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Articolo pubblicato sul numero 235, 2/2021
aprile-giugno 2021

Tra straniamento e afflizione. Da un anno scolastico sgretolato a segnali di speranza

Raffaele Iosa

Già ispettore scolastico e direttore didattico

Tipologia: Articolo


Sta finendo il peggior anno scolastico mai visto dal secondo dopoguerra in poi. E finisce nel modo peggiore nell’area della pre-adolescenza e adolescenza, con migliaia di ragazzi tartassati da affannati e continui compiti in classe (chiamate verifiche), interrogazioni, in un clima di sconfinata stanchezza.

E arriva il momento della valutazione, che quest’anno prevede il ritorno delle bocciature, a differenza della sanatoria dello scorso anno. Ed è un momento in cui i ragazzi rischiano di pagare non solo le loro inadempienze, ma anche le più dolorose inadempienze psico-pedagogiche che la scuola italiana ha dimostrato in questo anno complicato.
E’ talmente vero quello che Stefano Versari, capo dipartimento MIUR, scrive nella Nota 699 del 6 maggio sulla valutazione finale degli apprendimenti  “… Pertanto, il processo valutativo sul raggiungimento degli obiettivi di apprendimento avverrà in considerazione delle peculiarità delle attività didattiche realizzate, anche in modalità a distanza, e tenendo debito conto delle difficoltà incontrate dagli alunni e dagli studenti in relazione alle situazioni determinate dalla già menzionata situazione emergenziale ...”.
Versari poteva anche ricordare  nella Nota un paradosso contenuto nelle norme sulla valutazione scolastica per tutti gli ordini di scuola (tutti) contenute nel DL 62/2017 dove all’articolo 1 si dice: “… La  valutazione  ha  per  oggetto  il  processo  formativo  e  i risultati  di  apprendimento…ha finalità  formativa ed educativa e concorre al miglioramento  degli  apprendimenti  e  al successo formativo degli stessi, documenta lo sviluppo dell’identità personale e promuove la autovalutazione di ciascuno in relazione alle acquisizioni di conoscenze, abilità e competenze”. Belle parole, ma poi il voto viene dato in…numeri da 0 a 10.
Il paradosso sta nel fatto che almeno la scuola primaria si è liberata (merito del santo virus?) da questa stranezza del voto numerico espressivo, individualistico e non formativo.
Non vi sono ricordi di alcuna scuola media o secondaria dove si sia fatta formazione e ricerca sulla “formatività della valutazione per il miglioramento di apprendimenti e il successo formativo”.  Lo pseudo-gentilismo d’antan è invece ancora diffuso negli inconsci educativi adulti.  L’unica discussione di questi ultimi giorni è invece, con toni apocalittici, sul curriculum dello studente alla fine della scuola superiore.  La tradizionale sequenza “lezione frontale - compiti e studio per casa-interrogazioni e prova di verifica, voto, medie numeriche” è rimasta anche in questo anno difficile la solita costante tradizionale. Dunque come affrontare il “tenere in debito conto” di Versari?
Ma qui non si intende affrontare la querelle della valutazione né perorare la causa assolutoria degli studenti adolescenti alle prese con la fine di un anno faticoso e la paura di bocciature.
Intendo invece esporre una mia lettura critica di come sia stato quest’anno scolastico in merito allo slogan che a maggio/giugno 2020 era diventato il mito della “scuola giusta”, soprattutto nei detrattori della Dad, e cioè quella “in presenza” per via della retorica formula “la centralità della relazione educativa”. Che, appunto, mancava a quei tempi.  Ma che va ben definita nel suo significato pedagogico profondo, che certo non è quello della lezione frontale-compiti per casa-interrogazioni-voto. E che è ancora stata lungo tutto questo anno la pratica non solo dominante, ma perfino in vertiginoso aumento, come si dimostrerà.
Bighellonando tra norme varie, ho riscoperto che nel profilo del docente italiano è scritto che oltre alle competenze “disciplinari”, sono previste quelle psico-pedagogiche, e poi quelle organizzative e didattiche. Dunque l’approccio psico-pedagogico sarebbe strutturale e non accessorio nell’insegnamento, come la cd “comunità educante”, ma anche questa durante l’anno velocemente sfumata.
Sostengo dunque qui che la pandemia ha fatto esplodere tutte le contraddizioni di un sistema scolastico carente di competenze psico-pedagogiche serie e di comunità educanti efficaci.  Ritengo che questa frattura sia data anche dalle condizioni obiettive di questo anno (protocolli sanitari, quarantene, mascherine, ecc..), ma non solo da queste, bensì da una crisi collettiva della “relazione” (in chiave appunto psico-pedagogica) che sarebbe stata necessaria in un anno talmente difficile che Versari è costretto a scrivere sul promuovere/bocciare “…. tenendo debito conto delle difficoltà incontrate dagli alunni e dagli studenti in relazione alle situazioni determinate dalla già menzionata situazione emergenziale”. Già scriverlo è un segno di amarezza, come se non venisse in mente a qualsiasi normale insegnante, a prescindere che gli venga detto dal “superiore ministero”. Che chiede ai docenti il “debito conto” delle difficoltà. Debito, appunto, ma di chi e di che? 

