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Articolo pubblicato sul numero 235, 2/2021
aprile-giugno 2021

Non più un welfare territoriale dove ancora sanitario e sociale non si parlano!

Fausto Giancaterina

Già direttore servizi disabilità e salute mentale Comune di Roma

Tipologia: Articolo


E’ vero! Ma non solo per colpa del Covid.  Bisognerebbe avere l’onestà di ammettere che anche i diversi e grossi problemi del nostro welfare territoriale, che ci trasciniamo dietro da anni e che finora non abbiamo voluto o potuto risolvere, stanno facendo la loro parte nel complicare la vita delle persone.

Abbiamo visto come la realtà dei servizi alle persone, da quell’iniziale periodo di stato nascente, quando, in rottura con le istituzioni segreganti, sono stati impiantati per la prima volta (su forte spinta degli operatori e delle associazioni) nei normali contesti sociali per essere a tutti visibili, riconoscibili e partecipati e per riaffermare palesemente il diritto alla vita di tutte le persone anche di quelle con disabilità o sofferenza mentale.
Poi con il passar del tempo, leggi, regolamenti, volontà di tenere sotto controllo la cosa pubblica, quei servizi sono diventati man mano sempre più prevedibili, piatti, routinari e rigidi, lontani dalla ricerca di senso e dal piacere di lavorare in essi. L’avanzare successivamente di una distorta cultura pseudo aziendalistica ha spinto gli operatori, a ricercare una qualificata identità professionale attraverso l’acquisizione di un sapere disciplinare specialistico ed esclusivo, spesso settoriale e monodimensionale, accentuando, in tal modo, la categorizzazione dei servizi.
A questo scivolamento verso regressioni organizzative con sistemi operativi ad una dimensione, va aggiunto un notevole indebolimento di senso nel lavoro sanitario, sociosanitario e sociale. La strutturazione del welfare territoriale si è quindi attestata vié più su sistemi organizzativi per filiere tecnico/amministrative, incomunicanti e rigorosamente separanti il sanitario dal sociale, ma anche dall’educativo e dal formativo/lavorativo. Il quadro si è fatto ancor più triste in conseguenza alla riduzione di risorse e servizi pubblici e all’introduzione di ticket pesanti in sanità, favorendo in tal modo la sanità privata a danno dell’esigibilità dei diritti sociali, specie per chi non avesse risorse economiche proprie. Un impressionante calo della partecipazione dei cittadini e la forte spinta verso l’arrangiarsi individualmente, magari attraverso assicurazioni private o welfare aziendali, hanno fortemente accentuato le diseguaglianze tra i cittadini in base al censo.

