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Handicap e Scuola
L'integrazione possibile

Riportiamo due capitoli degli atti del convegno


ritorna


NON DIRE MAI GRAVE
Riziero Zucchi - Comitato per l'integrazione scolastica degli handicappati, Torino
(indice)
Io penso che l'intervento di Mario Tortello, abbia data l'impostazione delle abilità che all'integrazione compete.
E' estremamente importante sottolineare che l'integrazione non viene attuata dagli esperti, l'integrazione viene realizzata da tutti: occorre considerare la dignità dei bidelli, la dignità delle cuoche, la dignità dei compagni, senza dimenticare la dignità dei genitori. A livello scientifico l'integrazione è un momento di confine, dove si creano nuove scienze, nuove competenze. Non a caso l'integrazione è una proposta per quella che noi possiamo chiamare la Paideia del terzo millennio.
Vi è un autore che ci fa vedere come queste problematiche non siano solo nostre, italiane, europee, ma siano a livello mondiale. E' Meil Postman, che negli anni 60 ha scritto il libro intitolato "L'insegnamento come attività sovversiva", e che ha studiato come i nuovi mass-media stiano distruggendo il concetto e l'essenza stessa dell'infanzia, nel libro "La scomparsa dell'infanzia". Ultimamente si occupa dell'educazione futura e in modo molto ma molto dichiarato parla di rischio di fine dell'educazione. Se noi non diamo nuove frontiere all'educazione, dice Postman, l'educazione lentamente scomparirà e diventerà imposizione. Sempre meno sarà importante l'educazione data dai genitori, sempre meno l'educazione dei docenti, i ragazzi verranno lasciati allo sbando, sparendo anche il concetto di infanzia e di necessità di educazione, il che vuol dire ritornare ad un nuovo medioevo a livello planetario.

La diversità come ricchezza
Postman propone nuove indicazioni che possono arricchire l'educazione e aprire nuove frontiere. Afferma che la frontiera più importante è la diversità. E' il proporre l'integrazione della diversità e della disabilità come una frontiera che darà senso alla scuola, all'educazione e soprattutto all'intervento della famiglia. Egli propone anche uno scenario importante scientifico, quello che è un paradigma, la seconda legge della termodinamica. L'energia è prodotta dalle differenze di potenziale: le differenze di quota, di altezza determinano i salti d'acqua, le differenze di potenziale determinano le scariche elettriche. Ora queste differenze di potenziale se non vengono utilizzate, umanizzate, se non vengono proposte in termini sociali possono essere pericolose e fare paura.
Se invece vengono umanizzate, utilizzate, vengono poste al servizio dell'uomo, diventano una grande fonte di energia, per cui la scarica elettrica si trasforma in energia elettrica utilizzabile. La differenza di potenziale, la diversità diventa possibilità di riproporre nuove energie all'educazione, così l'handicap va culturalmente proposto come diversità, come uno dei grandi propulsori, uno dei momenti significativi per l'educazione del terzo millennio. Ed è interessante vedere come l'impostazione che ha dato Mario Tortello al suo intervento mette la pedagogia in relazione al diritto. L'impostazione che io vorrei dare è vedere invece in che modo la pedagogia si propone nei confronti della medicina.

Una medicalizzazione che esclude
Uno dei grandi fallimenti dell'integrazione, se fallimenti ci sono stati, è stato determinato da una presenza eccessiva, costante della medicalizzazione. Io insegno e troppo spesso nelle classi vedo che non entrano persone con un nome, cognome e con una storia, come diceva Mario, ma entrano delle diagnosi. Quando a me venne detto "entra in classe un morbo di Duchenne" mi sono spaventato. Sono andato a vedere sull'enciclopedia medica e morbo di Duchenne voleva dire assistere ad una morte in diretta. Voleva dire che lentamente la mobilità sparisce, c'è l'atrofizzazione dei muscoli che non reagiscono più e questa persona lentamente muore. Allora il fatto che venisse proposta l'integrazione con una diagnosi in questi termini ha provocato ansia ma non solo in me, anche in tutte le persone; vedere in classe una persona lentamente morire, chiaramente provoca disagio. E' stato estremamente interessante notare come questo disagio ha cominciato a sciogliersi grazie alla rete di interventi che ha permesso a me come docente di rassicurarmi, di trasformare quello che era un grosso timore in una risorsa, di vedere come l'handicap ha una presenza all'interno dell'educazione.
La forza non mi è venuta dalla diagnosi, dalla medicalizzazione; la forza mi è venuta dai ragazzi. Io ho la fortuna di avere un'educazione che mi ha permesso di vedere i ragazzi, i compagni di classe, come pieni di dignità educativa. Ho avuto la possibilità di chiedere a loro aiuto; la reazione dei ragazzi non è stata di andare a vedere subito in una enciclopedia cosa vuol dire morbo di Duchenne. Hanno chiesto: "Ma come si chiama? Quali sono i suoi interessi? Dove abita? Quale cantante gli piace? Dove va a passare il suo tempo libero?". Questo atteggiamento mi ha sconvolto perché è stato, in termini molto concreti un rovesciamento. Si è passati da una medicalizzazione che produceva timore ad una integrazione prodotta dai pari. Allora questa persona, io parlo di un evento di quattro anni fa, adesso sta facendo il quinto anno e sosterrà l'esame di maturità.
Io non ho assistito ad una morte in diretta, ho assistito ad una persona consapevole della propria condizione che normalmente diceva: "Io quattro o cinque anni fa andavo in bicicletta, adesso ho la carrozzina," ma che vive intensamente, momento per momento, regalando al docente e ai compagni una voglia di vivere, di esprimersi, un senso della vita vissuta in ogni sua situazione che ha arricchito tutti.

Una importante presenza educativa
Credo che questa dimensione positiva dell'handicap vada collegata con una serie di possibilità dell'integrazione di tipo preventivo. Io mi occupo oltre che di handicap anche di prevenzione delle tossicodipendenze e di problemi di prevenzione in genere.
La presenza di Guido all'interno della classe ha provocato una serie di interventi sollecitati da lui come risorsa che hanno determinato momenti di prevenzione. Prendiamo ad esempio il problema della tossicodipendenza. Noi sappiamo, dall'esperienza di Don Ciotti, che un ragazzo con problemi di tossicodipendenza non è in grado di dare o ricevere aiuto, si affida solo alla sostanza e il suo problema è solo la stessa, le emozioni gli vengono dalla sostanza. L'unica vera prevenzione non è naturalmente il metadone o la medicalizzazione, la prevenzione è sottolineare che le emozioni vengono dal rapporto diretto con le persone. Le emozioni vengono dall'autoaiuto, vengono dal fatto di poter dare e ricevere solidarietà. Ora Guido è nella sua classe e dimostra, con la sua presenza, la necessità di ricevere aiuto, dà ai compagni la possibilità di recuperare la propria essenzialità cioè di dare loro una ragione di vita, e questa è prevenzione.
Un altro problema che vediamo nelle classi è quello dell'anoressia, che viene risolto con lunghissime terapie, con grandi spaventi da parte dei genitori, con terapie anche farmacologiche o contenitive. La presenza di Guido che lentamente si sta accartocciando sulla sua sedia a rotelle, costituisce invece un centro di attenzione, di affetto. Eppure la sua corporeità non è una corporeità accettabile secondo le mode; non è Claudia Shiffer che vogliono imitare le compagne, è una umanità sofferente anche nel corpo. Ci sono degli stigmi anche concreti, corporei. Però lui è la testimonianza che una persona, con dei limiti, con un look non positivo può essere invece centro di rapporti umani. E' la testimonianza che la ragazzina un pò grassottella, la ragazzina che ha qualche difetto può essere accettata lo stesso, se Guido viene accettato.
La sua presenza diventa una presenza estremamente educativa all'interno della classe. Ci rendiamo conto che la presenza di un gravissimo, di una persona che si era presentata con una diagnosi di tipo luttuoso diventa un centro concreto di vita all'interno della classe. Penso che occorre ampliare i limiti della medicalizzazione e dare sempre maggior peso ad una scienza che come la medicina è profondamente in crisi. Stiamo attenti, quando io parlo di crisi ne parlo dal punto di vista etimologico: crisi vuol dire scelta, non ne parlo dal punto di vista epistemologico. Anzi c'è sempre più bisogno di pedagogia in termini positivi. Sia la medicina che la pedagogia stanno cercando nuovi equilibri; la medicina sembra essersi dedicata al profitto a livelli industriali.

La pedagogia a sostegno della medicina
Uno dei grossi problemi della crisi della medicina è il fatto che manca il centro umano. Molte volte a livello medico noi non siamo altro che una serie di diagnosi, in cui si perde l'unità della persona, la voglia di vivere della persona. Manca il collegamento, manca il momento della persona che reagisce. Io vorrei parlare, dato che non sono medico, con la voce dei medici. Ora non lontano da qua, a Spoleto, abbiamo il Festival dei due Mondi. E' interessante perché accanto al festival dei due Mondi è stato dato spazio alla scienza, in particolare alla medicina. Ogni anno viene proposta l'edizione di "Spoleto Scienza" che è estremamente importante perché presenta le indicazioni più attuali della medicina. Vi è stata la presenza di scienziati come Sacks, Edilman ecc. Nella loro testimonianza la medicina afferma la sua necessità di pedagogia. Vorrei leggere qualche parte degli atti di "Spoleto Scienza". Traggo la citazione dal convegno del 1994, pubblicati da Laterza il cui titolo è: "In principio era la cura", Bari, 1995. Il testo recita: "Negli ultimi venti anni è stata favorita una visione patologizzante della società dell'individuo. Tutti i problemi, i disagi, le contraddizioni sono state interpretate come patologie. Alla luce di queste problematiche sarebbe interessante chiarire cosa voglia dire curare. Il significato originale di curare è prendersi cura, esaminare, analizzare, farsi carico responsabilmente di eventi di crisi. Per costume ideologico noi siamo portati a vedere il concetto di cura, non nella sua natura di processo o di scambio comunicativo".
Pensiamo all'attività che ha fatto Guido portatore della malattia di Duchenne, il suo è stato un intervento di cura, di terapia nei confronti dei compagni, terapia naturalmente educativa. Continua Spoleto Scienza: "In un approccio che faccia riferimento ad un paradigma scientifico non positivista (...), perché non attribuire al curare anche il significato di crescere? Ma non a caso nella storia di ciascun individuo le prime cure che si incontrano sono le cure materne e sappiamo quanto siano importanti perchè esse consistono proprio nella trasformazione da parte della madre dei messaggi, delle emozioni che provengono dal bambino, ....".

