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Articolo pubblicato sul numero 241, 4/2022
ottobre-dicembre 2022

Alcune considerazioni attorno ai conflitti interni all'area del lavoro educativo e alla carenza di educatori ed educatrici

Sergio Tramma

Ordinario di Pedagogia generale e sociale e interculturale
Università Milano-Bicocca

Tipologia: Articolo


Oltre a essere terminata, e da un pezzo, la stagione dell’impegno politico diretto, si è esaurita anche, e questo nel campo delle politiche educative è di rilevante importanza, la stagione della cooperazione molto sociale e poco impresa. Siamo nella fase della privatizzazione dei servizi, delle assicurazioni sanitarie, dell’esaurimento dello stato sociale, della ripresa delle vecchie mutue e del paternalismo aziendale con il nome di welfare e responsabilità sociale delle imprese.

Nel film “Uomini contro” diretto da Francesco Rosi (1970), un’opera fortemente antimilitarista ambientata nella Grande guerra, vi è una scena diventata giustamente famosa: durante uno dei tanti assalti dei soldati italiani alle trincee nemiche, nel mentre vengono massacrati dal fuoco delle mitragliatrici - tanto da sentirsi rivolgere dagli stessi avversari la supplica a tornare indietro -, il tenente Ottolenghi (un, come sempre grande, Gian Maria Volontè) si rivolge ai soldati urlando “Basta con questa guerra di morti di fame contro morti di fame”. Ecco, fatte le debite e doverose proporzioni (la storia si presenta la prima volta sotto forma di tragedia, la seconda di farsa, scriveva Karl Marx), lo stesso invito, stante alcuni recenti avvenimenti, potrebbe essere rivolto a chi si trova ad essere protagonista o coinvolto dai conflitti tra le diverse declinazioni delle professioni sociali, educative, psicologiche, sanitarie. Potrebbe apparire inopportuno, quasi offensivo, usare la definizione morti di fame, quasi un invito a far percepire gli operatori sociali ed educativi come dei “sottoproletari”. Ma non lo è. È invece un invito volutamente estremizzato poiché pone la questione nella sua essenzialità, è una chiamata a pensarsi tutti gli operatori caratterizzati da una comune condizione di debolezza, cioè l’essere sottopagati, non riconosciuti socialmente, subalterni rispetto ad altre professioni quali, per esempio, quelle sanitarie apicali, considerate da sempre forti seppure, negli ultimi tempi, anche loro sottoposte a usura di immagine e di prestigio e di condizioni lavorative, soprattutto nel comparto pubblico.

Il conflitto tra educatori socio-sanitari e socio-pedagogici
Il riferimento è in particolare al conflitto che si è attivato tra educatori socio-sanitari e educatori socio-pedagogici, cioè tra coloro che hanno differenti ambiti e percorsi formativi formali: medicina da una parte, scienze dell’educazione dall’altra. L’ultimo di una serie di atti di belligeranza (in verità più a senso unico, dai sanitari contro i pedagogici) è il “ricorso straordinario” al Presidente della Repubblica del 30 giugno del 2022 fatto da una rappresentanza degli Ordini Dei Tecnici Sanitari di Radiologia Medica, delle Professioni Sanitarie Tecniche, della Riabilitazione e della Prevenzione (TSRM-PSTRP) contro la possibilità (riconosciuta da una norma di legge del 2020) che gli educatori socio-pedagogici possano operare nelle componenti educative dei servizi socio-assistenziali e socio-sanitari. In altri termini, gli educatori socio-sanitari ritengono illegittimo che nei prima citati servizi possano operare, anche solo per quanto riguarda le dimensioni educative, i “cugini” socio-pedagogici. Questo ricorso ha generato una ovvia reazione da parte delle molte associazioni di educatori, si è venuta quindi a creare una tempesta quasi perfetta nella quale i “morti di fame” confliggono tra loro invece, come sarebbe auspicabile, di far fronte comune contro i veri nemici delle loro professioni, cioè dalla privatizzazione dei servizi alla svalutazione delle professioni sociali e di aiuto, dalla sanitarizzazione di molti aspetti del disagio di vivere alla deriva delle politiche securitarie. Sarebbe stata più opportuna una rivendicazione comune da parte di tutte le professioni educative, sociali e sanitarie attorno alla necessità che il benessere individuale e collettivo sia garantito più dalla presenza nei servizi e nei territori di operatori professionisti che da quella di immaginifici poliziotti, vigili, telecamere e (tra un po’) droni di quartiere. La questione presenta dunque aspetti molteplici che vanno dalla concorrenza tra le varie figure professionali per conquistare territori entro i quali poter lavorare al ritenere che le risposte ai bisogni debbano essere frazionate, frammentarie e assegnate a figure professionali anche molto diverse tra loro.