La psico-pedagogia triste
La cosidetta relazione educativa è, ovviamente, questione psico-pedagogica. Si tratta di competenze che hanno una loro epistemologia, un carattere scientifico, una natura che si apprende e si acquisisce, non è un moto bonario dell’animo dell’insegnante, non è un optional.  Vediamo com’è andata da febbraio 2020 ad oggi.
La prima fase dura quattro mesi. Ho già scritto molto sulla frattura del periodo di confinamento marzo-giugno 2020 come ri-scoperta della relazione educativa con un gesto collettivo (nato dal basso) encomiabile che ho chiamato delle passioni generose (citando Spinoza), in cui migliaia di docenti (ma non tutti) si sono gettati nella ricerca di ricostruire un contatto con i loro ragazzi, forse consapevoli che stava avvenendo un evento catastrofico: non solo le scuole chiuse, ma anche i nostri ragazzi chiusi in casa. Peggio che nei tempi di guerra. Ho infatti chiamato didattica della vicinanza quell’epoca anche se si insegnava online e mal chiamata Dad, con tutte le fatiche del caso. È ovviamente successo di tutto, anche la scimmiottatura delle lezioni frontali al video e le interrogazioni con la fascia sugli occhi, ma per gran parte degli insegnanti è stata un’esperienza emotiva e relazionale di frattura interessante su cui riflettere. Non è un caso che a maggio e giugno ho scritto sulla necessità di realizzare gruppi riflessivi che ragionassero sul piano pedagogico e psicologico su cosa era successo, anche per comprendere meglio il ritorno a scuola a settembre. Nell’euforia di un ritorno a settembre 2020 che pareva facile, si è parlato fin troppo dei protocolli sanitari, dei distanziamenti, delle mascherine, ma è stata quasi assente la riflessione pedagogica. Si è tornati come se nell’anima dei ragazzi non fosse successo nulla, come se insegnare con restrizioni sanitarie fosse possibile solo con un po’ di pazienza e controllo. Nessun luogo pubblico né associativo ha curato la questione psico-pedagogica di questo ritorno, lasciata alle ricerche e alle diagnosi di psichiatri e psicologi nei rotocalchi. Solo l’associazione professionale Proteo ha avuto il coraggio di scrivere un vero e proprio “protocollo pedagogico” da considerare assieme a quello sanitario, per evitare rischi di un ritorno frammentato (come infatti è accaduto), nel silenzio tombale dentro e fuori delle scuole.
E il ritorno infatti è stato catastrofico. Tornati a scuola pieni di speranze che l’anno sarebbe andato liscio, già ad ottobre iniziava la seconda pandemia e le quarantene, si frammentava il fare scuola tra regioni, tra classi parte in presenza parte a distanza, fino al lockdown di primavera, e questa faticosa fine d’anno. Il tutto senza aver maturato un pensiero psico-pedagogico sulla condizione esistenziale e cognitiva dei ragazzi alla ricaduta della seconda peste, che nella letteratura è già nota come molto più dolorosa della prima. È stato tutto più difficile, accompagnato da un paese impazzito tra vaccini che arrivano e scompaiono, i tracciamenti saltati, il solito tormentone sui trasporti, la caccia agli untori (tra cui gli adolescenti per primi), un sistema pubblico e sociale sempre più debole e confuso. Dai nonni morti ai genitori in cassa integrazione.
In tutto questo caos, i bambini e i ragazzi hanno fatto scuola in aula o con l’online ricevendo una qualità della didattica e della relazione nettamente peggiori delle passioni generose della primavera, è invece iniziato un autunno, inverno e oggi primavera di passioni tristi. Senza alternative didattiche originali se non il rincorrere i giorni con lezioni su lezioni e poche relazioni vere.  Precisiamo meglio questi aspetti.
Nelle attività in presenza si è sottovalutata la condizione restrittiva data dalle regole sanitarie, il rispetto di queste, accompagnate dall’ansia quotidiana dell’infezione che arriva. Perfino i laboratori sono sfumati, ridotti ad aulette di emergenza. Naturalmente scomparse le attività collettive attive, dall’uscita didattica alla conferenza, ad un film visto col regista. Scomparse le classi aperte. Si è dunque creata una condizione di afflizione che ha ridotto la qualità intrinseca della didattica, almeno quella più attiva e interattiva, costringendo anche gli insegnanti di buona volontà psico-pedagogica a condotte più frontali del solito. Si immagini i fans della lezione frontale! Non avere pensato prima al rischio pedagogico di un ritorno così ristretto, senza quella riflessione pedagogica auspicata, e davanti al caos quotidiano di un paese innervosito e intimorito ha prodotto un effetto paradosso che nessuno ha finora evidenziato: mai come in questo anno scolastico hanno dominato didattiche direttive, del manuale, chiusi nella bolla-classe, fermi nei banchi.