Una nuova cultura dell'handicap
Per rafforzare questo messaggio vorrei ricollegarmi ad un altro momento, quello della soggettività dell'handicap, Mario Tortello faceva riferimento a Claudio Imprudente. Claudio Imprudente è un handicappato gravissimo, che in questi giorni a Torino e in altre parti d'Italia tiene corsi di aggiornamento a docenti e ad operatori. Eppure Claudio Imprudente non si muove, non parla, ma i suoi interventi sono ascoltati e hanno un'attenzione che deriva dal fatto che lui presenta il suo handicap come testimonianza. Non si propone come una diagnosi, ma si attiva in modo educativo e interattivo. Claudio Imprudente parla di nuova cultura dell'handicap, parla di nuovo atteggiamento, parla di rivoluzione culturale che riguarda non solo i normodotati ma soprattutto l'atteggiamento degli handicappati che si devono manifestare con la loro soggettività. Soggettività vuol dire che l'handicap propone se stesso e le proprie esperienze. Vi sono testimonianze di handicappati che valgono molto di più di tante lezioni teoriche. Uno degli handicappati, ad esempio, dei quali vorrei occuparmi, handicappato gravissimo , è Cristopher Brown. Non so se qualcuno di voi ha visto il film, incredibilmente positivo perché basato sulla sua autobiografia, "Il mio piede sinistro". Cristopher Brown aveva un handicap tale da non potersi muovere, era un groviglio di ossa, di nervi, di tendini, eppure Cristopher Brown è diventato un artista, un grande scrittore e si è sposato. Ha avuto quindi una vita completamente normale anzi ha dato qualcosa di più agli altri. Nelle prime pagine della sua autobiografia edita da Mondadori, c'è una testimonianza preziosissima. "I medici alla mia nascita dissero a mia madre che il mio caso era irrimediabile, che io non avrei mai, nel modo più assoluto, potuto essere normale".
Noi sappiamo invece che da questa persona che doveva vegetare sono nati dei libri, dei quadri, una biografia degna di essere vissuta e di essere proposta ad esempio. Qual è il miracolo di questa trasformazione? Il miracolo di questa trasformazione consiste nella strategia della fiducia della madre. Lui dice: "Mia madre si ribellò a questa diagnosi, non l'accettò nel modo più assoluto. Mi propose come gli altri otto ragazzi che aveva, come una persona normale e mi pensò adulto e fece un progetto di vita. Qualsiasi cosa io facevo non la riproduceva come momento patologico, la riproduceva invece come momento normale".
Il significativo momento di riabilitazione di Cristopher Brown è quando prende il gessetto e fa quello che forse uno con una mentalità patologizzante avrebbe visto come uno sgorbio. La mamma, che lo pensava adulto, vide invece una M, e da questo segno parte tutta la riabilitazione. Attenti, riabilitazione di carattere medico. La medicina è una scienza, il prendere come base quella che è la strategia della fiducia dei genitori non vuol dire rifiutare la medicina, vuol dire invece prenderla in mano ed utilizzarla dal punto di vista umano. La medicina attualmente è in crisi perché ragiona poco sulla persona, ma la medicina è una scienza. Purtroppo il fatto che la medicina non si rivolga a quelle che sono le soggettività delle persone, le capacità riabilitative personali, fa in modo che ci sia il proliferare di una serie di paramedicine. Perché c'è questa nuova frontiera che io chiamerei anche di tipo pedagogico alla quale la medicina deve agganciarsi, ma la medicina non cerca questo.
C'è un libro di Cosmacini, uno storico della medicina, in cui viene proposta questa necessità; il libro è intitolato "La qualità del tuo medico" e sottotitolato "Per una filosofia della medicina". Un altro testo che io consiglierei è un volume di un grande filosofo, Gadamer: "Dove si nasconde la salute". Egli rivendica la necessità da parte dell'individuo di riappropiarsi e guidare la medicina; ed è quello che tutto sommato ha fatto la mamma di Cristopher Brown.
Perché la riabilitazione è determinata dalle cure dei medici che hanno accettato di essere guidati dalla soggettività dell'handicappato stesso e dalla soggettività della sua famiglia; cioè c'è stato un felice incontro che ha promosso un momento riabilitativo estremo: la riabilitazione di Cristopher Brown. Miracolo? Non direi, è stato solo un atteggiamento scientificamente corretto. Medicina e pedagogia si sono unite. E questo concetto credo che vada riproposto anche collegandoci alle indicazioni di Claudio Imprudente contenute nel libro edito da Cappelli intitolato "E se gli indiani fossero normali". Egli afferma: "Noi dobbiamo operare questa rivoluzione cioè dobbiamo vedere che l'handicap e i problemi di un handicappato gravissimo hanno una serie di risorse incredibili che vanno sfruttate socialmente, in caso contrario queste risorse si rivolgono contro il disabile e contro la società". Un handicappato gravissimo che non vede espresse le proprie competenze, che non vede una rete di rapporti, una rete di risorse che lo valorizzino, chiaramente rischia di implodere.
Ai vecchi tempi la società contadina prendeva l'handicappato gravissimo e lo rinchiudeva nel pollaio, lo rinchiudeva nella porcilaia con un senso di sofferenza e di vergogna che non ci deve essere nel modo più assoluto. Quante volte abbiamo avuto un minimo di rancore contro certa gente che diceva: - I genitori dei ragazzi handicappati si vergognano - . Non è affatto vero, è un atteggiamento sociale che va cambiato. Ma è chiaro allora che di fronte ad un caso come quello di Claudio Imprudente dobbiamo cambiare atteggiamento cioè dobbiamo promuovere una misura culturale che valorizzi noi e l'handicappato.

