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Le emozioni ferite
Eugenio Borgna
Feltrinelli, 2009
p. 224, Euro 17.00
In breve
Nel solco dei lavori precedenti, Eugenio Borgna ci guida lungo un
nuovo itinerario interiore alla riscoperta di stati d’animo ed emozioni
che ci parlano di quello che si svolge nella nostra psiche e nella nostra
anima, e insieme sono le chiavi per accedere al cuore delle esperienze
degli altri, in psichiatria come nella vita quotidiana.
Il libro
Il libro è indirizzato alla ricerca delle emozioni perdute: le emozioni
che curano e quelle che, nel dolore e nella follia, anelano a essere riconosciute;
le emozioni che, gracili e segrete, si colgono nella gioia e nel silenzio;
le emozioni che si intravedono nella luce degli occhi e nei vasti quartieri
della memoria; le emozioni che sono matrici di poesia. Sono emozioni che
il libro intende fare riemergere nella loro verità psicologica e umana,
e nell’importanza che esse hanno per la conoscenza di sé e per lo svolgimento
di relazioni interpersonali dotate di senso. Sono emozioni che fanno parte
della vita normale e della vita psicopatologica
Quando è la ragione a generare mostri. Intervista
a Eugenio Borgna
di Giulio Brotti, tratta da “L’Eco di Bergamo”, 2 luglio 2009
“Rimarranno senza luce questi abissi del cuore, rimarrà abbandonata
l'anima con le sue passioni, al margine dei cammini della ragione?”. Eugenio
Borgna pare aver colto in queste parole della filosofa spagnola Maria
Zambrano - da lui spesso citate - una sfida. Confrontandosi con l'autre
monde della follia (a lungo frequentato quando era responsabile del
servizio di psichiatria dell'Ospedale Maggiore di Novara), egli ha voluto
esplorare progressivamente, nei suoi libri, i “paesaggi dell'anima”, partendo
dall'assunto che anche i sentimenti più caliginosi, come l'angoscia, il
lutto, la disperazione, abbiano un significato autenticamente umano, meritevole
di interpretazione e ascolto. L'ultima tappa in questo cammino di conoscenza,
al momento, è costituita dal volume Le emozioni ferite: anche in
questo caso, l'indagine procede in un confronto con i maestri della cosiddetta
“psichiatria fenomenologica” (come Karl Jaspers, Ludwig Binswanger ed
Eugène Minkowski) e, ancor più, con le opere di narratori e poeti (tra
gli altri: Leopardi, Holderlin, Emily Dickinson, Clemente Rebora, Milan
Kundera), sul presupposto che la grande letteratura possa contribuire
quanto gli studi clinici alla comprensione dei fenomeni della psiche.
“Nella prima metà del Novecento- spiega Borgna, già docente di Clinica
delle malattie nervose e mentali presso l'Università di Milano - la psichiatria
ha operato una ‘svolta emozionale’: ha cioè rivalutato il ruolo delle
emozioni e dei rapporti intersoggettivi, come elementi fondanti dell'esperienza
umana. In questo, ha ripreso le intuizioni di pensatori come Edmund Husserl
ed Edith Stein, anche se, per la verità, già Agostino e Pascal avevano
insistito sulla centralità degli affetti, come autentiche fonti di conoscenza
su noi stessi e il mondo. Lo stesso Leopardi, su questo tema, ha scritto
parole splendide: ‘Non bisogna estinguer la passione colla ragione - leggiamo
nello Zibaldone -, ma convertir la ragione in passione", perché
la ragione, da sola, ‘non è forza viva né motrice’. Talvolta, si sospetta
dei sentimenti: lasciati a loro stessi, si dice, porterebbero all'egoismo
e alla sopraffazione reciproca: ma proprio la storia del Novecento ha
mostrato che cosa avviene quando si coltiva l'idolatria di una ‘razionalità
assoluta’, pretendendo di ridurre al silenzio le passioni”.
Anche l'insonnia della ragione, dunque, genera mostri?
Sì. Le emozioni, ufficialmente bandite, ritornano allora in scena in forme
selvagge, distruttive; si pervertono in ideologie disumane.
Vorremmo un suo giudizio, professore, su una tesi che presentiamo
in forma un po' paradossale. Al di là delle apparenze di segno contrario,
forse la cultura contemporanea è afllitta da un eccesso di “spiritualismo”:
nella visione prevalente, la sfera pubblica dovrebbe essere regolata da
una razionalità formale, che non avrebbe però nulla da dire sulle esistenze
individuali, sulle modalità con cui ciascuno di noi ricerca la propria
felicità, ad esempio, o affronta le esperienze-limite della solitudine
o del lutto. Si riconosce al singolo cittadino il diritto alla privacy,
ma lo si espone al rischio del mutismo, della disperazione.
