Articolo di Appunti (Accesso libero)
Articolo pubblicato sul numero 233, 3-4/2020
luglio-dicembre 2020
Volontariato, terzo settore e politiche sociali in Italia
Giacomo Panizza
Tipologia: Intervista
Per il Gruppo Solidarietà il passaggio tra il 2019 e 2020 segna 40 anni di attività. Abbiamo pensato di aprire questo numero cercando di rileggere questi anni a partire dai tanti attraversamenti di una organizzazione come la nostra. Abbiamo chiesto aiuto a don Giacomo Panizza1 che di questi attraversamenti è stato ed è protagonista con l'esperienza della comunità Progetto Sud ma non solo (intervista a cura di Fabio Ragaini).
Giacomo, è difficile iniziare una conversazione senza cominciare da quello che abbiamo vissuto da febbraio ad oggi, ma ti propongo di arrivarci più avanti. Segno alcune nostre tappe e ti chiedo di prendere lo spunto per una riflessione più generale. Un primo aspetto riguarda la cosiddetta azione volontaria. Noi ad esempio siamo nati all’indomani di riforme che hanno segnato l’evoluzione e lo sviluppo della nostra società: inclusione scolastica degli alunni con disabilità, istituzione del servizio sanitario nazionale, la riforma psichiatrica. Eravamo per lo più adolescenti e ce ne siamo accorti dopo. Cosa hanno significato queste riforme per il nostro Paese?
L’azione volontaria, lanciata a metà anni 70 del secolo scorso è nata e cresciuta in parallelo con la stesura delle leggi che hai citato. Potremmo specificarla come “azione volontaria organizzata” perché non si trattava di compiere singoli gesti utili al prossimo, come nelle battute sul boys scout che aiuta la vecchietta ad attraversare la strada o, della nonna che con amore e sicurezza accompagna il nipotino a scuola. Questi sono gesti di benevolenza e amore verso i parenti e il prossimo che fanno parte dell’ordinarietà della vita famigliare e sociale.
Il volontariato, piuttosto, si organizza intenzionalmente in gruppo per aiutare qualcun altro a superare delle difficoltà che da solo non riesce a fronteggiare perché carente di mezzi, o privo di coesione famigliare e sociale, oppure latitano le istituzioni e la politica. Insomma, lungi dall’essere la somma di singole buone azioni, il volontariato nasce per essere una libera “formazione sociale” che agisce sussidiarietà, dice a chi è bisognoso di aiuto che una parte di società c’è, con te e per te. Allo stesso tempo dice alla società che un “socio” non va abbandonato, altrimenti che società è? E dice alla politica che sta in difetto perché se il volontariato deve fare degli interventi necessari, significa che una repubblica democratica si sta sfilacciando e deve attrezzarsi meglio a offrire un welfare universale efficace.
Ecco, questi principi solidali presenti in quella stagione socio-politica hanno fatto passare le riforme citate, perché si imponevano dal basso nel Paese, dalla società. Quelle riforme, comprese anche altre riguardanti la delega alle regioni e ai comuni per il comparto dei servizi socio assistenziali, il carcere e la famiglia, e altro ancora, sono state varate non perché certi partiti politici o leader popolari erano illuminati, ma perché tanta gente e gruppi e addetti ai lavori - rispetto ai diritti di chi è debole o reso debole, e sui doveri della partecipazione - facevano massa propositiva. Questo in un decennio, come gli “anni 70”, in cui in Italia esistevano purtroppo anche dei poteri forti, presenti ma non ancora tanto indagati, come un terrorismo stragista e gli anni di piombo, la P2 e forse anche altre logge massoniche deviate, lo strapotere di clan mafiosi, i metodi clientelari che hanno portato agli scontri tra politica e magistratura tra cui “Mani pulite”, e così via. Queste riforme, a mio avviso, non sono state sufficientemente considerate nel Paese, e sono andati perduti più significati, tra cui quello politico di esserci arricchiti della richiesta di più cittadinanza e di avere più diritti e più doveri. Il volontariato e le realtà socio-culturali che avevano colto la gravità del tempo si attivarono per generare consapevolezza e cambiamento, ma ne uscirono perdenti, e non solo sé stessi ma tutti e tutte… Si è smorzata la lotta per il lavoro, è sminuita la battaglia delle donne, le domande di inclusione sociale si sono convertite in monetizzazione - vedi ad esempio l’assegno di accompagnamento alle persone con disabilità - e via di seguito. Certo, da quel periodo si potrebbe ricavare il concetto che le riforme si sono potute fare allora e dunque si potrebbero rifare adesso… solo che adesso rischieremmo di trovarci a chiederle a leader privi di partito, e non anche alla partecipazione del Paese reale.