L'handicap come risorsa
Queste cose sono state dette tanto tempo fa. Nel 1934 una persona che è stata chiamata il Mozart della pedagogia e della psicologia, che si chiama Vygotskiy, scriveva testi che adesso sono raccolti in un volume intitolato "Fondamenti di difettologia" e parlava di quella che era la compensazione dell'handicap. E' molto importante perché credo che la compensazione sia un elemento che ci dà una serie di indicazioni epistemologiche per una corretta integrazione. Vygotskiy sostiene che l'handicappato non è una persona inferiore, ha in sé una serie di risorse ma risorse che non sono di tipo assistenziali o di tipo pietistico, risorse reali che derivano da una compensazione dell'organismo, una compensazione che non è però di tipo materialistico. Non è la compensazione del cieco che ha una tattilità migliore, oppure del sordo che ha una visività migliore. La compensazione è qualcosa di molto più profondo.
Il deficit fa in modo che venga ristrutturata tutta la personalità per cui la natura compensa in modo completo, attraverso anche questa ristrutturazione neurologica, le capacità della persona. L'handicappato va considerato in termini evolutivi, va visto come una risorsa per risolvere nuovi problemi, perché la sua diversità esprime risposte che noi normali non abbiamo.
Le multinazionali dell'alimentazione stanno costituendo grandi erbari per tesaurizzare la biodiversità. L'erbaccia che abbiamo sempre disprezzato diventa fondamentale. Noi abbiamo privilegiato le graminacee, ma a causa di questo si può perdere ogni giorno una specie botanica. Certe vengono riconosciute erbacce utili. Vi è un erba che si trova solo in Polinesia la cui molecola di sintesi costituisce una cura contro l'ipertrofia prostatica. Si è scoperto che occorre garantire la biodiversità.
Facciamo un altro esempio preso nel mondo animale. L'esempio delle giraffe. Se non ci fosse stata la giraffa handicappata dal collo lungo non si sarebbe creata la nicchia ecologica che ha permesso alle giraffe di brucare le altissime acacie e quindi di mantenersi come specie. Noi non siamo lamarkiani, non pensiamo che la giraffa abbia prolungato il proprio collo con uno sforzo. E' nata la giraffa handicappata, la giraffa diversa che ha promosso invece la salvezza della sua specie. Ed è interessante perché questa concezione evoluzionistica è stata, adesso, accettata dalla Chiesa. La valorizzazione della diversità viene sottolineata anche da un testo sapienziale come quello della Bibbia. Vi ricordo il salmo che dice: "La pietra d'angolo scartata dai costruttori è diventata invece la pietra di fondazione". Pietra scartata diventa pietra d'angolo. Allora lo scarto è una risorsa reale. Lo sottolinea Vygotskiy. "Gli handicappati sono risposte diverse a problemi diversi, sono risorse per il futuro".
Il maggior autore di libri sull'origine dell'universo è Hawking che si è occupato della teoria del big bang e dei buchi neri. Egli è handicappato, accartocciato come una foglia secca sulla propria sedia automatica. La malattia genetica di Hawking è una malattia che si è manifestata quando lui aveva venti anni. Adesso ha cinquantaquattro anni ma la ricerca di Hawking è avvenuta in un momento in cui il suo handicap aveva raggiunto il vertice. Egli scrive che gran parte delle sue intuizioni le deve anche all'handicap, alla compensazione dell'handicap. Le ricerche di Hawking sono basate su calcoli stechiometrici. Quando non ha più potuto usare le mani e ha usato il plotter, le sue potenzialità sono aumentate perché poteva inserire immagini tridimensionali in uno schermo. Da quando non ha più potuto usare il plotter ha dovuto trasferire nella immaginazione tutti i calcoli e tutte le figure che poi dettava alle altre persone. Un suo collaboratore sottolinea: "Quando si hanno delle capacità diverse si possono anche risolvere dei problemi diversi".
Hawking dimostra che l'handicap se valorizzato può diventare una soluzione di problemi che altri non possono risolvere. Sarebbe illusorio dire che ogni handicappato può risolvere fondamentali problemi perché li ha risolti Hawking. Dietro a lui c'è tutta la rete di collegamento della facoltà di Combridge. Scienziati hanno costruito protesi e strumenti ma soprattutto c'è stata una richiesta della sua intelligenza, una fiducia nella sua capacità di intervenire, di tutta una comunità scientifica che gli ha permesso di dare risposte.
Ma se l'handicappato viene chiuso nella porcilaia, se l'handicappato viene chiuso nell'auletta, se l'handicappato non viene integrato, in che modo potrebbe sviluppare queste risorse incredibili? Questa consapevolezza c'era da tempo. Mi limiterei a citare il libro di Leonardo da Vinci, libro di pittura che è stato attualmente pubblicato da Carlo Pedretti.
Leonardo parla della pittura e nel momento più alto chiama in aiuto gli handicappati. Il genio di Leonardo si manifesta attraverso l'espressività. La Gioconda è il vertice dell'arte perché Leonardo è riuscito ad esprimere attraverso la pittura l'ambiguità, il sommo dell'espressività. Nel libro di pittura egli dice: "Pittore stai attento la tua pittura può essere due volte morta. Può essere morta una volta perché interamente fatta di pigmenti inorganici, ma può essere morta anche perché le immagini non hanno espressività". Pensiamo ad esempio un pittore anteriore a Leonardo, Piero della Francesca la cui pittura non è espressiva. Lo stesso autore della Primavera di Botticelli non ha espressività. Ma da Leonardo in poi comincia invece la rivoluzione che porterà poi al manierismo e all'espressività più completa.
Leonardo consiglia non solo di dare espressività al volto, ma anche espressività ai movimenti. E lui dice ancora: "Tu pittore hai dei maestri. Hai dei maestri che meglio di altri riescono ad adeguare ai pensieri i movimenti, ai sentimenti il volto".
E quali sono questi maestri? I sordi. Aggiunge: "Osservate i sordi, imparate dunque dai sordi. I sordi sono i maestri dell'espressività". Che questo sia importante lo dimostra il fatto che lo dice ben quattro volte nel Libro di pittura.
Quindi ci rendiamo conto che la consapevolezza che il gravissimo è una risorsa completa era già presente a livello storico. Potremmo citare anche Sant'Agostino. C'è un libro bellissimo intitolato "De Magistro", in cui Sant'Agostino sostiene che la lingua dei segni dei sordi è una lingua a tutti gli effetti e non una mimica come molti ancora adesso pensano. Se l'handicap come risorsa viene rivendicata a livello scientifico noi questo concetto di risorsa lo possiamo anche utilizzare nelle nostre classi per l'integrazione dei gravissimi.

Crescere attraverso l'integrazione
Io non posso non riportare delle esperienze dirette aldilà delle teorie. Credo ad esempio che ci sarà un grosso momento di sviluppo dell'integrazione se i CST (Centri socio-terapeutici dove vengono inseriti i gravissimi) verranno collegati con la scuola.
Un grande momento di crescita anche personale è avvenuto tre anni fa quando un Centro socio-terapeutico della provincia di Torino chiese alla mia scuola di integrare due ragazzi che non si muovevano. Il mio istituto è un istituto professionale per la grafica e la pubblicità. Due educatrici estremamente coraggiose mi hanno avvicinato e mi hanno chiesto di integrare questi due ragazzi. Noi sapevamo che la legge ci obbligava a prenderli ma nella scuola superiore (come nelle altre scuole) ci sono ancora strumenti dissuasivi sia nei confronti delle famiglie che degli educatori ecc.... Basta cominciare a descrivere le difficoltà o ad usare una serie di tecniche verbali. Noi abbiamo chiaramente detto: "Nadia e Giuseppe non li vogliamo, perché il nostro è un istituto per la grafica e la pubblicità. Loro non si muovono.
A che cosa ci servono?". E la risposta degli educatori ci ha veramente colpito. "Ma loro possono guardare". E la visività è l'essenza del nostro istituto. Loro vedono, giudicano e imparano. Solo che noi abbiamo ribattuto che Nadia e Giuseppe non erano interattivi e allora loro hanno richiesto l'integrazione almeno per poche ore. Poi invece c'è stato un soprassalto d'orgoglio della scuola, se l'integrazione di Nadia e Giuseppe doveva esserci, la volevamo per tutte le ore. Non solo, ma si doveva trattare di un'integrazione naturalmente e chiaramente valutata. Doveva essere un'integrazione completa. Nadia e Giuseppe dovevano anche essere interattivi. Ci sono state molte polemiche, siamo stati anche un pò cattivi con questo Centro socio-terapeutico, che allora sollecitato dalla scuola ha cominciato un progetto chiamato "Progetto comunicazione". L'avvenimento più importante dell'integrazione è naturalmente la comunicazione.
Questo progetto però prevedeva un elemento estremamente importante che era il volontariato dei nostri ragazzi all'interno del Centro socio-terapeutico. A Torino come in ogni grande città vi è una micro criminalità diffusa, grande presenza di droga e l'unico momento significativo è quello della prevenzione.
Si sconfigge la microcriminalità dando un senso alla vita dei ragazzi. Si tratta di prevenire la noia, prevenire il senso di inutilità, dare uno scopo ai ragazzi. Allora nel momento in cui cominciava quello che era il progetto comunicazione, alcuni ragazzi hanno incominciato ad andare nel Centro socio-terapeutico come volontari, chiaramente supportati dalla scuola e sostenuti dal centro. Abbiamo così visto crescere nei ragazzi la dignità perché loro sapevano non di accettare un compagno, ma di andare in modo attivo a crescere come volontari in questo Centro socio-terapeutico. Una serie di rapporti positivi nel centro, gli educatori e i disabili hanno determinato un innalzarsi del livello dei ragazzi stessi.
L'elemento magico è stato quando al Centro socio-terapeutico hanno scoperto che Nadia e Giuseppe potevano comunicare. La diagnosi di Nadia era una diagnosi di spasticità diffusa, di movimenti scomposti. Giocando con Nadia, agitandola, toccandola i compagni hanno scoperto che Nadia muoveva il ginocchio sinistro volontariamente. Nadia per venti anni aveva cercato di comunicare con il mondo esterno e questa comunicazione era stata vista solo come spasticità diffusa. Si è scoperto che Nadia poteva comunicare. Nadia è stata messa su una sedia a rotelle, le è stata applicata una sbarretta e un microchip e muovendo il ginocchio poteva già rispondere a domande con si o no. Allora noi abbiamo avuto la testimonianza che Nadia poteva essere in prima persona un soggetto attivo all'interno della scuola. L'integrazione di Nadia chiaramente è iniziata già quando i ragazzi hanno cominciato a presentarsi come volontari in questo Centro terapeutico e ancor più nel momento in cui ci si è occupati della famiglia. Noi abbiamo scoperto, e questo è stato importante, che i ragazzi parlavano di queste cose in famiglia e che i genitori erano curiosi di quello che succedeva e i genitori hanno chiesto di andare anche loro nel Centro socioterapeutico.
Il primo momento di integrazione reale è stato quando si è organizzata una piccola assemblea dei genitori e della classe in cui sarebbe arrivata Nadia; essi hanno parlato tra di loro e hanno poi invitato i genitori di Nadia. Il momento di accoglienza per i ragazzi è stato così un momento di valorizzazione. Loro facevano dei lavori di scrittura creativa, hanno fatto una serie di poesie e prose su Nadia e per Nadia. Quando Nadia è entrata per la prima volta nella scuola hanno consegnato, a lei e ai suoi genitori, un testo che parlava di lei. In anticipo Nadia era già nei loro cuori e nelle loro coscienze. Allora questa integrazione è stata un momento di valorizzazione altissima perché i ragazzi si sono resi conto che avevano delle capacità attive, delle specialità comunicative e perché no anche delle possibilità riabilitative.

