro spalla, le schiene appoggiate alla battagliola, l’allegria si diffuse come un’epidemia. Il profumo del legno intriso d’acqua mi solleticava le nari. Chiusi gli occhi, volevo acuire il senso dell’olfatto. Luk, in mezzo alla cui barba rossiccia si intravedevano occhi gentili, pizzicava le corde della chitarra. Riaprii gli occhi e mi unii ai canti di saluto al mare. Cantammo sotto le stelle sino a notte fonda. Quando la voce mancò e gli occhi cominciarono a chiudersi, ci sdraiammo e ci addormentammo. […]