Anche per la tua e vostra esperienza in particolare vorrei che ti soffermarsi sui processi di deistituzionalizzazione con la restituzione al territorio, alla comunità locale, della responsabilità di rispondere ai bisogni delle persone che quel territorio abitavano.
L’esperienza della Comunità Progetto Sud è sorta con la cultura partecipativa diffusa in Italia in quel periodo. Per “diffusa” non intendo maggioritaria, ma che seppur minoritaria si faceva sentire attraverso delle esperienze che parlavano da sole, anche perché giornali e riviste e letteratura le raccontavano come storie eccezionali. Noi sognavamo di farle diventare storia, scommettevamo di poterle diffondere facendole diventare “normali”, ovvero diffuse. Aiutati dalla Comunità di Capodarco, che ha fatto di tutto per sostenerci, abbiamo costituito un primo gruppo con giovani in sedia a rotelle, più alcuni comunitari e volontari e volontarie, con l’obiettivo di aiutare le persone chiuse in istituti assistenziali o manicomi o relegate a casa propria, e questo ci ha portati a creare luoghi di convivenza accogliente, abitazioni famigliari pur non essendo parenti, case e non strutture, e a gestire servizi territoriali aperti. Ad esempio, oltre al vivere in comunità da parte di alcuni di noi, le iniziative con e per le persone con disabilità si svolgono in gran parte alcune ore del giorno, perché oltre alle prestazioni che offriamo nei nostri servizi, andiamo noi nelle loro abitazioni, alla scuola, al lavoro e dappertutto finanche dove si trascorre il tempo libero.
La restituzione al territorio e alla comunità locale, comporta fatiche relazionali e testimoniali, tra cui anche quella dell’accettazione della disabilità, del diverso inquietante e perturbante che sta da qualche parte all’interno dell’immaginario individuale e collettivo. Insomma, a chi abita nel territorio si propongono esperienze di prossimità con relazioni di aiuto, come anche di festa, di normalità, e qualcosa germoglia. Invece, le istituzioni locali calabresi sembra vogliano fare sanità senza salute, scuole senza insegnare, servizi sociali senza socializzare. Rimane ancora tantissimo per portare i territori a diventare e a pensarsi “competenti” a intervenire rispetto a chi viene visto come “diverso” e purtroppo anche come “inferiore”. Di positivo, però, c’è che le stesse persone con disabilità e i famigliari si coinvolgono maggiormente a fare la loro parte convincendosi che non sono loro “il” problema ma di essere i soggetti primi senza i quali non risolviamo nessun problema. Ci sono ancora battaglie vere e proprie da fare per costruire processi di deistituzionalizzazione, oggi più per le persone anziane oltre che per quelle con disabilità e per la sofferenza mentale. Rimane comunque da socializzare il territorio coinvolgendo le istituzioni e buona parte di società lontana da tutto questo con il pensiero… a meno che non capiti loro qualche evento che la tocchi personalmente o in famiglia.
Si può dire e se si perché, per quali ragioni e responsabilità che siamo di fronte a processi, magari più subdoli, e fenomeni di neoistituzionalizzazione? Al proposito mi viene in mente il mantra della “efficienza gestionale” molto in voga anche in molte organizzazioni del cosiddetto terzo settore. Il tema della “qualità di vita”, viene scritto nelle Carte di Servizio, ma poi appare poco visibile nella prassi.
Sì, io carico tanta responsabilità di queste scelte disumanizzanti sulla coscienza di imprenditori e di professionisti di medicina e assistenza. Penso che potremmo dire, insieme a Ivan Illich - quando parla delle professioni educative, di cura e riabilitazione - che tanti professionisti sono “esperti di troppo” che non insegnano, né curano, né riabilitano, quando piegano i loro saperi specialistici a mero ruolo di potere. Esistono proprietari di strutture che istituzionalizzano i “pazienti” con la complicità di professionisti che tradiscono la professione e il rispettivo codice etico svendendosi a custodire e segregare delle persone deboli. Non ho invece dati su RSA, Cliniche e ospedaletti pubblici per verificare se accada lo stesso.