Un punto di vista complementare
Ovviamente qui non intendo parlare delle carenze nei servizi sanitari di cura, per altro drammaticamente fatte emergere agli occhi di tutti proprio dal Covid. Su questo, lascio esprimere giudizi autorevoli da due illuminati studiosi. Gavino Maciocco 1:La pandemia ha messo a nudo gli elementi di maggiore fragilità e inefficienza del nostro sistema sanitario e assistenziale, tra questi in particolare il complesso dei servizi territoriali, dall’igiene pubblica alle cure primarie, alla medicina di famiglia. L’assenza di un filtro territoriale che identificasse i casi, i conviventi e i contatti (l’ABC della sanità pubblica), intervenendo e curando a domicilio e inviando solo quando necessario in ospedale, ha disorientato la popolazione, ha messo nel panico i pazienti e ha prodotto alla fine il collasso degli ospedali”. E ancor più Benedetto Saraceno 2 attirando l’attenzione sull’aggravarsi delle criticità per le non/risposte ad anziani, a sofferenti psichiatrici, a disabili fisici e psichici: “La questione che dobbiamo porci e con urgenza è quella del «letto» come unica e povera risposta del sistema sanitario, come se, prima e dopo il letto, non ci fossero fondamentali e spesso sufficienti risposte alla domanda di salute dei cittadini. Dobbiamo decostruire la nozione di letto come falso sinonimo di cura”.
Quello che vorrei raccontare qui è, in realtà, un mio punto di vista complementare alle tante proposte di produzione di un nuovo paradigma per i servizi sociosanitari territoriali 3, servizi, come già detto, sempre più immersi nella difficoltà di governare la propria complessità.
A mio parere non potrà esserci rinnovamento del welfare territoriale sociosanitario, se non si riuscirà a coniugare e praticare in tutta la sua interezza il concetto di integrazione a livello istituzionale, gestionale e professionale. Quand’anche si risolvessero i tanti problemi di mancanza di risorse economiche e di ataviche mancanze di personale professionale e quand’anche si facessero propri i più avanzati paradigmi operativi, senza quella convinta e totale cultura d’integrazione, ci troveremmo sempre a gestire un rinnovamento precario e instabile, pronto a sgretolarsi in poco tempo. 
Se allora posso suggerire uno spunto di partenza, credo che occorra ricercare la radice di tutte le attuali instabilità e chiusure al cambiamento: la motivazione/madre che innerva le tante scelte professionali degli operatori e che costituisce il potente motore delle molte azioni che i singoli professionisti compiono nel costruire il rapporto con gli altri professionisti e soprattutto con i cittadini/utenti.
La realtà di partenza attuale è nota a tutti. E mentre nella quotidianità della vita sociale si producono sofferenze, disagi e anche malattie che spesso ricevono non-risposte oppure frammenti di risposte, il nostro welfare territoriale si fossilizza sempre più su un inadeguato sistema operativo sostenuto da due culture organizzative rigorosamente settoriali. quello sanitario tendente a riprodurre maldestramente anche sul territorio il modello ospedaliero, fortemente dominato dall’approccio bio/medico, ancorato alla visione esclusiva di indagine dei deficit etendente ad occuparsi unicamente di programmi riparatori e, l’altro, il sociale, carente cronico in numero di operatori e in profili professionali, che non riesce a proporre iniziative a largo respiro, perché  incastrato tra emergenze continue e richieste prevalentemente assistenziali/passivizzanti.
E mentre i due sistemi sono spesso coinvolti in interazioni che, assorbendo molte energie, impegnano saperi diversi, interessi, bisogni, prospettive e bersagli, spesso divergenti quando addirittura non in palese conflitto tra loro, diventa sempre più difficile comprendere e tanto meno affidarsi ad un sistema organizzativo rigidamente diviso in specialità professionali, incomprensibile nelle sue scelte e che non riesce a cogliere la cifra della complessità che realmente avvolge la vita delle persone e continua a gestire i processi di aiuto, riferendosi al solo modello di relazioni duali e di soluzioni lineari. In un tale contesto, per nulla generativo di cambiamenti esistenziali, si spegne sempre più la possibilità di far compartecipare i cittadini, che vivono immersi in contesti vitali quotidiani, soggetti in solitudine a continui mutamenti, spesso peggiorativi della loro qualità di vita.

