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L’attesa
e la speranza
Eugenio Borgna
Collana: Campi del sapere
Pagine: 216
Prezzo: Euro 16
un commento
Le parole tematiche
Cosa mi propongo di fare in questo lavoro che ha come sue stelle polari
l’attesa e la speranza come strutture portanti, fra le altre certo,
della condizione umana non-psicotica e psicotica?
Sulla scia di una fantasia proustiana perduta e ritrovata, quella incentrata
sul mio primo giorno di lavoro in ospedale psichiatrico con le sue speranze
e le sue attese, con i suoi bagliori e le sue illusioni, con le sue nostalgie
e le sue ansie, mi sono avviato al recupero e alla ricostruzione degli
elementi drasticamente psicologici e umani della follia che ho conosciuto
in ospedale psichiatrico; e questo al di là di ogni elemento psicopatologico
e clinico: la follia insomma come compagna di vita di molte umane esistenze
nella sua dimensione fragile e talora elegiaca, camaleontica e talora
crudele, nostalgica e talora disperata. Non la follia come malattia, della
quale ho cercato di parlare in molti miei lavori, ma la follia come immagine
nella quale si rispecchiano le inquietudini e le insicurezze, le ferite
e le illusioni, che sono presenti da sempre nel cuore di ciascuno di noi
e che talora si radicalizzano e si incendiano.
Non ci sono attese, e non ci sono speranze, se non nel contesto del tempo:
del tempo (interiore) agostiniano e pascaliano, proustiano e bergsoniano;
e allora del tempo, e non solo del tempo dell’attesa e della speranza,
ma anche del tempo della noia e della malinconia, del tempo dell’angoscia
e delle esperienze psicotiche, del tempo nella pittura (in alcune immagini
pittoriche che testimoniano di un tempo dell’angoscia e della passione),
vorrei dire qualcosa che consenta di riconsiderare la questione del tempo
nell’orizzonte di alcune emozioni: senza le quali non è possibile
nemmeno intravedere i cammini frastagliati della sofferenza e della vita.
In ogni caso, riflettere (continuare a riflettere) sul tempo, sul tempo
dell’io che non è il tempo dell’orologio, ci avvicina
ai modi di essere di esperienze psico(pato)logiche altrimenti insondabili.
Dalle figure del tempo a quelle dell’attesa e della speranza con
le quali si conclude la seconda parte del lavoro. L’attesa come
matrice delle attese senza fine nelle quali siamo immersi nel corso della
nostra vita; e alle quali non possiamo sfuggire al di là degli
stati d’animo e al di là delle situazioni: dalle quali siamo
accompagnati con la loro scia di inquietudini e di angosce. Ci sono linee
tematiche diverse nell’attesa e nelle attese; ma vorrei ora richiamarmi
alle attese che riemergano dagli occhi e dagli sguardi (attendere è
aspettare, e aspettare è anche guardare) delle pazienti e dei pazienti:
immersi nella solitudine della sofferenza e della malattia, della angoscia
e del dolore, e aggrappati alle parole e agli sguardi del medico: alle
attese che si dissolvono nella sua presenza. Cogliere le molteplici dimensioni
dell’attesa, le sue figure scintillanti e dolorose, è avvicinarsi
al nocciolo segreto della vita e della vita di relazione.
La speranza e le speranze sono analizzate e descritte nelle loro fondazioni
teoriche (filosofiche e teologiche, letterarie e fenomenologiche) e nelle
loro applicazioni pratiche (psicopatologiche e relazionali, conoscitive
e terapeutiche). Non possiamo non sperare: come diceva Giacomo Leopardi:
non possiamo non affidarci alle sue navicelle fragili e vulnerabili: se
vogliamo vivere e se vogliamo essere utili agli altri. Ma accostarsi alla
linfa nascosta della speranza e delle speranze è una premessa che
ci consente di cogliere la speranza nel cuore della esperienza: della
esperienza della malattia e della sofferenza e anche della cura e della
assistenza. Certo, i significati della attesa e della speranza si rincorrono
e si allontanano inafferrabili ed enigmatici; ma è necessario ritrovarli
e riflettere su di essi.
