Articolo di Appunti (Accesso libero)
Articolo pubblicato sul numero 241, 4/2022
ottobre-dicembre 2022
Immaginare i servizi che si vorrebbero per sé. L'esperienza della residenza per anziani di Pinzolo
Ennio Ripamonti
Tipologia: Articolo
Non sappiamo cosa succederà nei prossimi anni, se si deciderà o meno di investire risorse e intelligenze per sviluppare un sistema di servizi in grado di accompagnare le nostre società sempre più anziane, coniugando sostenibilità economica e sostenibilità sociale, garantendo libertà, dignità e rispetto alle persone più fragili. Una cosa è certa, il futuro non è lontano, anzi; potremmo dire che il futuro (forse) è adesso, ed una sua piccola porzione è già qui.
Articolo tratto dal testo: Ennio Ripamonti e Letizia Espanoli, Dar casa al tempo fragile, Depero Edizioni, Verona, 2022.
Fare le cose che si dicono, e farle bene
Il navigatore stima poco meno di tre ore di auto per il viaggio Milano-Pinzolo, mi suggerisce di uscire a Brescia Est, proseguire fino a Vobarno e da lì imboccare la Val Rendena. È difficile per chi arriva in Trentino oggi cogliere i segni della lunga storia di migrazioni che ha caratterizzato queste valli, un flusso che agli inizi del Novecento ha raggiunto numeri molto rilevanti. Un esodo che è continuato fin dopo la Seconda Guerra Mondiale per poi esaurirsi progressivamente in corrispondenza con il boom economico degli anni ’60 e l’esplosione del turismo, oggi una delle principali economie della valle. Stiamo andando a Pinzolo, non per una vacanza, ma per conoscere il Centro Residenziale Abelardo Collini, una struttura per anziani fragili. Negli anni mi è capitato di conoscere numerose strutture di questo tipo, la cui varietà di ambienti, servizi e qualità è quanto mai eterogenea. Nell’immaginario collettivo sono posti mediamente tristi (per quanto utili) una via di mezzo fra un ospizio e un ospedale, di cui si sa poco o nulla se non si è costretti dalla situazione di un anziano genitore non più autonomo, di un parente o di un amico che necessitano di cura e assistenza. Fra gli effetti imprevisti della pandemia di Covid-19 c’è stata, chi poteva immaginarselo, l’inattesa notorietà di questi servizi, una notorietà tragica, purtroppo, ma che ha avuto il pregio di portare alla ribalta il tema dell’invecchiamento fragile.
Dal sito web scarico la brochure con la carta dei servizi. Mi colpisce la foto di quattro signore che chiacchierano in un ambiente al coperto, una sorta di giardino d’inverno con sullo sfondo un grande albero frondoso disegnato su una parete. Sulla foto di copertina campeggia la scritta “L’arte di prendersi cura”, senza dubbio un pubblicitario potrebbe considerarlo un ottimo slogan. Nelle prime pagine trovo la descrizione della mission. Avendo visto molte altre carte dei servizi riconosco lo stile, i concetti, il messaggio. Ogni volta che mi capita di leggere questo tipo di documenti, pur riconoscendo le buone intenzioni, mi chiedo quanto pesi la retorica, il linguaggio paludato e il rischio, sempre incombente, delle frasi fatte. Sono ancora ignaro di quanto queste parole si siano davvero trasformate in una realtà concreta, certo imperfetta, come ogni vicenda umana, ma decisamente autentica e tangibile. Mentre leggo velocemente il testo ancora non so che a Pinzolo, con molti sforzi e fra mille difficoltà, si è riusciti davvero, come recita la brochure a «garantire, nel rispetto dell’individualità, della riservatezza e della dignità della persona, una qualità di vita il più elevata possibile al residente, considerandone i peculiari bisogni psichici, fisici e sociali, attraverso un’assistenza qualificata e continuativa, in stretta collaborazione con la famiglia, i servizi del territorio ed il volontariato».