Il ruolo fondamentale dei pari
Ci rendiamo conto dell'importanza dei ragazzi. I ragazzi sono curiosi, interessati, non hanno i pregiudizi che abbiamo noi, ma hanno una curiosità naturale che molte volte noi abbiamo bloccata. Ricordo quando una psicologa venne in classe perché avevamo un ragazzo con una diagnosi di epilessia che dava fastidio alle ragazze. Venne una volta questa psicologa, quando il ragazzo non c'era e ha detto: "Mi raccomando accettate quello che fa, non parlate, state attenti"; i ragazzi si sono ribellati. Hanno detto: "Daniele (questo è il suo nome) si comporta male e noi glielo diciamo in faccia".
Accettare la sua epilessia è il rispetto della sua presenza. Ci siamo resi conto che il concetto di malattia molte volte giustificava una serie di comportamenti abnormi. Troppe volte ho sentito dire: lasciamoli stare, lasciamoli gestire la propria diversità. Noi ci siamo resi conto che tutte le volte che i ragazzi e le ragazze mettevano Daniele difronte alle sue responsabilità non c'erano crisi di epilessia. Quando invece c'era la falsità, il momento di confusione e di ipocrisia ritornava l'epilessia. Daniele ha cominciato così a capire se stesso. E' stato molto utile, per me, ad esempio chiamare un amico con diagnosi di epilessia, felicemente sposato, presidente di distretto, a parlare della sua esperienza. Esiste una terapia farmacologica. Se questa terapia viene rispettata si può andare avanti e ad un certo punto si può rispondere alle sfide molto importanti della vita.
Quella che è stata la pedagogia dei pari si è in questo caso sommata alla pedagogia dell'handicap. Un handicappato stesso, epilettico grave, ha parlato della sua esperienza e ha fatto partecipi gli allievi di un percorso estremamente interessante.

Abbattere i pregiudizi, costruire l'integrazione
L'ultimo elemento che io vorrei proporre è la consapevolezza, la coscienza del valore dei gravissimi e della loro integrazione per noi docenti. Noi pensiamo molte volte che l'integrazione dei gravi o dei gravissimi sia solo un'integrazione di tipo sociale, socio relazionale. Niente di più sbagliato. La sola presenza del ragazzo nella scuola non è integrazione, la presenza del ragazzo nell'auletta handicap non è integrazione. L'integrazione si realizza all'interno della classe e in tutte le ore, facendo in modo che l'integrazione abbia un percorso di tipo didattico; essa viene realizzata ed è terapeutica se viene proposto uno scenario all'handicappato. Se l'handicappato viene solo mantenuto in classe lui ne ha coscienza. Una delle cose più gravi che avvengono è che molte volte alla diagnosi di handicap viene anche collegata una diagnosi di deficit di tipo psichiatrico e psicologico. L'ex ministro Antonio Guidi, spastico grave, diceva che molte volte gli altri pensavano che lui non fosse solo spastico ma anche stupido, e il momento più alto d'integrazione lui l'ha avuto con una persona che gli si è avvicinata e gli ha chiesto la strada. Questo che cosa vuol dire? Vuol dire che molte volte noi normododati aggiungiamo handicap ad handicap.
Non pensiamo invece che ci sia questa grossa capacità e soprattutto che ci sia questa grossa consapevolezza da parte dell'handicappato di essere handicappato. Eppure quante volte abbiamo visto l'allievo handicappato inserito che non manifestava se stesso, perché era consapevole, intimorito da una diagnosi o intimorito dalla paura degli adulti. Nel momento in cui invece abbiamo proposto un percorso di tipo didattico, un percorso di tipo cognitivo l'handicappato si è liberato dai suoi timori.
Un percorso educativo-didattico può essere fatto per qualsiasi tipo di handicap. Per merito dell'integrazione si raggiunge una vera e propria individualizzazione dell'insegnamento.
Per Nadia e Giuseppe abbiamo proposto un percorso cognitivo. Abbiamo preparato una serie di test a cui potevano rispondere si o no. E pensare che c'era stata la psicologa che si era spaventata e aveva detto: "Prendiamo Nadia e vediamo se intellettivamente è capace". In anticipo c'era già il pregiudizio. E' stato interessante quando un bambino ha detto: "Ma guardate che Nadia capisce tutto". La pedagogia dei pari ci permette di intervenire laddove molti dei nostri pregiudizi ci bloccherebbero. E Nadia adesso fa i suoi compiti in classe, Nadia con la sua sbarretta e con il suo microswitch (che costa poi pochissimo) risponde ad una serie di test con si o no. Nadia è estremamente felice e tra l'altro fa i suoi temi, ha proposto indicazioni sulle fotografie, ha fatto una campagna pubblicitaria. Insomma c'è stato un collegamento attivo all'interno della classe perché Nadia era inserita in una rete di rapporti che magari non è analoga a quella di Hawking, ma è una rete di rapporti normali che la aiutano a inserirsi nella normalità. E quello che è interessante è che Nadia è rifiorita anche dal punto di vista corporeo, il fatto di rimanere all'interno della classe, di dimostrare una serie di capacità ha fatto si che lei cominciasse ed avere più appetito, a dimostrare delle necessità che prima non aveva. E non parliamo poi del beneficio per tutta la classe.
Io penso che questa consapevolezza non è nata adesso. C'è un marchigiano, che vorrei citare, che nel 1821 scriveva queste cose. Aveva uno scartafaccio dove metteva i suoi pensieri tutti i giorni e nel momento in cui parla delle capacità più alte dell'uomo cita gli handicappati. Lui dice: "Le meravigliose facoltà che acquistano i sordi, i ciechi o nati o divenuti sono una gran prova di quanto le nostre facoltà e quelle dei viventi derivano dell'assuefazione e di quanto sia sviluppabile, pieghevole, modificabile, duttile e conformabile la natura umana". Parlando degli handicappati dice che essi non testimoniano la grandezza dell'handicappato, ma testimoniano la grandezza dell'uomo. Questo egli lo scriveva il 27 agosto del 1821, ma è un'idea che circola in tutte le fasi dello scartafaccio. Dice ancora: "Osservate l'incredibile abilità che acquistano i ciechi nella musica o in altro, i sordi nell'intendere per segni e tanta facilità e prontezza con cui essi sebbene acerbi, d'intelletto tardissimo, arrivano a quello con cui molta maggior fatica e tempo arrivano o ancora non arrivano i sani, sebbene di grande ingegno. E poi ditemi di che cosa consiste il talento se non di quelle circostanze e se l'uomo non sia capace di cose incredibili".
Questo Giacomo Leopardi diceva degli handicappati.

DIAGNOSI FUNZIONALE, PROFILO DINAMICO E PIANO EDUCATIVO SAPER LEGGERE LE RISORSE DI SCUOLA, SANITÀ E FAMIGLIA
Dario Ianes - Centro Studi Erickson, Trento
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Saper leggere le risorse di scuola, sanità e famiglia
A distanza di quattro anni dalla pubblicazione dell'Atto di indirizzo e coordinamento alle USL del febbraio 1994, le esperienze maturate ci suggeriscono alcune riflessioni sulla diagnosi funzionale e sul profilo dinamico funzionale nell'ottica di un riequilibrio pedagogico-didattico di questi due strumenti, liberandoli da un'egemonia sanitaria e cercando di renderli più democratici e partecipativi, rivalutando il ruolo della scuola e della famiglia.

La diagnosi funzionale
Deve essere chiarito il ruolo della diagnosi funzionale: non può essere un doppione, un pò più allargato, dell'individuazione dell'alunno come persona handicappata (art. 2 dell'Atto di indirizzo), non può essere una descrizione analitica delle compromissioni, ma dovrebbe diventare la raccolta, partecipata e collaborativa tra le diverse figure di riferimento dell'alunno, di tutti quei dati che sono "funzionali" ad una piena integrazione scolastica.
La diagnosi funzionale, così come viene descritta nell'art. 3 dell'Atto di indirizzo e coordinamento alle USL, risente invece di un'impostazione prevalentemente clinico-medica ed è scarsamente legata alle necessità degli insegnanti impegnati nell'integrazione scolastica degli alunni in situazione di handicap. Per questo motivo presenteremo qui di seguito un nostro modello di diagnosi funzionale che si lega direttamente ai processi di integrazione scolastica, di apprendimento e socializzazione, non si esprime solo in termini tecnico-sanitari, e cerca di attivare collaborazioni più a largo raggio (includendo anche la famiglia nel momento diagnostico). La diagnosi funzionale finalizzata a un intervento educativo o a un percorso didattico individualizzato rivolto agli alunni in difficoltà, analogamente a ogni tipo di diagnosi nei campi più diversi, cerca di raggiungere la conoscenza più approfondita ed estesa possibile delle varie caratteristiche della persona o situazione/interazione che esamina. Accanto a questi requisiti generali, nel caso della diagnosi funzionale legata alla definizione del Piano Educativo Individualizzato abbiamo un'esigenza specifica di carattere pragmatico, espressa dal termine "funzionale": i dati di conoscenza, raccolti nella diagnosi, dovrebbero consentire di operare direttamente nel concreto della prassi scolastica quotidiana. Questo vuol dire che una diagnosi funzionale è realmente "funzionale" solo se è di immediata utilità per l'insegnante, se riesce a guidarlo direttamente nella scelta di obiettivi appropriati e di metodi di lavoro efficaci sulla base delle caratteristiche peculiari dell'alunno in difficoltà. Per costruire un buon piano educativo individualizzato abbiamo dunque bisogno di una metodologia di diagnosi che sia approfondita, che cioè descriva dettagliatamente le caratteristiche dell'alunno e che le interpreti, cerchi di spiegarle, ma nel contempo sia connessa strettamente alla realtà della vita scolastica, nei suoi aspetti di insegnamento/apprendimento e di relazionalità, socialità e sviluppo psicologico-affettivo. Queste considerazioni ci portano a sostenere che la diagnosi funzionale dovrebbe essere un compito multidisciplinare e collegiale, che spetta a tutti gli attori coinvolti nella realizzazione del piano educativo individualizzato: agli insegnanti, agli specialisti sanitari e sociali (in primo luogo gli psicologi e gli assistenti sociali: professioni troppo spesso dimenticate), alla famiglia ed eventualmente ad "altri significativi" nel processo di programmazione individualizzata e di integrazione scolastica. Tra questi non dobbiamo dimenticare l'alunno stesso, naturalmente in quei casi in cui ciò sia possibile (ad esempio nella scuola media superiore).
Non si può quindi delegare la diagnosi funzionale esclusivamente ai tecnici specialisti, con l'aspettativa illusoria che essi forniscano agli insegnanti un "distillato" prodigioso di conoscenze di linee operative, miracolosamente capace di metterli in condizione di lavorare adeguatamente, risolvendo ogni dubbio e difficoltà. La conoscenza approfondita della situazione dell'alunno, l'esplorazione delle sue capacità, dei suoi deficit e delle varie cause e motivi che portano a questa situazione deve coinvolgere una gamma molto ampia di persone che, naturalmente, si pongono da prospettive e con metodologie di valutazione diverse, che si dovrebbero integrare e completare a vicenda.

