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Articolo pubblicato sul numero 233, 3-4/2020
luglio-dicembre 2020

Famiglie di persone con disabilità nell’emergenza coronavirus. L’esperienza di ascolto del Gruppo Solidarietà. Una rilettura ad oggi

Gloria Gagliardini

Gruppo Solidarietà

Tipologia: Articolo


L’esperienza di ascolto delle persone apre anzitutto a un “sentire”. Un sentire fatto di emozioni forti, altre latenti, altre sopite che hanno bisogno di uno spazio, di un luogo, di un tempo perché possano trovare forma in parole. Il primo elemento da evidenziare è proprio questo, l’ascolto e la conoscenza delle persone e delle loro famiglie.

Premessa
Lo scritto 1 che segue è una breve narrazione dei vissuti dei familiari del gruppo di auto mutuo aiuto 2 (AMA) da inizio emergenza sanitaria ad oggi. Il gruppo si compone di circa una quindicina di familiari del territorio dell’Ambito Territoriale Sociale 9: genitori di età attorno ai 70 anni, con figli con disabilità, età media di 40 anni. Tra loro pochi usufruiscono di sostegni domiciliari, mentre la maggior parte ha come servizio il Centro diurno; in due casi i figli abitano in comunità. Le famiglie monogenitoriali - madre con figlio adulto - sono quattro. La prima parte del testo è stata scritta a conclusione della “fase uno” della pandemia, in un secondo momento abbiamo aggiunto il vissuto del periodo estivo. A conclusione tentiamo una lettura a qualche mese di distanza dall’inizio di questa emergenza.
Dicembre 2019 lo avevamo concluso con un seminario di approfondimento 3, che metteva in luce alcuni temi estrapolati da un gruppo di interviste fatte a familiari di persone con disabilità del nostro territorio. Avevamo raccolto storie di vita e ne avevamo ricercato spunti di riflessione e insegnamenti in tema di inclusione sociale per la comunità territoriale e per servizi.
Le famiglie ci dicevano che erano in attesa di capire se avrebbero usufruito dei “sollievi” 4, dopo un faticoso groviglio interiore per delegare un po’ della propria responsabilità genitoriale ad altri. Emergevano risvegli di paure legate ai primi anni di vita dei figli, alle malattie incontrate, a ferite ancora non cicatrizzate; avevano appena terminato le riunioni annuali per i rinnovi dei piani educativi a febbraio, ritenuti per lo più atti burocratici più o meno sempre uguali. Si definivano stanche e affaticate dalla loro quotidianità; dicevano di “vivere una vita parallela agli altri”, e di sentirsi “poco capite da chi la condizione di disabilità non la vive”.
Tutto questo non lo possiamo dimenticare; la pandemia arriva in ciascuna di queste case e porta chiaramente ulteriore affaticamento. Ricordiamo che i familiari dei Centri diurni erano abituati a un servizio di sette ore al giorno che loro stessi definivano “vitale”. Un importante sostegno rispetto al rilevante carico assistenziale, dove i periodi di festività o i giorni estivi di chiusura dei servizi erano definiti “periodi pesanti da gestire”, nei quali “si è costretti a rimanere per lo più in casa”. Un servizio quindi per i figli e a sostegno dei genitori, un servizio strutturato in un luogo e in gruppo, dove il progetto individuale di ciascun utente si situa dentro a un “progetto di struttura”.
Il gruppo A.M.A in tutti questi mesi continua a tenersi in contatto, prima attraverso telefonate tra singoli, da maggio a giugno con incontri su piattaforma virtuale una volta alla settimana, poi in presenza diviso in due sottogruppi.