In un welfare insufficiente e sregolato come quello italiano, i bisogni di salute e di crescita sorpassano le risorse disponibili, cominciando da quelle pubbliche e private fino a quelle del terzo settore. Il pubblico da tempo abbandona sempre più il suo ruolo di gestore diretto, ma purtroppo anche quello di promotore e responsabile dei diritti fondamentali e di qualità della vita delle persone. In generale, il privato for profit a sua volta non fa a meno di poter guadagnare sulle entrate economiche e di poter risparmiare sui servizi offerti, e c’è chi taglia sulla qualità della vita delle persone da aiutare e di quelle che aiutano. Purtroppo, vediamo semplici operatori e professionisti laureati che accondiscendono a svolgere mansioni di sorveglianti e custodi di persone fragili piuttosto che accompagnarle professionalmente a maggiori autonomie e a convivere il più possibile dignitosamente nella società. La cartina di tornasole, oltre alle prestazioni professionali offerte, è se favoriscono le persone a socializzare e convivere nei modi più disparati nelle abitazioni, nei luoghi comuni, come anche nelle stesse strutture di ricovero trasformandole in luoghi vivibili e accoglienti.
Le Carte di Servizio e l’efficienza gestionale delle attività previste, insomma, devono esprimersi nell’efficacia dell’inclusione sociale, culturale e politica delle persone deboli e non nella segregazione in certe RSA e Cliniche che di qualità hanno solo l’entrata e la sala-visite pulita a specchio!
Tu potresti raccontare l’evoluzione del volontariato e del terzo settore in Italia negli ultimi cinquant’anni. L’hai vissuto da protagonista. Non ti chiedo un bilancio, ma di evidenziare alcuni aspetti di questo percorso e se possibile con una riflessione sull’oggi. Nella nostra intervista (vedi nota 1) di alcuni anni fa, affermavi: “Salvo alcune eccellenze o punte di diamante, il terzo settore si è accorto dei rischi che corrono le persone più fragili e vulnerabili da quando si è reso conto dei rischi di impoverimento che esso stesso correva; rischi di inutilità, di irrilevanza culturale, peso politico zero, inadeguatezza a dare al sociale più soggettualità rispetto al primo e al secondo settore”.
Durante questo percorso, a mio avviso, sono accaduti mutamenti sociali considerevoli, ma le letture sul volontariato si sono fossilizzate fino a incrostarsi; perciò vanno svecchiate. Un aspetto importante è che il volontariato in Italia ha avuto inizio da una porzione della Chiesa cattolica. Seppur protetta dal papa del tempo, il bresciano Paolo VI, quella prima compagine, proponendosi, è stata contrastata da un’altra porzione interna alla Chiesa stessa la quale, sostenuta dal cosiddetto partito cattolico, ne ostacolava la crescita e impediva pure la nascita di una necessaria legge nazionale sull’Assistenza, ferma al tempo de re! Dall’impegno della neonata Caritas italiana, indirizzata da don Giovanni Nervo, si forma un volontariato di prossimità, politico e intenzionalmente apartitico, costituito da tante iniziative “leggere” di gruppi parrocchiali e associazioni di ispirazione cristiana, dalla parte degli ultimi perché solidale. Non si poteva ignorare il fenomeno dello stigma sociale proiettato su tante persone emarginate e la segregazione di quelle rinchiuse in tante strutture disumanizzanti e vere anticamere della morte.
Le molte esperienze di volontariato svolte negli anni precedenti alla legge 266 del 1991, regolativa delle collaborazioni tre le istituzioni e il volontariato, hanno portato le associazioni a gestire anche dei servizi più “pesanti” sia educativi che sociali e sanitari, di prossimità e di tutela dei diritti, utilizzando anche strutture impegnative, H24 direbbero i tecnici, e ad assumere personale qualificato. Questo ampliamento di attività, orari e responsabilità ha favorito l’immaginario collettivo e la legislazione nazionale e regionale a recepire le originarie proposte del volontariato, cioè quelle di dare luogo in Italia a un terzo settore accanto agli altri due già sdoganati riguardanti lo Stato o primo settore, e il Mercato o secondo settore, facendo nascere servizi non for profit gestiti da altre realtà, associazioni ed enti legittimi, non solo di volontariato però privati, stabili e senza scopo di lucro.