Cosa ho cercato di dire nella terza parte del libro? Indicare e descrivere
come la speranza possa essere interpretata e come possa frantumarsi in
destini umani diversi e segnati da orizzonti di senso radicalmente diversi.
Muovendo dai grandi testi di prosa e di poesia di Giacomo Leopardi la
speranza è delineata nella sua emblematica significazione umana
ma anche nella sua friabilità e nella sua possibile inconsistenza;
e ancora la speranza è correlata con la situazione estrema del
suicidio: colta nella sua realtà dilemmatica e nondimeno non del
tutto estranea ai fantasmi della speranza. Rompendo poi con gli abituali
(formalistici) schemi di ricerca in psichiatria alle tesi dolorose e sconsolate
di Leopardi vorrei accostare le tesi che sulla speranza e sul suicidio
sono state espresse da Georges Bernanos e da Robert Bresson nei suoi film
intensi e stupefatti.
Dalla speranza infranta e dal suicidio solo immaginato e fantasticato
al suicidio che si cerca di attuare e che fallisce sulla scia di cause
talora imprevedibili e inattese; e allora giungo alla descrizione psicopatologica
e fenomenologica di alcune pazienti nelle quali il timore e il desiderio
della morte si intrecciano in una sintesi fatale dalla quale riemerge
l’azione autodistruttiva: che non si realizza.
Dal suicidio solo immaginato, e rappresentato, e dal suicidio tentato
e fallito, al suicidio che si attua nel solco di motivazioni diverse e
talora oscure, e che si accompagna in ogni caso ad espressioni testuali,
diaristiche e talora poetiche, nelle quali lo scacco della speranza e
il rifiuto della vita si manifestano con palpitante e crudele verità
psicologica.
Come, in particolare, avviene in Cesare Pavese che nel suo diario, nelle
sue lettere e anche talora nelle sue poesie, dimostra a partire dalla
adolescenza una radicale dissonanza e una profonda incapacità nel
cogliere gli orizzonti di valore e di senso della vita, e una enigmatica
tendenza a riguardare la morte come la sola ragione della vita. Da questi
testi, benché talora aridi e prosciugati, riemergono in ogni caso
analisi interiori che aiutano a comprendere la genesi umana e psicologica
di un suicidio.
I modi di vivere e i modi di morire (di morte volontaria) di Margherita
e di Ellen West concludono questa terza parte; delineando gli aspetti
psicopatologici del suicidio che nasce nel solco di esperienze francamente
psicotiche e che si accompagna a sensibilità e a vulnerabilità
radenti, e creative: tali da rivelare ancora una volta le ombre, ma anche
le luci, che nascono da esistenze solo apparentemente desertificate e
svuotate. La climax tematica delle esperienze vissute di Margherita e
di Ellen West è contrassegnata da elettive affinità: dalla
comune tendenza, drasticamente evidente già nella adolescenza,
ad analizzarsi e ad immergersi in una acuta nostalgia della morte che
si è infine realizzata lungo un diverso cammino esistenziale e
psicopatologico. Dalla riconsiderazione del loro destino rinascono elementi
di radicale importanza sul senso del suicidio e sulle sue radici: che
non sono state, certo, quelle del suicidio di Pavese, o di Antonia Pozzi.
La categoria psicopatologica e clinica, che riassume in sé la genesi
e la evoluzione dei suicidi nei quali sono sprofondate le esistenze ferite
ricostruite nei loro aspetti essenziali, è quella della suicidalità
cronica: quella di una nostalgia indicibile della morte volontaria che
si inizia nella adolescenza e si prolunga in vita: mitigata ed esasperata,
frenata e scompensata, dagli eventi e dalle situazioni: dalle speranze
negate e dalle illusioni falciate: dalle attese senza fine.