Le risorse della famiglia
La famiglia dell'alunno possiede una quantità immensa e preziosa di dati: essi provengono, talvolta disordinatamente, dalla sua conoscenza esperienziale e spesso sono accompagnati da ipotesi interpretative incomplete. Gli specialisti tendono invece a interpretare un po' troppo e sulla base di pochi dati di conoscenza diretta dell'alunno, mentre gli insegnanti si trovano in una situazione intermedia, per certi versi privilegiata: essi vivono molte ore a contatto con l'alunno ma in una relazione professionale, e perciò con minor coinvolgimento emotivo rispetto ai familiari.
La diagnosi funzionale diventa allora non solo un compito interdisciplinare, ma qualcosa di più: diventa una raccolta di informazioni e un'elaborazione a più mani, dove i diversi apporti vanno sintetizzati e resi significativi da una regia attenta e consapevole. Una regia che sappia concentrare su di sé le funzioni di organizzare e coordinare la raccolta di dati, finalizzandola al miglioramento della prassi scolastica quotidiana, ma che sappia anche attivare la pluralità di contributi, decentrando e delegando vari aspetti della conoscenza dell'alunno.
A chi spetta questo ruolo di regia? Se la diagnosi funzionale è realmente "funzionale" all'integrazione scolastica, la regia dovrebbe essere collocata all'interno della scuola e operata da un ristretto gruppo operativo che conosce perfettamente le situazioni di apprendimento e socialità di quella scuola.

Le aree fondamentali della diagnosi funzionale
Di fronte alla straordinaria complessità del compito di conoscere a fondo e capire un alunno in difficoltà, è sicuramente problematico e semplicistico schematizzare e classificare rigidamente le categorie di dati da raccogliere, viste l'interconnessione e l'interdipendenza di moltissimi aspetti nella globalità e unitarietà della persona e la continua evoluzione e cambiamento della situazione.
Dobbiamo avere ben presenti fin dall'inizio due cautele generali: primo, non è utile immergersi nei particolari e nei dettagli perdendo di vista la sintesi di una realtà umana globale e unitaria, di una persona reale, che è molto di più e ben altro che una fredda serie di dati oggettivi sul suo "funzionamento". Secondo, non bisogna cercare di fermare il fluire di situazioni personali e relazionali, cristallizzando come definitive e stabili le nostre osservazioni e pensando che rimarranno immutate anche nel futuro.
Rispettando queste fondamentali precauzioni, riteniamo comunque che siano individuabili quattro categorie diverse di dati descrittivi e interpretativi essenziali per una diagnosi funzionale completa. Queste categorie di dati e informazioni, riportate nella Tavola 1, sono ben distinguibili dal punto di vista logico e operativo, nel senso che coinvolgono per molti aspetti settori radicalmente diversi e richiedono l'uso di professionalità e strumenti per gran parte diversi.
Nella prima parte della diagnosi funzionale si raccolgono dati di tipo clinico-medico, familiare, sociale mentre nella seconda si cerca di determinare il livello di funzionalità e di sviluppo dell'alunno in diverse aree di base. Nella terza parte la valutazione si lega direttamente agli obiettivi e ai percorsi didattici di classe, cercando di definire quali agganci significativi vi possano essere. Nell'ultima parte vengono valutati gli aspetti psicologici, affettivo-emotivi e comportamentali che devono determinare la qualità del rapporto educativo con l'alunno.

Tav. 1 - Le aree fondamentali della diagnosi funzionale

1. Dati anamnestici, clinico-medici, familiari e sociali
2. Livelli di competenza raggiunti nelle aree fondamentali dello sviluppo
3. Livelli di competenza raggiunti rispetto agli obiettivi della classe
4. Aspetti psicologici, affettivo-emotivi, relazionali e comportamentali


1. Prima parte della diagnosi funzionale

Dati anamnestici, clinico-medici, familiari e sociali
Questa è la parte che riguarda la situazione fisica, "organica" dell'alunno: in primo luogo le caratteristiche tipiche della sua sindrome, in termini biologici, fisiopatologici e delle necessità terapeutiche e riabilitative. E' evidente che in questa parte della diagnosi funzionale sono richieste collaborazioni specialistiche in ambito neurologico, neuropsichiatrico, pediatrico, ortopedico, riabilitativo e in altre branche delle scienze biomediche.
Riteniamo che sia utile suddividere questa parte della diagnosi funzionale in tre campi di informazione.
Il primo è la storia clinica, l'anamnesi e cioè gli eventi vissuti dall'alunno dal punto di vista organico. Per chi opera in ambito educativo/didattico è infatti importante conoscere almeno i principali eventi che hanno segnato lo sviluppo fisico dell'alunno, in particolare le malattie, i ricoveri, le cure tentate, i risultati raggiunti e simili.
Il secondo campo di informazioni che deve essere presente nella parte medica della diagnosi funzionale (questa parte dovrebbe comunque essere discussa tra gli attori del piano educativo individualizzato in modo comprensibile per tutti) riguarda la situazione attuale dell'alunno, con particolare riferimento alla sua diagnosi clinica. Come è noto, molto spesso non è individuata una sindrome precisa e vengono utilizzati termini descrittivi ormai obsoleti (ad esempio, oligofrenia), ben poco precisi, del tutto inutili, se non addirittura dannosi per la comunicazione e l'induzione di aspettative. Il terzo campo di informazioni clinico-mediche riguarda essenzialmente gli effetti riscontrati o prevedibili sulla prassi scolastica, causati primariamente dalle condizioni cliniche dell'alunno, così come sono state individuate dagli specialisti. In particolare, sono da evidenziare le seguenti questioni operative, a cui però spesso gli specialisti non sono in grado di rispondere in modo concreto e utile:
1) "Limitazioni": attività che l'alunno non può (e probabilmente non potrà) svolgere per limiti fisiologici insuperabili.
2) "Precauzioni" che l'operatore deve prendere con l'alunno, viste le sue particolari condizioni fisiche, come ad esempio l'attenzione alla dieta, alle posture, a movimenti particolari, ecc.
3) La necessità di assumere farmaci.
4) La necessità e il tipo di interventi riabilitativi di varia natura.
5) La necessità di protesi, ausili o altre tecnologie di aiuto.
6) La programmazione nel tempo di ulteriori visite e controlli.
7) Le persone specifiche di riferimento tecnico nei vari ambiti.

Gli insegnanti e le famiglie dovrebbero essere particolarmente esigenti nei confronti degli operatori sanitari, al momento della formulazione della diagnosi funzionale, chiedendo loro un'elaborazione approfondita di questi tre tipi di dati: dati storici e anamnestici, dati sulle condizioni attuali, ma soprattutto informazioni concrete sul significato operativo che il danno riscontrato riveste per la vita scolastica.
A fianco di questi dati sulla situazione medica dell'alunno dovrebbero essere raccolte e rese disponibili una serie di informazioni sulla situazione familiare e sociale. Tali elementi sono di competenza primaria dell'assistente sociale, che dovrebbe valutare la situazione familiare e socioeconomica dell'alunno.

2. Seconda parte della diagnosi funzionale

Livelli di competenza raggiunti nelle aree fondamentali dello sviluppo
Anche se la parte medica della diagnosi funzionale è stata elaborata in modo accurato e soprattutto con la dovuta attenzione agli aspetti educativi, questi dati forniscono informazioni sul livello reale di competenza dell'alunno nei vari settori del suo sviluppo cognitivo-intellettivo, linguistico, motorio, dell'autonomia e altri ancora. E' superfluo ricordare come in questa determinazione delle abilità e dei deficit si debba superare l'elencazione di tutte le cose che il nostro alunno purtroppo non sa fare. La dimensione primaria da ricercare e da definire è il livello di abilità, e cioè le cose che sa fare, i punti di forza che sono presenti nel suo repertorio di comportamenti.
Nelle varie aree dello sviluppo dovremo allora confrontare ciò che l'alunno sa e non sa fare con ciò che teoricamente e idealmente "dovrebbe" saper fare, data la sua età anagrafica.
Questa seconda parte della diagnosi funzionale vuole dunque esplorare a fondo il livello di "funzionamento" generale dell'alunno, a prescindere dalle richieste specifiche che gli pone la frequenza scolastica a una determinata classe.
Nel definire le aree principali di valutazione dobbiamo tenere conto anche di quanto suggerisce su questo specifico punto della diagnosi funzionale l'art. 3 dell'Atto di indirizzo e coordinamento. Il punto 4 recita testualmente: "La diagnosi funzionale, essendo finalizzata al recupero del soggetto portatore di handicap, deve tenere particolarmente conto delle potenzialità registrabili in ordine ai seguenti aspetti:
a) cognitivo, esaminato nelle componenti: livello di sviluppo raggiunto e capacità di integrazione delle competenze;
b) affettivo-relazionale esaminato nelle componenti: livello di autostima e rapporto con gli altri;
c) linguistico, esaminato nelle componenti: comprensione, produzione e linguaggi alternativi;
d) sensoriale, esaminato nelle componenti: tipo e grado di deficit con particolare riferimento alla vista, all'udito e al tatto;
e) motorio-prassico, esaminato nelle componenti: motricità globale e motricità fine;
f) neuropsicologico, esaminato nelle componenti: memoria, attenzione e organizzazione spaziotemporale;
g) autonomia personale e sociale".