Educatori senza … titolo
Tutto ciò si è collegato con un’altra questione che ha interessato nell’ultimo periodo il mondo dei servizi educativi, cioè la carenza di lavoratrici e lavoratori con il titolo e i requisiti previsti dalle attuali normative. Per fare fronte a ciò, alcune amministrazioni regionali hanno concesso la possibilità ai servizi e alle cooperative ecc., di poter funzionare anche con persone provenienti da altri percorsi formativi, quasi che il faticoso riconoscimento della necessità della laurea ad hoc degli educatori sia stato un inciampo o una parentesi da chiudersi al più presto. Ovviamente, tutto ciò giustificato da non poter interrompere l’erogazione dei servizi, dal non penalizzare i loro destinatari, come se davanti all’attuale emergenza dei pronto soccorso si desse l’incarico ai laureati in scienze motorie o in biologia. Ma il problema non sta in questi termini, è fuorviante e anche un po’ ricattatorio, mettere al primo posto i bisogni degli utenti e non, invece, oltre ai bisogni, la capacità di rispondervi adeguatamente e professionalmente, come del resto è nel diritto dei destinatari stessi. È questa un’attenzione che dovrebbe essere propria di ogni servizio, ma ancor di più di quelli a carattere educativo poiché essi  portano nella loro, non troppo remota, storia il significativo e ingombrante peso dell’essere stati repressivamente custiodalistici: infatti, la professionalità degli addetti si misurava anche, se non soprattutto, con la capacità di mantenere l’ordine pubblico interno e di formare dei soggetti che non l’avrebbero turbato, una volta terminata l’esperienza educativa, all’esterno. Per fare ciò non vi era necessità di alcuna formazione umanistica, tanto meno scientifica.
Davanti alla mancanza delle figure educative vi sono molte domande da porsi: quali politiche sono state attuate per garantire migliori condizioni di lavoro o per non costringere le cooperative a giocare sempre e comunque al ribasso quantitativo e qualitativo nella risposta ai bandi? Quando sono state affrontate radicalmente e con urgenza tutte le carenze esistenti in campo sociale ed educativo? Una frazione di PNRR non avrebbe potuto essere destinata al potenziamento significativo e irreversibile dei servizi educativi?
Tutto ciò avviene anche per l’incapacità di leggere le condizioni storiche all’interno delle quali maturano i percorsi formativi e professionali delle giovani leve di educatrici ed educatori. Coloro che si avvicinano al lavoro educativo intraprendendo una formazione universitaria sono figli del loro tempo, e non potrebbe essere diversamente. E lo sono anche in termini di un dissenso, nei confronti di tale tempo, che nasce dal rifiuto, con differenti livelli di consapevolezza, di alcuni valori portanti (arrivismo, auto-imprenditorialità, frammentazione, concorrenza tra pari ecc.) dell’ideologia che permea la contemporaneità, un rifiuto che, ovviamente, non può trasformarsi autonomamente in una prospettiva politica e in un progetto di cambiamento generale e radicale della società, e neppure trova tali prospettive già esistenti nello scenario sociale. Un dissenso che si trasforma in una domanda di attività professionale con le persone in “carne e ossa”, e non in luoghi dove la ricerca del massimo profitto, prevalentemente altrui, è la “mission” aziendale. Deriva dal dissenso anche il rischioso tentativo di rifugiarsi in ambiti illusoriamente proteggenti come, per esempio, quella di “lavorare con i bambini”, oppure nel desiderare dare continuità ad esperienze positivamente vissute quali quelle degli oratori. Sono finiti, e da un pezzo, i tempi delle “idee generali” antagoniste al capitalismo, delle vocazioni a tutto tondo, degli “ultimi” che, cristianamente, saranno i primi, o con un confuso richiamo alla tradizione marxista, diventerebbero la classe dirigente della società. Le motivazioni di dissenso nei confronti dell’esistente da parte delle nuove generazioni non possono essere assimilate a quelle delle precedenti, così come diverse sono le tensioni al cambiamento e le condizioni economiche, sociali e culturali dalle quali tali tensioni scaturiscono. In altri termini, oltre a essere terminata, e da un pezzo, la stagione dell’impegno politico diretto, si è esaurita anche, e questo nel campo delle politiche educative è di rilevante importanza, la stagione della cooperazione “molto sociale e poco impresa”. Siamo nella fase della privatizzazione dei servizi, delle assicurazioni sanitarie, dell’esaurimento dello stato sociale, della ripresa delle vecchie mutue e del paternalismo aziendale con il nome di welfare e responsabilità sociale delle imprese. In questa situazione, possono essere chieste alle figure operanti nell’ambito sociale e aziendale motivazioni e aspettative speciali in grado di fargli affrontare qualsiasi contesto professionale, quasi non fosse lavorativo bensì un modo per esplicitare la loro carica vocazionale o antagonista a cambiare il mondo o ad assumerne le sofferenze su di sé?