La vecchiaia ci riguarda, tutti
Avendo superato i sessant’anni mi è più facile osservare, nella cerchia di colleghi e di amici, l’impegno ad affrontare la vulnerabilità di genitori che perdono autosufficienza o le cui condizioni croniche richiedono assistenza e cure costanti. Per la maggior parte delle persone è il momento in cui si “scopre” l’universo delle strutture residenziali, un’esplorazione non certo facile, che i parenti compiono spesso in solitudine, senza mappe per orientarsi e indicazioni per decidere. Si cerca una struttura vicino a casa, in modo da poter far visita facilmente ai propri cari, che offra servizi di qualità (o quantomeno dignitosi) in un ambiente gradevole e curato. C’è poi la questione economica, alcune strutture sono più care, altre meno. Non sempre la scelta che si vorrebbe fare è sostenibile, quindi si opta per un’altra, magari dovendo mediare con un fratello o una sorella. Raccogliendo dati su questo universo colpisce come, a livello nazionale, il ruolo delle strutture pubbliche sia minoritario (poco più di un quarto del totale) e risulti molto più consistente il ruolo dei privati, in prevalenza non profit (cooperative e fondazioni religiose), che arrivano a quasi la metà del totale. Un ulteriore quarto è rappresentato da società profit, evidentemente ci sono spazi per fare utili. Un’altra cosa che salta agli occhi è quanto poco dibattito, riflessione e politiche pubbliche siano state prodotte intorno al tema dell’invecchiamento, ancor di più in un paese con numeri così alti di cittadini anziani.
L’impatto con la struttura di Pinzolo conferma la potenza della realtà concreta, non solo dal punto di vista paesaggistico (in fin dei conti siamo sempre in una bellissima valle alpina) ma, soprattutto, dal punto di vista strutturale. Fra le molte conversazioni che mi sono trovato a fare è quella con Adriano Benedetti, operatore socioassistenziale, che si concentra in modo più dettagliato su questi aspetti. Ci soffermiamo sull’importanza che assume la dimensione architettonica: un edificio ben integrato con l’ambiente circostante, con il sapore di un albergo, che fa venire in mente un luogo di villeggiatura.
«Il mio primo giorno», ricorda Adriano, «credevo di aver sbagliato indirizzo poi sono entrato e la coordinatrice mi aspettava al bar per un caffè e ho pensato veramente di essere capitato all’albergo».
Dal racconto si coglie quanto la struttura fisica possa influenzare il clima psicologico, la qualità di vita degli ospiti e degli operatori. La cosa che si nota più di tutte, e che fa la differenza, sono le grandi vetrate affacciate sulla natura circostante: i prati, i boschi, le montagne e il cielo. C’è una grande trasparenza, sia dall’interno verso l’esterno, che dall’esterno verso l’interno; qualcosa che, anche mentalmente, dà respiro.
«C’è una simbiosi col territorio e un legame con l’ambiente», continua Adriano, «che diventa una connessione con il passato, perché gli anziani ospiti vivono una realtà nota, familiare, che non è avulsa dalla loro biografia esistenziale. Certo non è la propria casa ma ha molti elementi che la richiamano. Un luogo familiare, normale, caldo e profondamente umano, elementi che influenzano il benessere, che mettono le persone in uno stato d’animo positivo, tranquillo, e favorevole alla relazione».
Aver voglia di innovare e innovarsi
Incontro Federica Audi Grivetta, responsabile della qualità e della formazione, nel suo ufficio dalle pareti trasparenti e le chiedo di aiutarmi a capire qual è la “ricetta” di Pinzolo, quali sono gli ingredienti che hanno consentito di realizzare un servizio come questo. «Ce ne sono diversi», mi dice Federica, «ma ne vedo quattro fondamentali. Per prima cosa lavorare in staff(direttore, coordinatrice) su obiettivi condivisi e partecipati e facendo in modo che le informazioni circolino il più possibile. Come seconda cosa serve perseveranza. Si costruisce passo a passo, una cosa dopo l’altra. Il terzo punto è la competenza. Devi avere persone preparate professionalmente, brave, capaci e aggiornate. Da ultimo serve autorevolezza. Coordinare vuol dire anche controllare il lavoro, verificare che le cose vengano fatte bene. Non tutte le persone sono uguali, a volte ci sono operatori “appoggiati”, che si adeguano passivamente ad una linea scelta. Certo, molti altri sono convinti e partecipi, ma c’è sempre qualcuno che fa più fatica. Oggi ci rendiamo conto che non è facile trovare il modo di trasmettere al personale che è arrivato negli ultimi anni tutta la cultura organizzativa che si è cercato di costruire nel tempo, ma è uno sforzo che dobbiamo fare». Ripercorro mentalmente le diverse situazioni che ho incontrato in giro per l’Italia, in cui c’era in gioco il tentativo di innovare un servizio sociale, educativo, sociosanitario