Marzo. L’inatteso e la paura
L’epidemia da coronavirus viene annunciata in Italia a fine febbraio. A inizio marzo chiudono le scuole. Giorni nei quali regna per tutti confusione mista a timore di cosa sarebbe potuto accadere e di quali regole adottare. Le famiglie che usufruivano dei Centri diurni erano impaurite e tra di loro si chiedevano quali decisioni prendere rispetto alla frequenza dei figli al Centro. Il 10 marzo 5 la Regione Marche chiude i Centri diurni sociosanitari, anticipando la direttiva nazionale della settimana successiva 6. Emergeva dai familiari tanta paura del virus e ancor più la paura di non poter reggere a questo evento, specialmente in quei nuclei familiari costituiti da sole madri con figli adulti: questa volta si era davvero soli in casa, privati di una fondamentale rete esterna di sostegno. Il clima emotivo di questi mesi è significativo, ci si rispecchia tutti in questa base comune di isolamento. Si passa dal subire questa situazione emergenziale di paura a una riconversione quasi di riscatto, in cui si cerca insieme il coraggio di condividere l’esperienza individuale dandole forma in un pensiero collettivo. Con sorpresa abbiamo visto genitori quasi ottantenni riuscire a collegarsi alla piattaforma on line, confrontarsi con gli altri in una modalità completamente nuova.
Quali le paure emerse? Sopra tutte le altre, la paura di ammalarsi e non sapere a chi lasciare i figli, ma anche angoscioso timore rispetto alle reazioni dei figli all’isolamento: qualcuno ci ha detto di aver aumentato il dosaggio dei farmaci. E poi grande disorientamento: in questa prima fase non si sapeva ancora come i servizi territoriali si sarebbero organizzati in caso di malattia da Covid per questi nuclei. In ogni caso la paura del contagio in questo periodo è quella prevalente a cui si risponde con forte protezione verso la propria famiglia. L’isolamento in casa è vissuto come un rifugio sicuro, meglio quello che rischiare la propria salute e quella dei figli. Si sopporta la fatica assistenziale continuativa e la noia di stare in casa in una routine tutta da riprendere, non si chiede aiuto neanche ad altri figli, se non in alcuni casi per la spesa. Ognuno cerca di cavarsela da sé, con la speranza di una normalità imminente. In alcuni genitori si manifesta un alto livello di stress: oltre al senso di impotenza e di inadeguatezza era venuta meno – con l’impossibilità di uscita del figlio da casa – quello spazio prezioso di libertà personale in grado di far loro riprendere respiro.
Per alcune persone è mancata un’informazione di base dei numeri telefonici messi a disposizione del proprio Comune, dei negozi e supermercati per la spesa a domicilio, della protezione civile, le informazioni su come reperire farmaci anche salvavita a domicilio. Di questi familiari in due situazioni abbiamo sperimentato, dopo circa 15 giorni di isolamento, affaticamento e stress. Alcuni genitori già con problemi di salute pregressi si sentivano impotenti e preoccupati di fronte al proprio figlio, al quale di colpo era finito un “tirocinio di inclusione” e sospeso il servizio di educativa domiciliare (AEI) e si stava lasciando andare all’apatia. Chi - per chiusura del CSER - prova un senso di inadeguatezza personale di fronte a un tempo così lungo con il figlio in casa, senza stimoli esterni. Significativa è stata a riguardo l’ordinanza n. 16 7 della Regione, che permetteva spostamenti a “soggetti con disturbi psichici”. Per alcuni familiari è stata la possibilità concreta per riprendere energia vitale, anche solo portando il figlio in auto per il paese, ma anche in questa situazione non sono mancati nuovi timori: quello, ad esempio, di doversi “giustificare” con le forze dell’ordine o quello di subire gli sguardi irritati di chi non conosceva la situazione.
Questa possibilità di uscire ha abbassato il livello di “congelamento emotivo” delle persone con disabilità intellettiva, sperimentando che una passeggiata all’aria aperta faceva bene alla salute, che il virus non era ovunque. È stato anche il primo modo per prendere confidenza con la mascherina, passando prima dalla sciarpa, poi dal foulard, restando in macchina mentre il proprio genitore faceva la spesa e poter osservare che se gli altri indossavano la mascherina non era per malattia, ma per precauzione.
A metà marzo nel nostro territorio per alcuni giorni vengono sospesi i servizi di educativa territoriale, per mancanza di dispositivi di protezione degli operatori. Chi ne usufruiva si trova quindi a non avere più quel sostegno. Questi servizi riprenderanno - con precedenza ai casi considerati urgenti - ma con fatica e lentezza anche per la necessità di riallacciare rapporti di fiducia con le stesse persone con disabilità e con le famiglie impaurite dal contagio. Le famiglie non hanno chiaro dove si può andare con l’operatore: stare in casa in una stanza senza familiari, uscire dove, distanziati quanto.