Rispetto a questo schema organizzativo di contenuti, noi abbiamo operato alcuni cambiamenti. In primo luogo si è voluto dare maggiore rilievo alla parte "affettivo-relazionale", facendola diventare la quarta parte della diagnosi funzionale, con più dignità e importanza, attribuendole contenuti psicologici, affettivo-emotivi, relazionali e comportamentali.
In secondo luogo si sono accorpati i punti "cognitivo" e "neuropsicologico", visti i contenuti di quest'ultimo (memoria, attenzione, ecc.) dando particolare spazio agli aspetti metacognitivi e di controllo superiore dei processi e attività mentali, del tutto trascurati nell'Atto di indirizzo. Si sono divise poi le autonomie in due voci distinte: quelle personali e quelle sociali, per rimarcare la profonda differenza che esiste fra le due, utilissima proprio a scopo diagnostico riguardo al livello raggiunto dall'alunno. Gli aspetti "sensoriale" e "motorio-prassico" si sono fusi in un unico punto, che abbiamo definito "motricità e percezione". Si sono poi introdotti due punti specifici che riteniamo siano della massima importanza in questa parte della diagnosi funzionale: le "abilità interpersonali/sociali" (solo accennate come componenti dell'area affettivo-relazionale nello schema ministeriale) e il "gioco e abilità espressive". Riteniamo dunque che le aree generali, fondamentali da valutare in questa parte di diagnosi, siano le seguenti:
1) Abilità cognitive e metacognitive (attenzione, memoria, soluzione di problemi, capacità di autoregolazione).
2) Abilità di comunicazione e linguaggi (volontà di comunicare e padronanza dei vari linguaggi, anche non verbali).
3) Abilità interpersonali/sociali (capacità di avviare e mantenere un rapporto interpersonale adeguato).
4) Autonomia personale (abilità basilari di cura di sè: controllo degli sfinteri, alimentazione, igiene personale e vestirsi/svestirsi).
5) Autonomia sociale (abilità di autosufficienza nel rapporto con l'ambiente sociale: fare acquisti, usare i mezzi di trasporto, ecc.).
6) Motricità e percezione (motricità globale e fine; funzionalità sensoriale).
7) Gioco e abilità espressive (attività ludiche, giochi, hobby, sport).
In ognuna di queste aree, l'insegnante, con la collaborazione dello psicologo/pedagogista o dell'educatore può raccogliere dati esaurienti utilizzando strumenti di valutazione o schede di osservazione diretta.

3. Terza parte della diagnosi funzionale

Livelli raggiunti rispetto agli obiettivi della programmazione di classe
Nella parte precedente della diagnosi funzionale abbiamo valutato i livelli di competenza dell'alunno in sette aree generali che abbiamo ritenuto in ogni caso fondamentali per il suo sviluppo, apprendimento e socializzazione. Questo a prescindere dall'età e dalla situazione scolastica: qualunque sia la classe frequentata, dovremmo sapere qual è il suo livello per quanto riguarda l'autonomia personale e sociale, le abilità cognitive, interpersonali e così via. In un certo senso, nelle prime due parti della diagnosi funzionale si valutano le direttrici fondamentali su cui procede lo sviluppo, gli assi portanti della funzionalità psicofisica e relazionale dell'alunno. Ma il nostro alunno appartiene a una classe, sta seguendo con i compagni un ben preciso percorso scolastico. E allora la nostra valutazione dovrà rivolgersi attentamente anche ai suoi punti di forza e ai deficit rispetto agli obiettivi e alle attività che si svolgono nella normale programmazione della classe.
Naturalmente questa parte della valutazione ha senso se si vuole che l'alunno sia integrato nella classe e cerchi di fare il più possibile le cose che fanno tutti gli altri. Se invece l'alunno con handicap è confinato con il suo insegnante di sostegno o il suo educatore in una stanzetta, dove svolge attività completamente diverse da quelle della sua classe, non si può certo parlare di integrazione, né ha senso realizzare una diagnosi funzionale per l'individuazione di obiettivi riferiti alla attività di classe. Come noto, purtroppo questa è ancora oggi una situazione abbastanza diffusa anche se le scuole più sensibili e preparate la stanno decisamente superando. Ma perché la permanenza in classe abbia realmente senso per l'alunno e per i compagni, essa deve essere significativa, e cioè legata profondamente alle attività che vi si svolgono, e tale partecipazione di un alunno con difficoltà di una certa gravità è molto difficile da concepire e da realizzare.
E' molto più facile, infatti, definire e realizzare percorsi "speciali", tagliati su misura sui suoi bisogni e deficit nelle funzioni generali; questo divario tra "programmazione speciale fuori classe" e "programmazione di classe individualizzata sui bisogni specifici" tende ad accentuarsi con l'età dell'alunno.
In alcuni casi di alunni particolarmente tranquilli può anche essere facile il parcheggio all'interno dell'aula, con la classe che svolge il suo programma e l'alunno che esegue attività del tutto scollegate e diverse.
Come si può impostare allora questa difficile parte di diagnosi funzionale, così cruciale per l'integrazione?
A un primo livello, se le abilità possedute dall'alunno sono buone, la valutazione delle sue competenze rispetto alla classe sarà effettuata con le stesse modalità che l'insegnante usa per tutti gli altri alunni. In questo caso, gli insegnanti applicano prove oggettive (o prove di ingresso) costruite artigianalmente oppure disponibili in commercio.
Se però la situazione dell'alunno è più difficile, l'insegnante cerca allora di trovare un qualche "punto di contatto" tra le abilità possedute dall'alunno e alcuni obiettivi (e attività) propri del curricolo di una certa disciplina su cui stanno lavorando gli alunni di quella classe. In questo "punto di contatto" si dovrebbe trovare obiettivi e attività che rispondano a due criteri basilari:
- siano a "portata di apprendimento" da parte dell'alunno, siano cioè molto vicini ai punti di forza che sono stati evidenziati;
- facciano parte della disciplina in questione (siano cioè obiettivi normalizzati: anche se a livelli diversi di complessità tutti gli alunni ci hanno lavorato e non sono stati definiti soltanto per l'alunno handicappato).

Per trovare questo punto di contatto si seguono due piste convergenti: la conoscenza sempre più approfondita delle abilità e dei deficit dell'alunno nelle varie aree fondamentali di sviluppo (si veda la seconda parte della diagnosi funzionale) e la "semplificazione" e riduzione degli obiettivi propri di una disciplina. Se infatti si riescono a definire bene i punti di forza e di debolezza nelle aree cognitive, metacognitive, linguistiche, ecc., si avrà una solida base di partenza rispetto alle possibilità di apprendimento dell'alunno su vari livelli di difficoltà di obiettivi. Dall'altro lato, l'insegnante riduce e semplifica gli obiettivi di classe. Un primo modo per ottenere questa semplificazione è quello, ovvio, del tornare indietro agli obiettivi proposti per le classi precedenti, o addirittura per l'ordine di scuola precedente. L'insegnante elementare che si occupa dell'area linguistica in quarta classe può tornare indietro anche fino ai prerequisiti della lettura e della scrittura, e cioè agli obiettivi in uscita della scuola materna, se questo lo porta a individuare il punto di contatto tra situazione di sviluppo del suo alunno e obiettivi proponibili, legati al curricolo linguistico che utilizza con tutta la classe.
Un'altra modalità utile per ridurre e semplificare gli obiettivi della classe alla ricerca del "punto di contatto" è quella di sottoporli ad "analisi del compito", per individuare le componenti più semplici e accessibili. Un obiettivo complesso, in genere è composto da una serie coordinata di abilità "inferiori", che dovrebbero essere messe in atto congiuntamente nella sua accezione corretta.
In queste semplificazioni dell'obiettivo l'insegnante sta proponendo un lavoro molto strettamente connesso con quello che svolgono i compagni di classe dell'alunno handicappato. In molti casi la ricerca dell'obiettivo diverso (e cioè adatto alle sue capacità) ma nel contempo uguale (a quelli su cui sta lavorando la classe) è molto difficile e richiede molta creatività da parte degli insegnanti ed una continua collaborazione tra quelli curricolari e quelli di sostegno.

4. Quarta parte della diagnosi funzionale

Aspetti psicologici, affettivo-emotivi, relazionali e comportamentali
Questa quarta dimensione della diagnosi funzionale è della massima importanza, perché ci permette di conoscere più da vicino una serie di aspetti psicologici e comportamentali che influenzano talvolta in modo determinante il benessere dell'alunno, il suo apprendimento e le sue possibilità di una socializzazione soddisfacente. Alcuni di questi aspetti sono di immediata percezione da parte dell'insegnante, altri vanno invece analizzati utilizzando strumenti di valutazione particolari o avvalendosi della collaborazione di uno psicologo. In ogni caso, questa quarta area completa e "umanizza" la diagnosi funzionale, che finora si era rivolta alla descrizione della situazione biomedica e sociale, dei livelli di sviluppo e delle capacità scolastiche. Questa umanizzazione prende le forme di una valutazione dell'immagine di sé come persona che apprende" che l'alunno ha sviluppato nel tempo, dei suoi atteggiamenti e idee sul suo lavoro scolastico, del suo senso di autoefficacia e livello di autostima, della sua identità autonoma, della sua affettività ed emotività, della sua motivazione, della sua relazionalità ed eventualmente dei suoi comportamenti problematici. L'alunno viene qui considerato come una persona complessa dal punto di vista psicologico e non più solo come una persona che sa o non sa fare le cose che ci aspettiamo da lui.