Si è dunque (non sembri strano) realizzato spesso un iper-curricolo hard, nonostante le buone volontà noioso e ripetitivo. Gli studenti hanno avuto (meglio subìto) più insegnamenti del solito ma in una forma direttiva che ha aumentato il loro straniamento. Si era anche influenzati dalla dicerìe sulla “perdita del curricolo da recuperare”. Un accademico modenese ha persino calcolato nel 37% la perdita di conoscenze e competenze dell’anno scolastico scorso. A fronte di tutto questo che fare? Insegnare duro, ovviamente! E così l’approccio psico-pedagogico è saltato, visto che mai prima si era riflettuto sui rischi del ritorno a scuola nelle condizioni date, dimenticando il tempo dell’ascolto dei ragazzi, del dialogo, della comunità.
E dunque straniamento e afflizione nei nostri giovani, caricati come mai prima di compiti per casa.
Nei periodi dell’online, frammentato tra rientri, confinamenti, classi un po’ a scuola un po’ a casa, ha dominato la conferma della costante direttività. Non solo, si è diffusa in buona fede una specie di ritrosia a fare della scuola un luogo di riflessione su cosa stava avvenendo nel paese e nella loro anima.  Come se “pensare ad altro” e cioè alle materie, distogliesse l’ansia giovanile a farsi ossessione.
Nonostante l’iper curricolo, però, la sensazione che tutti hanno oggi è di una grande stanchezza, data certo dal caos sociale e organizzativo ma anche dall’accanimento a restare chiusi solo in bolle di apprendimento e a non sperimentare dialoghi e metodologie attive “eccezionali” e diverse dal frontale, comunque possibili con un intelligente adattamento.  No, pare scomparsa la pedagogia.
In molti c’è anche la sensazione che i ragazzi abbiano appreso male, in modo più meccanicistico. E che potevano fare, con i tanti compiti per casa?
Naturalmente sono aumentati gli abbandoni, i più deboli hanno aumentato la loro debolezza, i più poveri sono ancora più poveri. Ma chi li ha cercati nelle strade dei loro abbandoni? Il caso degli alunni con disabilità è clamoroso: dapprima di fatto abbandonati in casa con difficilissimi contatti, poi nel ritorno a scuola à la carte su richiesta delle famiglie solo per uscir di casa, visto che venivano accolti in perfetta solitudine in un paradossale neo-isolamento didattico, loro da soli con gli insegnanti di sostegno e gli educatori. D’altra parte nelle grandi crisi sociali di un paese, è un classico che si rompano i paradigmi inclusivi, spesso più retoricamente dichiarati che realizzati, e che gli ultimi aumentino la loro distanza dal mainstream medio del welfare sia educativo che sociale.
L’esperienza dovrebbe, una volta tanto, insegnare che si apprende bene solo facendo, sentendosi protagonisti non spettatori di una lezione, comunità di scambio e confronto continuo. Se si apprende tutti, non una parte, e se si apprende insieme in modo inclusivo. Altrimenti perdono tutti e perde la società nei suoi valori di civiltà. Dovrebbe insegnare che è stato un anno pedagogicamente sbagliato, e che la pedagogia triste di questi mesi ha aumentato le difficoltà esistenziali e cognitive dei nostri giovani. Ai quali si pensa perfino di prevedere il “recupero” se sono indietro, ed io temo che questa parola venga tradotta in “ripetizione”, cioè perseverando nell’errore pedagogico e didattico.
In conclusione, un anno didatticamente e pedagogicamente infelice, nel quale tutti hanno insegnato e imparato male.  Una crisi pedagogica cui si risponde con una riflessione ancora più necessaria dell’anno scorso. Se l’anno prossimo deve essere un “ponte”, questo ponte deve prima avere un argine di partenza in cui si comprendono gli errori psico-pedagogici e didattici. Dagli errori si impara che l’anno prossimo serve un’altra scuola, non la stessa di prima, dove si insegna tanto e si apprende male.