Nell’ultima parte del libro l’insieme delle riflessioni e
delle esperienze, che si sono venute delineando a mano a mano, confluisce
nell’area della terapia: della psicoterapia come friabile salvagente
con cui cercare di arginare gli impulsi autodistruttivi psicotici e non-psicotici.
I grandi temi dell’attesa e della speranza, del silenzio e della
immedesimazione, del linguaggio delle parole e del linguaggio del corpo,
del tempo interiore (del tempo vissuto) che è così diverso
in chi cura e in chi è curato, si radicano ora vertiginosamente
nei modi di incontro e di ascolto, di colloquio e di controtransfert emozionale,
con chiunque sia aggredito da angoscia della morte e da pensieri di suicidio:
da volontà di suicidio. Le nostre attitudini ad attendere e ad
aspettare, a sperare contro ogni speranza, sono forse decisive nel salvare
un umano destino alla deriva.
Umberto Galimberti: L’attesa e la
speranza. Un saggio di Eugenio Borgna
Tratto da “la Repubblica”, 13 maggio 2005
Siccome la vita vive finché c’è un “ancora”
da vivere, l’attesa e la speranza sono le dimensioni costitutive
della vita, su cui Eugenio Borgna raccoglie le sue riflessioni in uno
splendido libro che ha per titolo appunto L’attesa e la speranza.
Lo scenario è quello della follia, i cui vissuti interiori differiscono
dai nostri solo per intensità. Per questo allontaniamo i folli
da noi, per non vederci e per evitare quella conoscenza di sé che,
per gli uomini d’oggi, è l’esperienza più inquietante.
Ma Eugenio Borgna ha la delicatezza di accostare il mondo della follia
attraverso l’esperienza poetica, perché i poeti, come ci
ricorda Heidegger: “Sono i più arrischianti”, quelli
che osano spingere l’esperienza umana fino al suo limite, affinché
ceda il suo senso o il suo non senso, in quegli abissi di verità,
che la poesia, la letteratura e talvolta la filosofia sanno raggiungere,
al di là delle diagnosi cliniche il cui vocabolario, spesso, sembra
solo un’armatura difensiva. Sia l’attesa sia la speranza hanno
a che fare con il futuro, quindi con la vita che ha da venire. L’attesa
con l’avvenire immediato solitamente legato a un evento, la speranza
con un futuro lontano pieno di promesse, senza le tracce dell’ansia,
dell’inquietudine, della perplessità, dell’insicurezza
che caratterizzano l’attesa. C’è infatti un forte nesso
tra l’attesa e l’angoscia.
Nell’attesa infatti c’è una vertiginosa accelerazione
e un’enigmatica anticipazione del futuro che brucia il presente
e rende insignificanti i suoi momenti, perché tutta l’attenzione
e la tensione è spostata in avanti, spasmodicamente concentrata
sull’evento che si attende, come evento di felicità che può
andare delusa o come evento infausto che non si sa come evitare. Nell’attesa
non c’è durata, non c’è organizzazione del tempo,
perché il tempo è divorato dal futuro che risucchia il presente
a cui toglie ogni significato, perché tutto ciò che succede
è deviato dall’attesa, che prende forma nello sguardo e nel
volto. Attendere, aspettare rinviano al latino “ex-spectare”
rafforzativo di “specere” che significa “guardare”.
L’attesa si fa corpo nello sguardo, dove si stratificano il timore,
l’angoscia, la speranza e talvolta tragicamente il silenzio, perché
lo sguardo che attende chiede di rintracciare nello sguardo dell’altro
a cui si rivolge una risposta alla sua attesa. E qui Borgna, per la prima
volta, racconta la sua esperienza personale nell’ospedale psichiatrico
di Novara (dov’era primario prima della chiusura dei manicomi a
cui diede un grosso contributo) per tematizzare la relazione medico-paziente,
a partire dall’attesa scritta nello sguardo del paziente e dalla
risposta a quell’attesa ignorata dallo sguardo del medico, che spesso
non vede persone ma sintomi, non percepisce vissuti ma deragliamento di
comportamenti, pensa di poter guarire un’anima prescindendo dell’anima.