Dalla diagnosi al profilo dinamico funzionale
La diagnosi funzionale ha prodotto una notevole quantità di dati: medici, familiari, sociali, sulla situazione evolutiva e sulle competenze dell'alunno rispetto agli obiettivi della classe, sulle sue caratteristiche psicologiche, emotive, relazionali e sugli eventuali comportamenti problematici. Questi dati provengono da diagnosi mediche, relazioni degli assistenti sociali, incontri con i genitori, con i terapisti della riabilitazione, i logopedisti, gli psicologi, altri insegnanti; provengono inoltre dall'osservazione diretta di inizio d'anno scolastico, dalla somministrazione di test, verifiche e prove oggettive.
Tutti questi dati si accumulano spesso in modo sparso, disordinato, senza collegamenti significativi fra di loro e davanti a questo spezzettarsi di informazioni, più o meno precise e oggettive, facciamo fatica a ricomporre e integrare l'unità globale e significativa dell'alunno.
Le operazioni del profilo dinamico funzionale che noi proponiamo dovrebbero aiutarci a ricostruire, dai dati della diagnosi funzionale, una sintesi integrata che ci permetta di comprendere a fondo le caratteristiche essenziali di quell'alunno, trasformandole in linee operative a breve e medio termine.
Come il lettore vedrà, questa nostra proposta riguardo al profilo dinamico funzionale introduce elementi diversi rispetto all'articolo 4 "Profilo dinamico funzionale" dell'Atto di indirizzo e coordinamento. La concezione di profilo che traspare dall'Atto di indirizzo ci rende perplessi per diversi motivi. Vi è spesso un riferimento "prognostico": ad esempio, nel comma 1, quando si legge: e "...indica... il prevedibile livello di sviluppo che l'alunno in situazione di handicap dimostra di possedere nei tempi brevi (sei mesi) e nei tempi medi (due anni)"; oppure, nel comma 2 descrive in modo analitico i possibili livelli di risposta dell'alunno in situazione di handicap riferiti alle relazioni in atto e a quelle programmabili; e nel comma 3: e comprende...l'analisi dello sviluppo potenziale dell'alunno a breve e medio termine. Un'espressione ricorrente è quella di "potenzialità", sul cui significato possono nascere diversi dubbi.
E' sicuramente importante che nel profilo vi sia un'ottica positiva, che metta in evidenza le capacità dell'alunno e stimoli a promuovere sviluppo e crescita, al di là di un'ottica patologica e legata al deficit.
Ma non è certo con queste concezioni "prognostiche", ancora molto appesantite da una concezione medica, che si rende operativa questa ottica positiva. Che senso ha parlare di "prevedibile livello di sviluppo" che l'alunno "dimostra di possedere"? Come si può dimostrare di possedere un...prevedibile livello di sviluppo? Lo sviluppo, come ognuno sa, dipende da una quantità di fattori in relazione, che sono nella persona, nell'ambiente, nell'interazione di questi due elementi e nelle rappresentazioni che di questi elementi si fanno i soggetti stessi (si pensi, per quest'ultimo punto, alla fiducia che può avere o non avere l'insegnante rispetto alle possibilità del suo alunno). Come si può prevedere tutto questo soltanto dopo un primo periodo di inserimento scolastico?
Crediamo che non abbia senso cercare di prevedere il futuro ma sia essenziale cercare invece di costruirlo, giorno dopo giorno, con attività concrete mirate a precisi obiettivi. Dove si arriverà, quali saranno "i possibili livelli di risposta" non lo sa nessuno, e concentrarsi in questo sforzo prognostico può essere addirittura controproducente, se induce aspettative riduttive. Nella nostra proposta si abbandona il concetto di "potenzialità esprimibile" e si introduce quello di obiettivi a lungo, medio e breve termine. Si cerca cioè di superare quella concezione "prognostica" di profilo, per definire una serie di operazioni che si fondino su una concezione pedagogica e psicologica moderna, sulle metodologie più accettate di programmazione didattica, che siano di reale e immediata utilità per gli insegnanti impegnati nell'integrazione scolastica. Se si è cercato di rendere più pedagogica e allargata la diagnosi funzionale, a maggior ragione la stessa logica va riproposta in questa fase, che dovrebbe essere il ponte essenziale per passare alla definizione di attività concrete di insegnamento. Nella nostra proposta, il profilo dinamico è una "macchina" a quattro fasi, che trasforma i dati della diagnosi funzionale in basi dirette per la programmazione degli interventi, arrivando a definire gli obiettivi a breve termine rispetto a precise priorità. Ma non è solo questo: nella prima fase si cerca di introdurre un elemento del tutto trascurato nel profilo ministeriale e cioè la sintesi significativa dei dati raccolti e la messa in relazione tra di loro, con lo scopo di capire qualcosa di più della situazione dell'alunno e per proporgli un programma di lavoro realmente individualizzato. Questo è un momento fondamentale per collegare la diagnosi alla programmazione delle attività, che molto spesso non hanno alcun contatto funzionale tra di loro.

Sintetizzare in modo significativo i risultati della diagnosi funzionale
La raccolta dei dati della diagnosi funzionale, se fatta nella maniera aperta e collegiale da noi proposta, ha prodotto delle informazioni organizzate in modo più o meno sintetico. Le fonti sono state molte e diverse e hanno fornito dati anche molto differenti, si pensi a esempio a un quoziente di sviluppo motorio ottenuto con un test specifico e alle informazioni sulle capacità motorie fornite invece dai genitori.
Tutti questi dati vanno però confrontati e sintetizzati in modo significativo.
Le informazioni dovrebbero essere sintetizzate e integrate attorno a tre poli principali:
1) punto di forza, e cioè livello raggiunto, abilità possedute adeguatamente;
2) deficit, cioè carenza, mancanza, incapacità o sviluppo inadeguato rispetto ai criteri e alle aspettative;
3) relazioni di influenza tra una caratteristica e l'altra dell'alunno. Se pensiamo alla persona umana come essere caratterizzato dal più alto grado di integrazione e interconnessione di aspetti e caratteristiche, dobbiamo tentare di individuare alcune di queste relazioni, soprattutto quelle più utili per gli obiettivi dell'integrazione scolastica. Ad esempio, si può riscontrare che un livello elevato di emozione (paura di sbagliare), rilevato nell'area 4 della diagnosi funzionale, peggiora significativamente la prestazione di lettura del bambino (area 3 della diagnosi funzionale) e il suo linguaggio in situazione di grande gruppo (area 2 della diagnosi funzionale). E' evidente come queste interconnessioni siano importanti a livello di individualizzazione del percorso educativo.
L'analisi dei comportamenti problema porta poi spesso a stabilire rapporti causali circolari tra deficit di abilità interpersonali (ad es. incapacità di negoziare un conflitto) e sviluppo di modalità aggressive di relazione con i compagni. Come si vede, anche in questo caso si è stabilita una relazione di influenza, significativa e utile, tra dati rilevati nell'area 4 della diagnosi funzionale e nell'area 2.

Definire gli obiettivi a lungo termine
Da questi quadri sintetici si ricavano gli obiettivi a lungo termine, quelli che "idealmente" ci piacerebbe raggiungere in una prospettiva temporale che si potrebbe collocare dall'uno ai tre anni. Si potrebbe dire che in questa fase della stesura del profilo dinamico funzionale si definiscono gli obiettivi "teorici", tutti quelli cioè che derivano dall'analisi riportata precedentemente. Una gamma dunque di possibili obiettivi, all'interno della quale si dovranno operare una valutazione e una scelta, per concentrare le nostre energie su quelli che sono più importanti.

Scegliere gli obiettivi a medio termine
In questa fase vengono scelti, tra gli obiettivi a lungo termine, quelli da cui ricavare gli obiettivi a medio termine, da raggiungere cioè nell'arco di alcuni mesi o di un anno scolastico. Si passa cioè dall'obiettivo potenziale, e cioè teoricamente adeguato alla luce del deficit e abilità evidenziati nella diagnosi funzionale, all'obiettivo effettivo, quello cioè scelto sulla base di criteri di priorità e di equilibrio, su cui si inizia a lavorare e per il quale si deve cominciare a pensare quali materiali, tecniche e interventi saranno più efficaci.

Definire gli obiettivi a breve termine e le sequenze facilitanti di sotto-obiettivi
In moltissimi casi, aver definito una buona serie di obiettivi a medio termine non esaurisce questa fase di programmazione; c'è infatti bisogno di semplificarli, ridurne la complessità e scomporli in sotto-obiettivi che facilitino l'apprendimento. Queste operazioni ci portano alla parte del piano educativo individualizzato in cui vi è la definizione dei materiali e delle attività di insegnamento.