Aprile. Resistenza e forza
Il clima emotivo è cambiato, c’è sempre tanta paura ma anche nuove abitudini apprese: l’incoraggiamento reciproco è “resistere”, “ce la faremo”. Le famiglie si sentivano tra loro, anche per scambiarsi le informazioni avute dai coordinatori dei servizi.
Le chiamate riguardavano per lo più il servizio di educativa domiciliare, ma ancora con tanti interrogativi. Chi sarebbe andato? Un educatore del diurno? Un operatore conosciuto o uno sconosciuto? Per fare che cosa? Passeggiate, ma dove? Ancora non è caldo, in casa no per paura del contagio… E poi, per quante ore? Le famiglie erano in difficoltà, non sapevano che cosa rispondere.
La vita in casa si era assestata in una nuova routine: dopo un primo mese in cui c’è chi prova anche a stimolare il figlio a livello motorio, cognitivo per non perdere ciò che è stato faticosamente acquisito, ci si adagia in una situazione temporale che non prevede una fine a breve.
Chi lavora in smart working con il figlio seduto in carrozzina accanto per metà della giornata; chi mantiene una possibilità di uscita anche piccola per comprare il giornale perché sa che la lettura del  quotidiano può fare la differenza di umore; chi esce solo in macchina con il solo obiettivo di prendere aria; chi inventa tanti dolci da cucinare; chi gioca a carte col proprio figlio; chi si addormenta sul divano e si lascia andare all’apatia dei giorni, mentre il figlio in camera ritrova giochi con cui impegnare le giornate come vecchi puzzle e giornali; chi tutto il giorno segue ogni serie televisiva spostandosi solo dal divano alla sala da pranzo e al letto; chi racconta di aver dovuto reggere a crisi nervose del figlio senza sapere come fare, a chi chiedere aiuto.
Emerge, dunque, un clima abbastanza apatico per tutti, con pochi o nulli stimoli esterni. Un mondo fuori che entra poco o quasi niente, anche solo telefonicamente. Alcune persone con disabilità non ricevono nessuna chiamata. Chi riesce, invece, tenta di farle. Le uniche due persone che prima dell’emergenza avevano una rete sociale fatta di impegni extra ai servizi (teatro, yoga, piscina) riescono a mantenere relazioni sociali anche a distanza. Come tutti gli altri, supportati dai familiari, imparano quindi a collegarsi da remoto, ad attivare una chat, ad inviare messaggi, a interloquire in questi nuovi modi.

Maggio. Desiderio di vicinanza
Sono trascorsi due mesi da quando tutto è iniziato. Le emozioni che emergono sono preoccupazione, confusione, paura, disorientamento e stanchezza. “Sono confusa, mi viene da piangere, tanta malinconia e solitudine. Non si può andare avanti così”.
Ancora chiaramente verbalizzati sono il bisogno di protezione della salute e quello della socialità per i figli che hanno patito l’isolamento fisico e sociale per due lunghi mesi.
Alcuni lamentano con grande dispiacere il non aver avuto una telefonata da parte degli educatori, con i quali i figli avevano un rapporto quotidiano. Le persone del Centro diurno sono ricordate come il “gruppo di amici”. Ricevere videochiamate, quindi, sarebbe stato vissuto dai familiari come il segno che il proprio figlio veniva considerato una “persona con pari dignità umana”. L’assenza del mondo fuori casa, sollecita un confronto nuovo, quello di rimisurarsi con il livello di fiducia verso l’esterno che per alcune persone con disabilità complessa è rappresentato solo o quasi dalle relazioni che si intrecciano attraverso gli educatori dei servizi di cui usufruiscono. “Se tutto questo calore umano non c’è stato in questi mesi, come potrò fidarmi nuovamente?” Ci si sente insicuri, fragili, soli, scoraggiati, sconfortati. Si ricevono chiamate telefoniche, da parte dei responsabili dei servizi, volte a conoscere chi è disposto a far fare il tampone al proprio figlio in vista della riapertura del Centro diurno, senza dire in quali modalità si riaprirà, (giorni, orari, operatori), con quali modalità si faranno i trasporti, se si ha diritto a servizi alternativi. Dalle parole dei familiari emergono: il bisogno di sentirsi compresi se non si riesce ad accettare un’offerta di servizi che non viene vissuta come sicura, il bisogno di sentir riconosciuto un trattamento dei figli al pari degli altri, “essere chiamato per nome da chi lo conosce, essere riconosciuto, essere appartenente ad una comunità”; il bisogno di vedersi riconosciuta una certa autodeterminazione per riprogrammare la vita.