Quando lo sguardo si fa clinico, perché, come ci ricorda Kafka:
“È più facile scrivere una ricetta che parlare con
un sofferente”, la competenza ha il sopravvento sull’umanità,
l’estraneità sulla richiesta di comprensione, e l’attesa
che modulava lo sguardo del paziente ricade su se stessa delusa e ignorata.
Nell’affidarla alla genericità del farmaco non si è
colta la specificità della sofferenza, perché il modo di
ammalarsi, se è uguale per tutti quando le malattie sono del corpo,
è specifico per ciascuno quando la malattia è dell’anima,
per cui equiparare la competenza psichiatrica alla competenza medica significa
non solo ignorare la specificità della sofferenza psichica, ma
anche la specificità dell’intervento psichiatrico, che con
quello medico ha solo marginali similitudini. Lo sguardo del medico, più
del farmaco, può restituire speranza all’attesa iscritta
nello sguardo del paziente, perché la speranza, guardando più
lontano e ampliando lo spazio del futuro, distoglie l’attesa dalla
concentrazione sul presente e, liberandola dall’immediato, la dilata
in orizzonti che la concentrazione sul presente aveva cancellato. Speranza,
infatti, è l’apertura del possibile, essa fa riferimenti
a quei nuovi cieli e a quelle nuove terre che sono promessi dalla religione,
dall’utopia, dalla rivoluzione, dalla trasformazione personale che
siamo soliti temere, perché arroccati alla nostra identità,
assunta come un “fatto” e non come una interminabile e mai
conclusa “costruzione”. Noi siamo una costruzione. E se l’attesa
è l’ansia che quella costruzione che noi siamo abbia buon
fine, la speranza attiva il nostro comportamento affinché sia nelle
nostre mani l’accadere del buon fine. In questo senso diciamo che
l’attesa è passiva, essa vive il tempo come qualcosa che
viene verso di noi, la speranza invece è attiva perché ci
spinge verso il tempo, come quella dimensione che ci è assegnata
per la nostra realizzazione. Il dolore, la sofferenza, l’infelicità
sono sempre accompagnati da un margine di passività.
Effetto psicologico della cultura religiosa che ci fa pensare “nelle
mani di Dio”, il quale, se sappiamo sopportare, sa garantirci la
vita eterna. I greci, che non avevano speranze ultraterrene, conoscevano
la crudeltà della natura che vive della morte degli individui che
genera e, a partire da questa visione tragica, insegnavano a sostenere
il dolore e, per il breve tempo che ci è concesso di vivere, a
condurre una “vita buona” che, se ben governata e non gettata
in balia degli eventi, poteva essere anche una vita felice. Attivi per
quel tanto che ci è dato da vivere, non passivi perché “nelle
mani di Dio”. E siamo attivi quando con la speranza andiamo verso
il tempo e non quando con l’attesa aspettiamo che il tempo venga
verso di noi. Quando l’attesa è disabitata dalla speranza
subentra la noia, dove il futuro perde slancio e il presente si dilata
in uno spessore opaco dove il tempo oggettivo, quello dell’orologio,
cadenza il suo ritmo sul tempo vissuto che si è arenato, infossato,
arrestato. Nella noia ogni attesa è risucchiata, ogni speranza
è estinta, non ci sono più né progetti né
storia, ma tutto affoga nel gorgo di un presente, dove ogni orizzonte
di senso si inaridisce e si spegne. Se un giorno è come tutti,
tutti i giorni sono come uno solo, nell’uniformità perfetta
di una vita che assapora quel vuoto d’esperienza che accade quando
si sono vanificate tutte le attese, tutte le speranze, tutte le illusioni.