Occorre forse una cultura policronica
Serve allora una cultura nuova e nuove competenze per riprogettare e rimodulare il lavoro territoriale e reindirizzarlo adeguatamente e saldamente verso il bene-essere di tutte le persone. La complessità dei fenomeni sociosanitari ci ricorda che le relazioni di aiuto sono poliedriche e dialogiche e riguardano persone che vivono e cambiano esistenzialmente nel tempo. Se da una parte le specializzazioni professionali hanno portato e portano tuttora conoscenze importanti e approfondimenti interessanti, dall’altro hanno dimostrato che singolarmente non riescono a produrre soluzioni e cambiamenti esistenziali, perché l’esistenza delle persone presenta situazioni multidimensionali. Purtroppo abbiamo interiorizzato paradigmi di conoscenza che tendono a scomporre e frammentare il reale, pensando, in tal modo, di comprendere meglio la realtà, ma poi facciamo fatica a ricomporla. Lo stesso sistema universitario e scolastico ci insegna a separare le discipline, ma non ad interconnetterle, a fare sintesi e a dare senso unitario al tutto.
Si arriva così al bisogno di quella progettazione dialogica pluri/professionale e partecipativa per sostenere una buona qualità della vita delle persone e possibilmente attutire la presunzione di onnipotenza di alcuni professionisti e spingere a richiedere partecipazione e accoglienza di aiuto da tutto il contesto vitale. Ogni proposta di cambiamento può sortire un duplice effetto: essere percepita come minaccia e quindi produrre resistenze più o meno palesi, oppure essere accolta come una possibilità/aiuto per superare l’insoddisfazione per le condizioni che al momento si vivono.
Credo che nella situazione attuale di crisi sociale e lavorativa occorra che i professionisti pubblici e del Terzo settore debbano farsi carico – insieme - di fare una sistematica manutenzione dei diversi sistemi operativi, demolire le resistenze e valorizzare in pieno ogni possibilità per superare le attuali difficoltà, innescare una spirale virtuosa e finalmente avviare un processo culturale, che innanzi tutto capovolga le attuali logiche a prevalenza monodisciplinari che ancora ispirano saperi, corsi di laurea, formazione e aggiornamenti e che si incarnano saldamente nelle strategie operative di mediazione e di aiuto duale, condizionando sia l’organizzazione che l’accessibilità ai servizi sociosanitari e sociali.
Poiché tutti viviamo guidati da scopi, desideri, motivazioni, obiettivi e qualche volta anche da necessità impreviste ed impellenti, tutti siamo orientati a qualcosa (un obiettivo, un ideale, un dovere o una necessità) e per raggiungerla utilizziamo mezzi, risorse, capacità, paradigmi culturali ed operativi e strategie vincenti da adottare. Se però, tali strategie risultassero unicamente funzionali agli obiettivi personali del singolo professionista, non sarebbero accettabili nei servizi pubblici che devono perseguire il bene-essere dei cittadini/utenti e il nostro welfare territoriale verrebbe percepito più come un supermercato delle prestazioni e non (come finalmente dovrebbe essere!) un welfare che promuove la co/costruzione di progetti di vita personalizzati, fortemente ancorati ai singoli contesti sociali.
Ecco perché occorre fare manutenzione a partire dalle famiglie professionali dei servizi pubblici (per poi coinvolgere necessariamente in questa manutenzione di profondità anche il Terzo settore, l’Associazionismo, il Volontariato).
L’obiettivo è quindi quello di risintonizzarci con la multidimensionalità dei problemi delle persone. La positività dei risultati risiede in un lavoro dove diventa indispensabile una progettazione a più voci ad alta integrazione professionale e strutturale tra servizi. Aiuterebbe, in tal senso, l’abbandono definitivo di quel paradigma operativo che si affida unicamente ad una progettazione basata sui bisogni per favore di un approccio orientato a sostenere l’esigibilità dei diritti sociali. Questi diritti sono, ricordiamolo, i diritti basilari del vivere:il diritto all’istruzione e alla formazione, il diritto alla salute, il diritto al lavoro, il diritto all’abitare, alla piena realizzazione affettiva, il diritto all’inclusione per un positivo ruolo sociale e sono quell’insieme di situazioni riconosciute come determinanti sociali di salute.
Del resto è quello che suggerisce la nostra Costituzione e anche la Convenzione ONU Sui diritti delle persone con disabilità (ratificata dal Parlamento italiano con legge 3 marzo 2009, n. 18).
Senza una tale revisione culturale e scientifica, difficilmente potrà esserci una condivisione sintonica e corretta su concetti come: normalità, disabilità, diversità, integrazione tra servizi, inclusione delle persone.  Ma ancor più senza un cambiamento culturale e scientifico resta impossibile il definitivo passaggio nei servizi territoriali da un modello operativo bio/mendico ad un modello plurale sostenuto – come diremo - da quel sistema operativo chiamato Budget di salute.