I nostri giovani, tra straniamento e afflizione
Chiamo straniamento e afflizione la condizione dei nostri bambini e ragazzi oggi. Preferisco questi termini piuttosto che gli stigmi psichiatrici che rischiano nuove “malattie” iatrogene. Due fenomeni diffusissimi nell’anima dei nostri giovani, di cui vediamo la punta dell’iceberg nelle forme più acute ed eclatanti, ma che ha una vasta subacquea massa sotto il mare. Straniamento come sentirsi “stranieri” o “strani” nel vivere la quotidianità, in un tempo non proprio dell’età, col rischio di perder-si la vita che cresce in un’infinita e incerta attesa di un altro vivere. E afflizione per gli effetti dolorosi di perdita della libertà e autonomia, dentro regole sociali e sanitarie che rendono la vita chiusa, noiosa, senza piacere.
Nella condizione di straniamento e afflizione non si apprende bene, non si sviluppano relazioni significanti per l’età, si sogna meno, si desidera meno, molto viene meno dei processi naturali dell’età.  Più che il curricolo, è venuta a mancare la vita. Se ci pare poco.
È dunque essenziale ripensare in questa fase a come uscirne tenendo conto che le vaccinazioni di massa del periodo fanno prevedere che forse siamo alla fine del tunnel, ma che alla fine del tunnel non avremo il paesaggio di prima, ma un nuovo paesaggio, composto anche da macerie sociali ed umane. C’è chi pensa che l’anno scolastico prossimo possa avvenire semplicemente in aula con maggiori sicurezze, pensando che i ragazzi saranno gli stessi con un anno di vita in più.  Scordando invece che nonostante tutto hanno vissuto, che sono diventati anche altro, a volte persino più resilienti, ma spesso non più ignoranti ma più tristi. Dunque che fare?
L’estate educativa come primo ponte per il futuro
Tra le tante cose possibili, il Governo ha messo quasi 600 milioni di euro nel “Decreto sostegni” di fine aprile per offrire ai bambini e ragazzi una prima opportunità di recupero esistenziale attraverso l’apertura delle scuole anche nei mesi da giugno e luglio. Una novità del tutto inedita e per molti inattesa, visto che lo slogan dominante sembrava “siamo stanchi”, meglio vacanze e ripresa per tutti a settembre.
A fronte di un grande scetticismo dei più e dei molti detrattori, gente di scuola e studiosi, sul rischio di un flop per mancanza di “vocazioni” (gli eventi estivi sono infatti gestiti solo da insegnanti “volontari”)  assistiamo in queste ore ad un esito inatteso e straordinario: ben 6.000 scuole autonome su 8.000 hanno progettato eventi estivi di comunità educativa accedendo ai fondi PON (di particolare complessità amministrativa), ma molte altre hanno avuto fondi dal territorio e dai 150 milioni già distribuiti alle scuole per questi eventi. Cosa nasconde questo innegabile successo? Naturalmente i progetti estivi sono molto diversi tra loro, in alcuni casi saranno purtroppo ripetizioni travestite da recuperi, ma si leggono progetti di respiro pedagogico elevato proprio sulla “socialità” e sulla “riscoperta del territorio” come spazio di vita ed esperienza. Insomma numerose iniziative svolte non nel caldo afoso delle aule, ma esattamente fuori di scuola, nei prati nei boschi, al mare, tra esperienze di comunità, attività sportive, di azioni sociali. Insomma, per ritornare ai ragazzi non il curricolo ma la vita e spazi di vita da vivere insieme.
Si tratta di un “ponte” vero e proprio dove alla fine di questo vorremmo ci fosse una scuola diversa e nuova dal passato, dove il territorio fisico e antropico diventa aula magnifica e continua di apprendimento e di vita. Dove il territorio sociale diventa partner dell’istruzione (dalla cultura al terzo settore, ecc..). Dove cioè istruzione ed educazione si fanno parte della stessa medaglia, dove la scuola non si fa solo a scuola e non è solo la scuola tradizionale. Si tratta dunque di una sperimentazione sociale molto delicata ed interessante, nella quale il primo pensiero non può che essere il rafforzare le pratiche inclusive da chi ha avuto di meno o perfino è stato escluso in questi 16 mesi di pandemia. L’innegabile successo di questa estate educativa a scuola aperte aiuta a riflettere se questo paese non abbia valori spesso più forti di quelli che abitualmente ci attribuiamo con gli stereotipi negativi di un paese solo egoista e fermo in interessi piccini.
Forse non tutto il male viene per nuocere. Un’altra Italia è forse possibile, almeno per i nostri piccoli e i nostri ragazzi. Seguiamo questo sviluppo con attenzione. Il coinvolgimento di “altri soggetti” nella scuola e la necessità di realizzare “patti di comunità territoriali” ha un respiro fresco di sussidiarietà orizzontale di cui il nostro paese ha un gran bisogno, con un civismo diffuso in cui il territorio sa fare relazioni, garantisce un welfare a misura di persona, sviluppa generosità e solidarietà.


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