o assistenziale: scuole, comunità terapeutiche, centri di aggregazione giovanile, centri diurni per disabili, consultori familiari, reparti ospedalieri o, appunto, case di riposo per anziani. In molti casi l’impulso partiva dall’alto, per l’iniziativa di una dirigente illuminata, di un amministratore motivato o di un responsabile propositivo; magari per impulso di una nuova legislazione (nazionale o regionale) o di un’opportunità di finanziamento (pubblica o privata). In altri casi le cose si muovevano dal basso, per l’impegno di una coordinatrice e/o di un piccolo gruppo di operatrici e operatori, oppure sulla spinta di un ente del terzo settore (una cooperativa, un’associazione) o di un gruppo di cittadini attivi. Non sono poche le volte in cui mi è capitato di veder partire un percorso di innovazione, anche con un certo entusiasmo iniziale e una discreta carica di ottimismo, e via via assistere al suo progressivo declino. Magari non un vero e proprio fallimento, ma un deciso ridimensionamento, questo sì. Ricordo una collega che in questi casi parlava di “fuoco di paglia”, un’immagine che rende bene l’idea. Ne parlo con Federica per capire come il processo di innovazione è stato condotto in questo caso, chiedendo di farmi una breve cronistoria. «Altre realtà che mi è capitato di conoscere», mi dice, «sono molto più statiche e davvero meno innovative. In questi ambienti è come prevalesse la tendenza a lasciare le cose come stanno. Qui a Pinzolo le cose sono andate diversamente. A partire dal 2008 Silvano 1 e Lorena 2 hanno deciso di avviare una profonda innovazione. Si sono sempre mossi come un team forte, sintonizzati sullo stesso canale, integrati e orientati verso la stessa direzione, sempre. Con le normali frizioni, sia chiaro, ma sempre focalizzati sul progetto e sulla loro visione. Hanno cominciato informatizzando la cartella sanitaria e alfabetizzando le competenze degli operatori all’uso della stessa. Si è quindi investito sulla formazione del personale rispetto ad alcuni aspetti importanti come la gestione dell’alvo e la gestione del dolore. Subito dopo si è lavorato in staff con Letizia Espanoli sull’apertura del Nucleo Alzheimer. Dopo questa esperienza, ragionando liberamente, ci si è accorti subito che era impossibile non riorganizzare anche gli altri nuclei, cambiare l’intera struttura».
Investire in una cura gentile
Suggestionato dal racconto di Federica decido di documentarmi meglio rispetto ad alcuni dei modelli di lavoro a cui ci si è ispirati a Pinzolo, a partire da Gentle Care, una metodologia nata in Canada su iniziativa della terapista occupazionale Moyra Jones, la quale iniziò ad occuparsi di questi temi assistendo il padre affetto da Alzheimer. Nel 1960 risultavano carenti le fonti, gli studi e i servizi sanitari in grado di far fronte ai bisogni delle persone colpite da demenza, oppure non erano idonee per comprendere la complessità della malattia e le implicazioni pratiche ed emozionali che da essa derivano sulla vita del paziente e dei suoi cari. In quegli anni il tipo di cura che veniva offerto ai pazienti era di tipo ospedaliero, con una forte focalizzazione sulla cura dei sintomi. Nella maggioranza dei casi il personale si mostrava emotivamente distante, se non distaccato. Moyra Jones, nei suoi scritti, ricorda quando la sera andava a far visita al padre ricoverato in una struttura sanitaria e di come lo trovasse in pessime condizioni. La maggior parte del giorno era costretto a letto, bloccato da lenzuola o da altri mezzi di contenzione, oppure seduto in sedia a rotelle. Nel primo periodo di permanenza nella struttura si trovava in uno stato confusionale, senza capire dove fosse e cosa gli stesse succedendo. Osservava la figlia con uno sguardo sofferente e sembrava chiederle “perché mi stai facendo questo”? Una volta liberato dai mezzi di contenzione la figlia lo accompagnava a passeggiare lungo i corridoi della struttura e in giardino, per poter stare un po’ di tempo all’aria aperta. Non era facile vedere il padre che in passato era sempre stato un uomo attivo e affettuoso, amante della compagnia e della gente, ridotto in quelle condizioni. Scrive Moyra Jones: «deve essere stata una tortura per lui stare seduto nella sedia a rotelle per giorni, senza potersi mettere in piedi o muovere. Ricordo che un membro del personale mi ha detto, vedendoci passare: “È Len? Non sapevo potesse camminare!” Ma come avrebbe potuto saperlo? Lo aveva sempre visto in una sedia a rotelle. Faceva parte del sistema che nutriva, cambiava e legava i pazienti, dava loro le medicine e si concentrava su faccende urgenti. Faceva parte di un numero insufficiente di persone, che svolgevano interminabili compiti in un lasso limitato di tempo. Come avrebbe potuto conoscere mio padre?» 3.