Non ci sono soluzioni lineari c’è solo il rischio di vivere “passioni tristi”
Se condividiamo l’assunto che la vita delle persone a rischio di fragilità ha bisogno di sostegni che richiedano il coinvolgimento contemporaneo di una serie di sottosistemi: sanitario, sociale, educativo, lavorativo, partecipativo, non possiamo più fare affidamento su risposte unilaterali, verticali, separate dai contesti vitali e spesso poco trasparenti.
I diversi soggetti presenti: pubblico, privato sociale, privato profit, non-profit e famiglie spesso sono in ricerca di un solitario predominio, mentre necessiterebbero di mettersi in sintonia, di trovare un ragionevole accomodamento attraverso un sistema di regole condivise che porti a livello paritario tutti, con forme di coordinamento che si accompagnino ad una necessaria pluralizzazione e diversificazione dei modelli operativi, senza pensare a pericolose privatizzazioni di mercato, ma salvaguardando, sempre, la centralità della presa in carico del servizio pubblico.
E torniamo così al problema di fondo: l’attuale nostro welfare non funziona più. E’ ottimo quando si richieda un servizio omogeneo che venga determinato con criteri oggettivi e misurabili, come ad esempio nel caso delle provvidenze economiche, ma è del tutto inadeguato quando si tratti di servizi a valenza relazionale, basati su fiducia e reciprocità, che necessitano di alleanze tra pubblico, associazioni, terzo settore, imprese, cittadini. In una necessaria spinta al cambiamento, per riprogettare il nostro welfare territoriale, dobbiamo considerare che ancora sono presenti e operanti diverse opinioni e diversi modelli spesso del tutto divergenti.
Sulla scia delle diverse proposte di welfare community, personalmente metterei al centro di ogni cambiamento – come riflessione culturale e motivazionale di fondo – la prospettiva propria di un welfare di prossimità 4. L’accento sulla prossimità, designa la possibilità di ottimizzare tutte le diverse risorse tramite nuove forme di scambio e collaborazioni che non si limitino, ad esempio, a tollerare le diversità, ma le valorizzino. Ma è necessario che il welfare di prossimità sia anche generativo 5 sia, cioè,in grado di generare disponibilità all’aiuto reciproco non per solidarietà o altruismo, ma per l’accettazione di giustizia e di ri-equilibrio nel rapporto diritti-doveri cheimpegna contestualmente alla restituzione reciproca di azioni solidali a vantaggio della comunità sociale di appartenenza.
Un obiettivo generale come la conoscenza e realizzazione di un welfare di prossimità e generativo  porta con sé l’occasione di una profonda revisione delle diverse culture professionali sia degli operatori sanitari, (presenti nei distretti sociosanitari) che degli operatori sociali, per ritrovare motivazioni alte e appaganti nel proprio lavoro e sia per non lasciarsi trascinare dalle passioni tristi 6. Vale a dire di non farsi imprigionare daquel senso pervasivo di impotenza e incertezza che ci anestetizza e ci impedisce di essere risorsa per sé e per glia altri, e per non lasciare che il nostro welfare viaggi verso uno stato di abbandono politico ed economico, che lo riduce sempre più a “sistema di prestazioni, per cui molti operatori, sia i disillusi sia i resistenti, si sentono imprigionati in qualcosa di impalpabile, che avvolge il loro lavoro annebbiandone il significato e la capacità trasformativa” 7: la gabbia delle passioni tristi, appunto!
E’ questa la realtà che sta mettendo in discussione non solo il senso del lavoro sociale ed educativo, ma anche il mantenimento stesso del posto di lavoro di molti operatori.
Il rischio più imminente sembra essere proprio la possibilità di perdere quegli operatori che più di altri si siano finora impegnati ad essere accompagnatori rispettosi dell’esistenza delle persone, che si siano preoccupati di raccontare le biografie di persone concrete.
Di fronte a tale situazione è giusto chiedersi: sarà possibile andare oltre questa lunga epoca di crisi - ancor più aggravata dal Covid - e non trovarci impreparati in un prossimo ritorno alla normalità (!?) nelcostruire finalmente un diverso futuro per il nostro welfare territoriale che diventi fattore di ispirazione per ri-mettere tutti i suoi attori al centro ed essere tutti co-protagonisti?

Una interessante novità potrebbe aiutarci
La novità riguarda il fatto che il sistema operativo Budget di Salute 8 abbia ricevuto il sigillo di diventare legge nazionale. In realtà stupisce molto che nell’articolato della legge si parli ancora di sperimentazione, essendoci già da decenni riuscitissime esperienze e positivi progetti attuati in diverse regioni con il sistema operativo budget di salute. In proposito, fa piacere che siano state presentate proposte di legge per superare tale limitazione ed arrivare al più presto ad una definitiva generalizzazione di tale sistema operativo. Comunque il dettato della legge è sufficientemente coerente con le diverseesperienze e quindi è bene sapere che per la promozione e la salute delle categorie di persone più fragili occorra, nel rispetto del nuovo obbligo di legge, attrezzarsi per una presa in carico (sempre obbligatoriamente diritto/dovere del Servizio pubblico) finalizzata alla promozione della salute (= bene-essere).