Il problema principale, storicamente un po’ paradossale, è che da qui in poi si è andato attenuando il conflitto del sociale con il mercato e il potere, e si è assurdamente trasferito all’interno del neonato terzo settore. Insomma: soggetti aggregati del terzo settore quali il volontariato, cooperative sociali, associazioni varie riconosciute e no, con la ritardata apparizione delle APS e delle Imprese sociali, e l’aggiunta di enti filantropici, società di mutuo soccorso, e nuovi ruoli di reti associative, CSV e vari enti gestori del tempo libero e dello sport, nonché l’apertura di eventuali nuove modalità giuridiche future che possono a loro volta svolgere la miriade di attività previste nel decreto legislativo 117/2017 per gli Enti del Terzo Settore, hanno acuito di fatto il problema del potere “nel” sociale e una asimmetria di trattamento nell’uso indiretto e diretto di risorse statali o altro, quali sponsor e così via. E tutto questo può avvenire indipendentemente dalla programmazione pubblica degli Enti locali, e indipendentemente finanche dai bisogni e diritti prioritari della popolazione. Ritorno così sull’argomento “volontariato”.
Durante i 15-20 anni precedenti la legge quadro sul volontariato n. 266 del 1991, i gruppi sperimentatori hanno elaborato alcuni concetti base, che vengono accolti dalla legge all’articolo 2: «Ai fini della presente legge per attività di volontariato deve intendersi quella prestata in modo personale, spontaneo e gratuito, tramite l’organizzazione di cui il volontario fa parte, senza fini di lucro anche indiretto ed esclusivamente per fini di solidarietà». Non facciamo un elenco di attività da svolgere perché le situazioni storiche indicheranno i vari e varianti bisogni di intervento, ma sottolineiamo che esse vengano finalizzate “esclusivamente per fini di solidarietà”.
Su questa linea, vent’anni dopo, parecchie realtà e reti impegnate sul tema hanno elaborato la Carta dei valori del volontariato, intesa come aggiornamento del tema riproponendolo in 24 punti suddivisi in “principi fondanti” e “Atteggiamenti e Ruoli” del volontariato rileggendo i punti basilari tra cui la gratuità, la relazione, il dono, la partecipazione, la funzione culturale e il ruolo politico, la solidarietà e la sussidiarietà e così via. Ecco, tra questi punti, tutti importanti e nessuno cancellabile dall’elenco, quello che riprende appieno la pietra angolare del volontariato è il numero 6: «Il volontariato è esperienza di solidarietà e pratica di sussidiarietà: opera per la crescita della comunità locale, nazionale e internazionale, per il sostegno dei suoi membri più deboli o in stato di disagio e per il superamento delle situazioni di degrado. Solidale è ogni azione che consente la fruizione dei diritti, la qualità della vita per tutti, il superamento di comportamenti discriminatori e di svantaggi di tipo economico e sociale, la valorizzazione delle culture, dell’ambiente e del territorio».
Il nodo sta qui, perché i fini di solidarietà designano gli scopi delle attività, che sono di uguaglianza, di pari opportunità, di dignità umana di tutti e di ciascuno, di libertà di partecipazione, di diritti e di doveri in ordine alla solidarietà politica, economica e sociale prevista dalla Costituzione italiana. Gli scopi possono elencare anche più attività di quelle attuali, perché possono servire per raggiungerli storicamente. Invece, il Codice del Terzo settore all’articolo 5 offre un elenco di attività possibili, indicandone molte ma stemperandole già all’articolo 4, come «finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale mediante lo svolgimenti di una o più attività di interesse generale». Insomma, il volontariato viene riconosciuto per le attività previste da svolgere più che per gli obiettivi da perseguire. La moltiplicazione e la debolezza di tante associazioni di volontariato sta in questo. Io, prete, in parrocchia potrei costituire un gruppo di volontariato facendo giocare solo bambini poveri, oppure solo ricchi oppure mescolati, senza prefiggermi lo scopo di creare solidarietà politica né coesione sociale e neppure fraternità umana.