Chiedere senza dare
Agli educatori viene dunque richiesto molto e dato molto poco, motivo per il quale si registra la carenza di queste figure professionali. Ma vi è un altro strutturale elemento ideologico e culturale che sta alla base del ri-aprirsi dei servizi a persone provenienti da formazioni diverse da quelle educative. È la convinzione che tutti siano in grado “naturalmente” di educare (nella versione nobile) o che per educare ci vuole poco (nella versione meno nobile), cioè che ciascuno è in grado di entrare proficuamente all’interno di esperienze educative individuali e collettive tra le più “normali” quale, per esempio, l’asilo nido, o quelle più eccezionali, per esempio, il gruppo di adolescenti in quartieri problematici. E ognuno è in grado di agire all’interno di tali esperienze (fatta salva qualche accanita resistenza nei confronti di certe utenze) poiché l’educare sarebbe componente inscindibile della cosiddetta natura umana che troverebbe la sua apoteosi nell’educazione familiare nei confronti dei discendenti. In altre parole, la competenza educativa sarebbe pressoché innata, si nutrirebbe di disponibilità e motivazioni presenti anche in ogni animale non umano, casi patologici a parte, e per farla emergere sarebbe necessaria la solita azione maieutica che trasformi le potenzialità in atti. E questo per quanto riguarda il ramo nobile delle motivazioni, quello meno nobile giunge alla medesima conclusione poiché considera l’educare un’attività alla portata di tutti, non perché vocazionalmente connessa all’umano ma per la semplicità dei suoi elementi costitutivi e delle sue dinamiche, per il riproporsi nel tempo delle sue didattiche, perché è sufficiente trattare gli altri come si è stati trattati o, ma è la stessa cosa, come non si è stati trattati mai.
La connessione tra la richiesta da parte degli educatori socio-sanitari di impedire l’accesso nei servizi a forte componente sanitaria con la carenza di operatori educativi parrebbe mostrare i limiti di una concezione del mercato che ne vede i movimenti generati prevalentemente dal gioco tra la domanda e l’offerta: perché gli educatori socio-pedagogici dovrebbero ambire a lavorare negli ambienti educativi dei servizi sanitari quando esisterebbero spazi apparentemente infiniti negli altri servizi? La domanda potrebbe apparire sensata se tutto fosse ricondotto e ridotto alla compravendita di forza lavoro astrattamente intesa, senza fare riferimento alle storie complessive che stanno alle spalle delle figure, e senza la consapevolezza che gli attori impegnati non sono degli idealtipi ma altrettante esistenze complesse nelle quali agiscono variabili che vanno dalla sicurezza del posto di lavoro alla giusta remunerazione, dal pensarsi inseriti in una missione salvifica al tentare di praticare la funzionale separazione tra l’impegno lavorativo e il resto della vita.
Quello che emerge è una situazione di crisi nella quale di tutto c’è bisogno tranne di camarille dallo sguardo corto o di teorizzazione di situazioni d’emergenza (da tempo cronicizzate) che devono essere affrontate con soluzioni “creative”. Sono le situazioni di crisi nelle quali parrebbero essere necessarie e legittimabili solo risposte di emergenza che devono, invece, attivare ricerche subitanee di prospettive di breve, medio e lungo periodo. E questo anche attorno alla ricerca delle comuni identità educative e alla capacità si pensarsi soggetto collettivo. Ma di tutto ciò, per adesso, non pare esservi cenno.


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