Direi che noi oggi assistiamo a un tentativo - più o meno consapevole,
in ogni caso impressionante - di rimuovere dal discorso pubblico ogni
traccia di vera intersoggettività, di vera intimità, di tutti quegli atteggiamenti
umani che non si possono spiegare in termini di efficacia strumentale,
di fungibilità. Si misconosce tutto ciò che non ha un valore economico-finanziario,
in senso lato. Tuttavia, quando viene meno l'attenzione all'interiorità,
quando le emozioni sono accettate o rifiutate solo in base alla loro "gradevolezza"
o alloro "valore adattativo", il territorio della psiche cade in balìa
di forze impazzite. La nemesi di una società che vorrebbe reggersi solo
in base al principio d'efficienza è ben visibile, oggi, negli scoppi di
violenza irrazionale che l'attraversano.
La stessa psichiatria non è esposta alla tentazione del conformismo?
Talvolta tende a perseguire, forsennatamente, l'ideale di una perfetta
"normalizzazione dell'io". Si confonde la tristezza con la depressione,
non si concede alcuno spazio alle esperienze del dubbio e della fragilità;
si vorrebbero livellare le infinite sfumature della vita emozionale. Si
immagina di potere e di dovere risparmiare al paziente, per via farmacologica,
ogni sofferenza o "eccesso umorale", trattando le emozioni come sintomi-bersaglio.
La questione della ricerca di un significato nella propria vita e nella
relazione con gli altri esseri umani si riduce così alla necessità di
mantenere una condizione "standard", un accettabile grado di efficienza
nello sbrigare gli impegni quotidiani.
Leggendo Le emozioni ferite, ci è venuto in mente che forse
proprio sul piano della “condivisione emotiva” si potrebbe ripensare la
questione tanto dibattuta dello “scontro/incontro tra civiltà”. Nel senso
che una soluzione potrebbe venire non da grandi elaborazioni teoriche,
ma dalla frequentazione quotidiana di persone un po' diverse da noi, con
abitudini che magari ci sembrano strane, ma che come noi amano e accudiscono
i genitori anziani, si preoccupano per l'avvenire dei figli...
La questione dei rapporti tra diverse culture ha due aspetti: quello sociologico
o politico-diplomatico, e quello dell'appartenenza a una comune umanità,
come lei suggerisce. lo credo che questo secondo aspetto sia più profondo:
le strutture portanti della condizione umana sono appunto intessute di
emozioni comuni, a prescindere dalla cultura d'origine dei singoli individui;
e aggiungerei che per alcuni valori attinenti a questo "nucleo" si può
anche morire, come accade in questi giorni a Teheran. Forse, una possibile
strategia per la risoluzione dei conflitti può passare proprio per la
riscoperta delle emozioni che accomunano donne ed uomini di differenti
contesti sociali: si aprirebbero così, forse, brecce inattese e provvidenziali,
in situazioni apparentemente irrisolvibili da un punto di vista solo politico.
Rispetto ai precedenti, in questo suo ultimo libro lei dedica diverse
pagine al sentimento della gioia, “che non è la felicità”. Potrebbe chiarirci
il senso di questa distinzione?
La gioia è l'esperienza emozionale più fragile e insieme più metafisica.
A differenza della felicità, la gioia non richiede uno stato di benessere
prolungato: il suo tempo specifico, piuttosto, assomiglia all"'eterno
presente" di cui parla Agostino, in cui confluiscono il passato e il futuro.
La gioia si esprime nel sorriso, certamente, ma anche nelle lacrime: sono
irrorati di lacrime gli scritti mistici di BIaise Pascal, di Teresa d'Avila
e della giovane ebrea olandese Etty Hillesum, perita nel 1943 ad Auschwitz.
In una pagina del suo diario leggiamo: "Il gelsomino dietro casa è completamente
sciupato dalla pioggia e dalle tempeste di questi ultimi giorni, i suoi
fiori bianchi galleggiano qua e là sulle pozzanghere scure e melmose che
si sono formate sul tetto basso del garage. Ma da qualche parte dentro
di me esso continua a fiorire indisturbato, esuberante e tenero come sempre,
e spande il suo profumo tutt'intorno alla tua casa, mio Dio. Vedi come
ti tratto bene. Non ti porto soltanto le mie lacrime e le mie paure, ma
ti porto persino, in questa domenica mattina grigia e tempestosa, un gelsomino
profumato. Ti porterò tutti i fiori che incontro sul mio cammino, e sono
veramente tanti".
Forse, i mistici in senso proprio hanno un vocabolario più ampio per
descrivere un'esperienza che può comunque ricorrere nella vita di ogni
uomo. Ci viene in mente una frase dell'Ethica di Spinoza: sentimur
percepimurque nos aeternos esse (“sentiamo e percepiamo di essere
eterni”): nella gioia ci pare di intuire che non tutto, di ciò che siamo
ed amiamo, sia destinato a perdersi nel tempo.
Concordo. D'altronde, il termine "mistico", etimologicamente, equivale
a "indicibile"; e ogni essere umano può fare esperienza, in se, di un
infinito che non riuscirà mai a descrivere a parole. Semmai, si potrà
evocare questa dimensione mediante immagini, metafore; ma non ci sono
immagini - affermava Eugène Minkowski - senza emozioni che le facciano
zampillare.
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