Presente e futuro delle politiche sociali (da non confondere con i servizi sociali) in Italia. Negli ultimi anni abbiamo assistito all’istituzione (vedi contrasto povertà) o ad un progressivo aumento (vedi ad esempio fondo non autosufficienze) dei finanziamenti statali. Singoli fondi e trasferimenti centrali settoriali e vincolati. Un fenomeno che si presta a più letture e che forse ha anche diverse motivazioni. L’effetto mi sembra, senza una forte regia regionale, è quello di interventi che non stanno dentro progettualità più complessive. Percorsi nei quali il trasferimento si coniuga con la prestazione e sembra sempre più venir meno il luogo dell’accoglienza, della valutazione, dell’accompagnamento, della presa in carico.
Sì, bisogna stabilizzare i finanziamenti congiuntamente a distribuirli equamente e strategicamente nel Paese. Dobbiamo mirare a superare la consuetudine della garanzia della spesa storica a determinati territori per il comparto sanitario e sociosanitario finanziando di più chi ha potuto spendere di più, e penalizzando il Sud perché in passato ha speso di meno. Una frettolosa autonomia regionale va ponderata al meglio, al fine di poter abitare in uno Stato unitario vero.
Serve di sicuro anche una forte regia regionale, che assuma il principio di solidarietà che indicavo sopra, per il volontariato. La solidarietà che non è l’elemosina per commozione a qualcuno che non rivedrai più, ma un intervento mirato a costruire parità tra le persone, tra territori e tra regioni, è da riscoprire anche oltre i gruppi di volontariato. A mio avviso, è un principio giusto ma anche utile a tutti gli enti del Terzo settore. Diventerebbero meno prestazionistici e più professionali perché le prestazioni, e anche i servizi, incominciando dalle politiche sociali si incanalerebbero nel fine di abilitare le persone alla cittadinanza. E questo varrebbe per chi viene aiutato e per chi aiuta. E varrebbe anche per i servizi pubblici come ad esempio gli ospedali o i centri di riabilitazione; e varrebbe come indice di qualità anche per i servizi privati for profit e not for profit.
Governare le prestazioni tecniche aiuterebbe a intenderle anche quali prestazioni sociali e politiche, perché si riconoscono così le possibilità umane, ovvero le capacità che generano le abilità concrete. Immagina, ad esempio, una persona con disabilità che dai genitori e dagli amici, dai terapisti e dagli insegnanti e dalla società venga vista, prevista, come persona con capacità di crescere, di ricevere ma anche di donare a sua volta. Immagina quanto aumenterà in lei l’autostima per il solo fatto di venire pensata così. Immagina la felicità che avrà quando capirà di avere un po’ ottenuto e un po’ conquistato i suoi diritti di studiare a scuola, di curarsi e riabilitarsi (perché non avranno fatto tutto solo gli esperti “su” di lei). Immaginala quando si renderà conto della bellezza di aver partecipato a conquistare il suo diritto di avere doveri e di poterli finalmente esercitare…
Da ultimo, le tue riflessioni in questo tempo di pandemia. Quali effetti il coronavirus ha avuto e ha nel vostro lavoro, nella vostra rete di interventi. E più in generale, cosa sta significando nella vita di tante persone e nel loro rapporto con i servizi.
Viviamo in maniera pesante questo periodo, come tutti quanti, con le organizzazioni di volontariato e di terzo settore. Finora abbiamo avuto la fortuna di non ammalarci a causa del coronavirus. Abbiamo fatto la nostra parte escogitando modi di difesa e di sostegno alle persone che vengono aiutate e che aiutano attraverso relazioni, interventi e servizi. Queste invenzioni alcune fatte e altre mutuate da altri, ci hanno arricchito di saperi e nuove abilità. Ad esempio, con l’utilizzo dei tablet abbiamo accompagnato i parenti dei piccoli con diagnosi di autismo a fare da loro rimanendo a casa, non interrompendo ma portando avanti i programmi terapeutici. Abbiamo raccolto e perciò siamo riusciti a donare a persone e a famiglie poverissime cibo e soldi per pagare bollette luce e gas e spese varie, e mascherine guanti eccetera, come hanno fatto fortunatamente tanti in giro per il mondo. Si potrebbe dire che la rete degli interventi stia funzionando perché abbiamo curato le informazioni, l’organizzazione e la persuasione di tutti e tutte noi. Speriamo…