Quindi: il sistema operativo Budget di Salute – come già sappiamo dalle tante esperienze attuative -è un sistema che coinvolge le persone nella definizione di progetti di vita personalizzati, sostenuti dall’insieme delle risorse economiche, sanitarie, sociali, educativi e professionali,dal capitale sociale e relazionale della persona, della sua famiglia e della comunità locale, necessari a promuovere contesti relazionali, familiari e sociali idonei a favorire una migliore inclusione sociale della persona stessa.  Le diverse esperienze attuate in diverse regioni del sistema budget di salute confermano che il sistema operativo budget di salute è sicuramente una concreta opportunità per (ri)orientare il nostro welfare territoriale verso un diverso futuro e diventare fattore di ispirazione per dare a tutti gli attori (co/protagonisti!) la possibilità di promuovere la salute (bene-essere) delle persone, attraverso la loro capacitazione e una positiva evoluzione dei determinanti sociali di salute, facilitando l’esigibilità dei ricordati diritti sociali, veri e propri fattori la cui presenza o assenza modifica in senso positivo o negativo il nostro stato di bene/essere, valorizzando molto i contesti ambientali, sociali e relazionali.
Vorrei timidamente aggiungere anche una mia personale esperienza nell’avere promosso la sperimentazione di tale sistema in un distretto sociosanitario della Provincia di Roma. Anche quell’esperienza è risultata complessivamente – pur nella compresenza di aspetti positivi e negativi – una buona e concreta conferma che il sistema budget di salute sia e resti un formidabile e potenziale strumento di cambiamento per (ri)sintonizzare l’operatività dei servizi, sia sociali che sanitari, verso l’obiettivo fondante dei servizi stessi: essere competenti organizzazioni a sostegno e aiuto dei cittadini/utenti per superare difficoltà e stati di sofferenza fisica e/o mentale. Ma, purtroppo, ha anche evidenziato che diversi professionisti non hanno del tutto accettato il cambiamento operativo e le loro resistenze alla fine hanno ridotto di molto la possibilità di una generalizzata e positiva conclusione della sperimentazione.
E’ ormai noto a tutti che le resistenze al cambiamento ci siano e che occorra analizzare bene le motivazioni di tali resistenze e le strategie da adottare per superarle. Pensiamo innanzitutto alla vexata quaestio che ha impegnato e impegna tutt’ora fior di studiosi: l’integrazione sociosanitaria. E’ questa lafondamentale scelta strategica la condicio sine qua non per attuare pienamente il sistema operativo Budget di Salute. Le resistenze arrivano proprio da coloro che, invece, dovrebbero promuovere e attuare tale integrazione. Mi riferisco, ovviamente (come già accennato), ai professionisti dei servizi pubblici i quali, hanno sempre più ampliato culture e saperi professionali che si sono viepiù diversificati, fino al raggiungimento di un’autonoma operatività che ha determinato una organizzazione settoriale dei servizi territoriali in tal senso.
Si argomenta che se si voglia garantire la salute occorre che le professioni abbiano sempre più alte e specifiche competenze tecniche. Tutto è certamente importante e necessario, specie in organizzazioni di cura da acuzie come l’ospedale, ma non può esaurire l’impegno professionale dei singoli operatori nei servizi territoriali dove per salute si intende il bene-essere esistenziale delle persone i cui determinanti sociali, ripetiamo, sono: l’istruzione, la formazione e il lavoro, l’abitare, una piena affettività e l’inclusione per un positivo ruolo sociale.Ecco perché nei servizi territoriali è esigita anche una competenza e cultura professionale multidimensionale, capace di mettere le tante singole competenze in unitarie co/progettazioni e co/gestioni dei diversi progetti di vita personalizzati. E’ evidente come tutto ciò che boicotta potenzialità innovative e di cambiamento serva a mantenere quel consolidato “sistema settorializzato” dei servizi territoriali e a non intaccare consolidate posizioni (spesso di potere e di carriere) di certe categorie professionali.
Se vogliamo scuotere il sistema e capovolgere l’attuale triste situazione è assolutamente necessario fare scelte decise, come il sistema operativo budget di salute che a sua volta esige:
1. una vera integrazione sociosanitaria e rigenerazione dei servizi territoriali, superando le attuali asimmetrie presenti (soprattutto tra ASL e Comuni) a livello istituzionale, amministrativo, finanziario, organizzativo e professionale 9.  A livello operativo: la costituzione di servizi sociosanitari integrati di distretto (bilancio unico sociosanitario, con risorse da ASL e Comune;costituzione di unità valutative integrate e presa in carico integrata - diritto/dovere riservato in esclusiva al Servizio pubblico; valutazione multidimensionale; definizione chiara e condivisa dei ruoli del Terzo settore, non più destinatario di esecutività di attività esternalizzate, ma partner che collabora alla costruzione e allo sviluppo dei progetti personalizzati);
2. la scelta di progetti di vita personalizzati è un diritto riconosciuto a tutte le persone che si rivolgono ai servizi territoriali, è unito al diritto di scelta e di piena partecipazione alla definizione del progetto stesso, con percorsi di autonomia, possibilità di richiedere un Case Manager, quale responsabile e garante dell’attuazione del progetto personalizzato e della costante verifica dell’adeguatezza degli interventi.