A distanza di tempo e di spazio da questi ricordi non ci resta che osservare un panorama di servizi enormemente diversificato, con esempi di scarsa qualità, se non di vera e propria trascuratezza, e altri molto positivi. Esperienze di strutture aperte al territorio, con una forte connessione con la comunità locale. Per ricostruire dal di dentro questo percorso mi affido ai ricordi di Lorena Dal Bon, una delle principali protagoniste per processo di cambiamento della struttura trentina. «Arrivando qui ho trovato uno schema di lavoro molto strutturato», prosegue Lorena, «gli ospiti venivano alzati dalle sei del mattino fin circa alle nove. Le operatrici dovevano alzarsi alle cinque per poter essere in servizio in orario. La colazione aveva un orario flessibile che era dalle sette e trenta alle nove e poi uno schema dei bagni. Gli ospiti dovevano fare il bagno quando erano pianificati, principalmente di pomeriggio». Chiedo un chiarimento su un termine, “sbrandato”, che punteggia il racconto di Lorena, forse perché mi evoca il servizio militare, un gergo da naia che ho sepolto nei miei ricordi di diciottenne. La risposta è quantomai eloquente: «entro, apro la porta, accendo la luce, apro le tende, magari apro la finestra e ti tolgo le coperte perché adesso ti lavo, questo è sbrandare. La sera ti butto a letto, non ti corico. Quando hai i piani di lavoro che “dalle-alle” tu devi alzarne 20 tu sbrandi e tu butti a letto. Perché l’obiettivo è il tempo, non è la persona. È il numero delle prestazioni, non è la qualità, non è come lo faccio. Eh, son termini un po’ duri, però li devo dire perché è ora dirci la verità in faccia. Perché se io devo impiegare tre minuti a metterti a letto va così. Ci sono case di riposo che arrivano a vietare la relazione con la persona durante il fare, non va “perso tempo” a parlare. Certo, sulle carte dei servizi o sul sito web c’è sempre scritto che si lavora per obiettivi con la persona al centro, ma non si capisce dove e quando questa persona è davvero al centro. L’organizzazione che abbiamo adottato qui a Pinzolo segue i ritmi della persona, non è la persona che segue i ritmi dell’organizzazione. Abbiamo stravolto il principio. Questa è stata la vera rivoluzione».
Il futuro (forse) è adesso
Non sappiamo cosa succederà nei prossimi anni, se si deciderà o meno di investire risorse e intelligenze per sviluppare un sistema di servizi in grado di accompagnare le nostre società sempre più anziane, coniugando sostenibilità economica e sostenibilità sociale, garantendo libertà, dignità e rispetto alle persone più fragili. Una cosa è certa, il futuro non è lontano, anzi; potremmo dire che il futuro (forse) è adesso, ed una sua piccola porzione è già qui. Rileggendo l’intera esperienza di Pinzolo, le molti voci ascoltate, mi viene in mente, per concludere, un bellissimo brano del filosofo Roberto Esposito: «mentre gli uccelli fabbricano il proprio nido dovunque sia sempre alla medesima maniera, gli uomini, in tempi e spazi diversi, costruiscono differentemente le proprie abitazioni in base alle loro preferenze. Le istituzioni, per quanto necessario alla natura, sono sempre diverse, perché variano in base alla ragione, al costume, ma soprattutto all’immaginazione di chi le inventa. Esse prima di essere allestite, sono immaginate». Penso che sia proprio questa la lezione più importante che ho appreso dall’esperienza di Pinzolo: solo quando cominci ad immaginare, insieme agli altri, qualcosa di nuovo, stai cominciando a realizzarlo.
1 Silvano Stefani è stato direttore del Centro Residenziale Abelardo Collini fino a settembre 2021.
2 Lorena Dal Bon è stata coordinatrice presso il Centro Residenziale Abelardo Collini fino a giugno 2021.
3 Moyra Jones, Gentlecare. Un modello positivo di assistenza per l’'Alzheimer, Carocci, Roma, 2005, p.20.