È allora che l’impossibile, come un muro, sbarra tutte le
vie del possibile che alimentano il futuro. E lo spazio lasciato vuoto
dal futuro, disertato sia dall’attesa sia dalla speranza, viene
occupato dal dilagare del passato che divora tutte le attese e tutte le
speranze, sottraendo al tempo la sua dimensione a venire. È a questo
punto che dalla noia si passa alla depressione, che fa retrocedere tutte
le parole che invitano alla speranza, affondandole in quell’inarticolato
all’altezza del quale c’è solo il grido che talvolta
spezza la corazza opaca e spessa del silenzio che, massiccio, avvolge
la solitudine della depressione come stato dell’animo senza tempo.
Senza attesa e senza speranza il tempo si fa deserto che, in assenza di
futuro, si espande dal presente muto in cui, per invivibilità,
il depresso disabita ogni evento, al passato che ha disertificato amori
che non si sono radicati, creatività estinte al loro sorgere, ricordi
che non hanno nulla a cui riaccordarsi, in quella solitudine frammentata
dove l’identico, nella sua immobilità senza espressione,
coglie quell’altra faccia della verità che è l’insignificanza
dell’esistere. E allora la morte, questo assoluto silenzio, inizia
a parlare con il tono tranquillo di chi sa quanto, in certe circostanze,
sia seducente il suo invito. Fine del baccano indiavolato con cui quotidianamente
tentiamo di distrarre la nostra anima. Un baccano che è la parodia
del grido che affonda in un tempo senza attesa. Eppure, scrive Borgna,
anche nel suicida la speranza non è del tutto estinta, perché
non si potrebbe compiere quel gesto se la morte non fosse vista come la
sola ragione di vita, dopo che le speranze sono state negate, le illusioni
falciate e le attese sono apparse senza fine.
Questa condizione così frequente nell’adolescenza spesso
si prolunga nella vita, ora mitigata, ora esasperata, ora frenata e ora
scompensata. Resa fragile dagli eventi e dalle situazioni tragiche che
spesso sconfiggono un’esistenza, la speranza porta alla morte come
“ultima speranza” quando questa più non riesce a proiettarsi
in un futuro, perché più non è capace di recuperare
un passato. Sia Giuda sia Pietro, infatti, hanno tradito Gesù,
ma mentre Giuda, suicidandosi, ha assegnato al passato il compito di esprimere
tutto il senso della sua vita, Pietro ha conosciuto la fatica di ri-assumere
il proprio passato togliendogli l’onore di dire l’ultima parola
sul senso della sua vita. Questo è lo spazio dove si gioca la speranza
o il gesto suicida. Sperare, infatti, non significa solo guardare avanti
con ottimismo, ma soprattutto guardare indietro per vedere come è
possibile configurare quel passato che ci abita, per giocarlo in possibilità
a venire. Suicidarsi invece è decidere che il nostro passato contiene
il senso ultimo e definitivo della nostra vita, per cui non è più
il caso di ri-assumerlo, ma solo di porvi semplicemente fine. E così
sia la speranza sia il suicidio giocano i loro dadi sul passato e sul
senso che il passato viene assumendo per me. E siccome sono io a dar senso
al passato, nella speranza c’è la libertà di conferire
al passato la custodia di sensi ulteriori, mentre nel suicidio c’è
l’illibertà di chi nel passato vede solo un senso inoltrepassabile
e perciò definitivo. Queste sono le riflessioni a cui ci invita
Eugenio Borgna nel suo ultimo libro. Sono riflessioni che nascono dall’aver
osservato per una vita la notte enigmatica e buia della follia, e che
ben si adattano anche alla nostra vita, dove l’enigma non è
del tutto estraneo e il buio, conseguente al naufragio della speranza,
mai definitivamente scongiurato.
inizio
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