In conclusione, ripercorriamo le varie operazioni e fasi che hanno costruito il profilo dinamico funzionale: dapprima abbiamo sintetizzato i risultati della diagnosi funzionale, riducendoli organicamente in alcuni quadri attorno ai poli unificanti di "abilità/punto di forza", "deficit" e "relazioni di influenza"; come operazione successiva abbiamo ricavato, in corrispondenza dei deficit evidenziati precedentemente, una serie di obiettivi potenziali a lungo termine, di abilità e cambiamenti adattivi che idealmente ci piacerebbe raggiungere con quell'alunno; subito dopo però abbiamo ridotto le nostre "pretese" scegliendo una serie più accessibile di obiettivi a medio termine, cercando di definirli attraverso la mediazione di esigenze diverse; questi obiettivi sono stati poi ulteriormente scomposti e analizzati in obiettivi a breve termine, organizzati in alcuni casi addirittura in sequenze facilitanti di sotto-obiettivi graduati per difficoltà.
A questo punto abbiamo le idee molto più chiare sul dove andare, anche nei più piccoli dettagli, e soprattutto avremo anche riflettuto sul perché andare in un certo luogo piuttosto che in un altro; siamo pronti allora a definire modi concreti per aiutare il nostro alunno in questo viaggio, con materiali e attività specifiche di insegnamento, sia che si tratti di adattamenti e modifiche di ciò che viene fatto da tutti i suoi compagni in classe, sia che si tratti di materiali e attività specifiche studiate per alunni con difficoltà di apprendimento.


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Gardner J., Murpy J., Crawford H., Programmazione educativa individualizzata, Erickson, Trento 1991
Giusti Mariangela, Handicap e scuola media superiore, La Nuova Italia, Scandicci 1996
Imprudente Claudio, E se gli indiani fossero normali?, Cappelli, Bologna 1992
Martinelli Mario, L'handicap in classe tra individualizzazione e programmazione, La scuola, Brescia 1998
Moniga Silvia, Vianello Renzo, Handicap mentale, Utet Libreria, Torino 1994
Nocera Salvatore, Gli accordi di programma per l'integrazione scolastica e sociale delle persone handicappate, Unicopli, Milano 1994
Nocera S., Cottoni G., Handicappati gravi e gravissimi: è possibile l'integrazione nella scuola di tutti, Fondazione Zancan, Padova 1988
Pavone Marisa, Valutare gli alunni in situazione di handicap, Erickson, Trento 1997
Pavone M., Tortello M., Handicap e scuola media superiore, Utet Libreria, Torino 1995
Pavone M., Tortello M., Le leggi dell'integrazione scolastica, Erickson, Trento 1996
Pergolesi S., Imprudente C., Progetto Calamaio, Utet Libreria, Torino 1997
Rollero P., Faloppa M. (a cura di), Handicap grave e scuola, Rosenberg & Sellier, Torino 1998
Tibaldi Marco, Trasformare l'handicap, Del Cerro, Tirrenia 1996
Tolomei Carla, Il bambino "grave" va a scuola, Del Cerro, Tirrenia 1997
Tortello Mario, Integrazione degli handicappati, La scuola, Brescia 1996
Vico Giuseppe, Handicap diversità scuola, La scuola, Brescia 1994
Virzì calogero, Grazie...Valerio, CUECM, Catania 1993
Zanelli Paolo, Uno sfondo per integrare, Cappelli, Bologna 1986

Si segnalano, inoltre, i seguenti editori particolarmente attenti alle problematiche dell'integrazione scolastica: Del Cerro, Via delle Orchideee 17, 56018 Tirrenia (PI); Erickson, Corso Buonarroti 13, 38100 Trento; La Nuova Italia, Via Codignola, 50018 Casellina di Scandicci (FI); Omega, Via Cirenaica 42, 10142 Torino.

Articoli
Ad integrazione della bibliografia sopra riportata proponiamo di seguito alcuni articoli utili per un ulteriore approfondimento; segnaliamo in particolare le riviste Handicap & scuola (Via Artisti 36, 10124 Torino) e Difficoltà di apprendimento (Corso Buonarroti 13, 38100 Trento) che si offrono come prezioso strumento di approfondimento per i temi legati all'integrazione scolastica delle persone handicappate.


AA.VV., L'handicap grave e il diritto all'istruzione, Handicap & scuola, n. 9-10/93, p. 3
AA.VV., Integrazione scolastica. Alcuni punti fermi per non tornare indietro, Handicap & scuola, n. 9-10/96, p. 3
AA.VV., Handicap: la qualità dell'integrazione come valutarla come (ri)costruirla, Handicap & scuola, n. 1-2/96, p. 21
AA.VV., Le istituzioni educative "speciali" non hanno alcuna giustificazione giuridica, Handicap & scuola, n. 3-4/96, p. 27
AA.VV., La diagnosi funzionale: critiche e alternative all'atto di indirizzo del febbraio 1994, Difficoltà di apprendimento, n. 2/95, p. 225
Canevaro Andrea, L'integrazione delle dimensioni rivendicativa, assistenziale e tecnico culturale, Handicap & scuola, n. 77/98, p. 9
Canevaro Andrea, Atto di indirizzo e coordinamento alle Unità sanitarie locali. Rischi di sanitarizzazione dell'educazione degli handicappati, Handicap & scuola, n. 4-5/94, p. 5
Canevaro Andrea, L'integrazione: analisi delle condizioni, dei valori e delle implicanze sociali, Handicap & scuola, n. 1-2/96, p. 5
Canevaro Andrea, Le ragioni dell'integrazione, Handicap & scuola, n. 7-8/97, p. 6
Carletti Pari Daniela, Il contributo formativo dei genitori all'integrazione scolastica, Handicap & scuola, n. 1-2/97, p. 7
Carletti Pari Daniela, L'autonomia possibile dei disabili. Interroghiamo l'esperienza: indicazioni per genitori docenti e compagni di classe, Handicap & scuola, n. 79/98, p. 15
Celi Fabio, Programmazione di classe e obiettivi: come collegarli?, Difficoltà di apprendimento, n. 3/96, p. 387
Gasparini Annamaria, Individualizzazione dell'insegnamento: avvicinare gli obiettivi dell'alunno con handicap a quelli della classe, Difficoltà di apprendimento, n. 2/96, p. 221
Ianes Dario, Diagnosi funzionale, profilo dinamico e piano educativo, Handicap & scuola, n. 9-10/97, p. 16
Neri Sergio, La scuola delle autonomie: impegni e prospettive dell'Osservatorio nazionale per l'integrazione scolastica, Handicap & scuola, n. 79/98, p. 3
Nocera Salvatore, La forza propulsiva e di salvaguardia della Sentenza n. 215/87 nella normativa e nella scuola, Handicap & scuola, n. 79/98, p. 7
Nocera Salvatore, quali scenari per l'integrazione scolastica nel 2000?, Appunti, n. 4/98, p. 2
Pavone Marisa, Le prospettive dell'integrazione scolastica nei documenti internazionali dell'OCSE, Difficoltà di apprendimento n. 3/98, p. 413
Rollero Piero, Ancora sull'atto di indirizzo alle USL. Qualche punto positivo in mezzo a nodi sempre più allarmanti, Handicap & scuola, n. 12/94, p. 3
Rollero Piero, Le (in)compatibilità fra individualizzazione e integrazione efficace nel gruppo classe. Alcune strategie di intervento, Handicap & scuola, n. 3/97, p. 3
Rollero Piero, L'integrazione possibile. Ovvero, come si può realizzare un ambiente disponibile all'accoglienza, Handicap & scuola, n. 9-10/96, p. 23
Rollero Piero, A un punto cruciale l'integrazione scolastica degli alunni in situazione di handicap, Prospettive Assistenziali, n. 122/98, p. 10
Rollero Piero, Tortello Mario, La certificazione dell'handicap secondo l'atto di indirizzo. Di male in peggio, Handicap & scuola, n. 4-5/94, p. 3
Rollero Piero, Tortello Mario, A vent'anni dalla circolare "Falcucci". Dove va l'integrazione nella scuola di tutti?, Handicap & scuola, n. 5-6/95, p. 3
Rollero Piero, Tortello Mario, "Scuole particolarmente attrezzate": perchè continuiamo a dire no alla concentrazione di alunni con handicap, Handicap & scuola, n. 7-8/96, p. 15
Rollero Piero, Tortello Mario (a cura di), Una rilettura pedagogica della sentenza della Corte Costituzionale. La "Magna Charta" dell'integrazione scolastica, Handicap & scuola, n. 1/97, p. 2
Rollero Piero, Tortello Mario, Gli alunni con handicap "grave" nella riserva indiana? L'indagine conoscitiva della Commissione Cultura, Scienza e Istruzione della Camera dei deputati, Handicap & scuola, n. 78/98, p. 1
Spagnoli Ugo, La difesa dei diritti civili inalienabili sanciti dalla Costituzione, Handicap & scuola, n. 77/98, p. 5
Tortello Mario, La scuola nella finanziaria 1998, Appunti, n. 1/98, p. 8
Zucchi Riziero, Pedagogia e medicina, le basi per il dialogo a sostegno dei rapporti famiglia, scuola e USL nell'ottica dell'integrazione, Handicap & scuola, n.7-8/97, p. 21


Diamo di seguito anche alcuni indirizzi di associazioni che possono fornire informazioni sui temi dell'integrazione scolastica delle persone handicappate.

Comitato per l'integrazione scolastica degli handicappati, Via Artisti 36, 10124 Torino;
Centro per la documentazione legislativa, Via P. Vergerio 19, 35126 Padova;
Lega per la difesa dei diritti degli handicappati, Via Monte Santo 7, 20124 Milano;
Associazione Italiana Persone Down, Via Viale delle Milizie 106, 00192 Roma;
Federazione Italiana per il Superamento dell'Handicap, Via Prospero Santacroce 5, 00167 Roma.