In conclusione
Siamo partiti dalla situazione critica che rende il nostro welfare territoriale precario e improduttivo.  Sappiamo che le cause sono di natura politica e di visioni antitetiche della Cosa Pubblica, ma abbiamo cercato di capire anche la natura delle motivazioni di tutti gli attori coinvolti e di ricercare qualche possibile punto di partenza per promuovere e sostenere un cambiamento. Sulla prospettiva di un welfare di prossimità e generativo, i principi di doverosità e di sussidiarietà, si realizza quella sussidiarietà verticale e orizzontale finalizzata al bene comune - caratteristica peculiare della nostra Costituzione - che dovrebbe incarnare quotidianamente l’operato degli operatori pubblici in sintonia con i cittadini e le loro organizzazioni sociali: Terzo settore, Associazioni, Cooperazione, Settore profit.... per avviare una opportunità di ri-abilitazione dei contesti di vita.
Ri-abilitare i contesti significa che gli operatori dovranno essere l’elemento chiave, non peracquisire nuove competenze, utili ad aumentare la propria tecnicalità professionale, ma per essere a tutti gli effetti operatori capaci di promuovere il passaggio da un approccio di cura ad un approccio di garanzia e tutela del bene-essere.
Il sistema operativo budget di salute ha assuntol’imperativo legislativo che, se ignorato (come purtroppo spesso succede quando le leggi non prevedono penalità per i non attuatori!), metterebbe a rischio l’opportunità di un cambiamento operativo nel nostro welfare (in tal senso vi invito a riflettere su quanto è accaduto e sta accedendo per l’attuazione della Legge 112/2016, mortificata nelle sue potenzialità di cambiamento per le persone con disabilità).
Si tratta di decidere se veramente vogliamo cambiare le cose e restituire visione, ideali e valore prima di tutto a noi stessi e contemporaneamente a tutti coloro che operano per i diritti sociali delle persone nel proprio territorio. Proviamo ad usare questo periodo per fare buone letture e scambi di prospettive e proposte per essere pronti a ripartire, appena il Covid ce lo consentirà, e insieme costruire un nuovo sistema di funzionamento del welfare territoriale: un diverso sistema di offerta di servizi e interventi sociosanitari finalmente integrati e multidimensionali centrati sulla persona e la sua famiglia, attraverso la personalizzazione di un progetto di salute, cura, riabilitazione, habitat sociale, inclusione al lavoro e partecipazione sociale. Il tutto sostenuto dal sistema operativo budget di salute, così 1come abbiamo cercato brevemente di descrivere.


1 G. Maciocco, Un nuovo paradigma per i servizi sanitari,  in: Welforum.it 28 luglio 2020.

2 B. Saraceno: Contro il letto, falso sinonimo di cura, in: http://www.sossanita.org/archives/11064.

3 Cfr: Welforum.it, 22 ott. 2020: Il punto su: Integrazione e sviluppo dei servizi sociosanitari.

4 Messia F, Venturelli C. (a cura di), Il welfare di prossimità, Erickson, Trento, 2015. Questo libro raccoglie i contributi di un gruppo (cui ho avuto il piacere di partecipare) voluto e coordinato da Andrea Canevaro, al quale va tutta la mia gratitudine.

5 Vecchiato T., Il welfare come moltiplicatore di responsabilità, Animazione Sociale n. 272/2013.

6 Benasayag M., Schmit G., L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, 2013.  “Viviamo in un’epoca dominata da quelle che Spinosa chiamava le  passioni tristi”: un senso pervasivo di impotenza e incertezza che ci porta a rinchiuderci in noi stessi, a vivere il mondo come una minaccia, alla quale bisogna rispondere  armando” i nostri figli”.

7 F. Floris (a cura di), Intervista a Mauro Magatti – Animazione Sociale n. 228/2019,  p.6-16.

8 Legge 17 luglio 2020, n. 77,  articolo 1, comma 4 -bis.

9 RICCI S., L’integrazione( tra sociale e sanitario: raccomandazioni per l’uso, - Prospettive Sociali e Sanitarie n.1,2/marzo, 2014.


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