Giugno. Attivazione di servizi e nuove regole sociali
Da metà maggio, si vive un’altra fase ancora. Per chi usufruisce di progetti come il Dopo di Noi, la richiesta di alcuni genitori spinge per il riavvio del progetto, almeno gradualmente, per piccoli obiettivi. Si inizia a vivere una condizione di ripresa certa. I figli si sperimentano assieme agli educatori con il mondo fuori e le nuove regole sociali, c’è uno scambio e una riprogettazione con i servizi. Per i Centri diurni una delibera regionale 8 stabilisce le modalità di riapertura e si stabilisce un Piano territoriale di riattivazione dei servizi 9. Per il nostro Ambito territoriale, il riavvio è previsto per il 3 giugno. I familiari, ora, hanno un tempo con cui misurarsi con una data stabilita.  Contemporaneamente informazioni poco chiare sulle modalità di riavvio: orari, trasporti; in alcuni casi informazioni non corrette, come ad esempio l’obbligo, indiscusso, della mascherina. Ma più scoraggiante è l’altalenarsi di informazioni per chi aveva richiesto l’attivazione del servizio domiciliare: sembrava accordato e invece risulta poi on autorizzato. Non si comprende dove la macchina si sia inceppata, chi bisogna chiamare, di chi sia la responsabilità. In questa incertezza c’è chi ci ripensa, chiudendosi di nuovo nelle proprie paure e non accettando più il servizio. Nel frattempo alcuni serbano dubbi e timori per il tampone da fare, avendo esperienza della difficile gestione di ogni visita medica al proprio figlio.
Dal punto di vista sociale, si vive un cambiamento. In questo periodo le famiglie iniziano ad uscire con i propri figli, piccole uscite per acquisti, ma non tutti riescono a tollerare la mascherina e si scontrano con quei negozianti che non li fanno entrare senza il dispositivo o che fanno entrare solo il genitore lasciando fuori il figlio. Tristezza, delusione, senso di ingiustizia. Bisogno di informazioni anche su questo e di sapere cosa poter rispondere e come “difendersi” da sguardi ostili di persone in fila al supermercato o da chi minaccia la multa.
Anche tornare al bar vicino casa portando con sé il proprio figlio diventa difficile, ci sono misure da prendere e regole sociali nuove con cui confrontarsi e con cui far confrontare i figli che non le comprendono. Il bar non viene più vissuto come il luogo dello scambio sociale, nulla è più come prima. C’è chi, preso dalla paura del contagio sommato alla fatica e allo sforzo fisico che implica uscire con il figlio adulto e intollerante alla mascherina, rinuncia ancora alla spesa al supermercato.

Periodo estivo. 40 giorni di lunga attesa
In questo frangente il gruppo A.M.A decide di ritrovarsi in presenza: dopo mesi di isolamento in casa con i figli, il clima tra i partecipanti è notevolmente agitato. L’incontro viene fatto all’aperto, ma questo non basta ad attenuare le ansie dovute alla necessità del distanziamento personale nonostante l’uso delle mascherine. Si registra in questo incontro uno stato emotivo di “allerta” e comportamenti problematici di alcune persone con disabilità di difficile gestione. Alcuni raccontano di aver vissuto proprio una vita diversa, con la sensazione che sia passato un tempo lunghissimo. In questa fase tutti ricevono dai servizi la proposta di attivare un servizio educativo a domicilio, di tre o quattro ore a settimana, suddivise in un paio di mattine o pomeriggi, stavolta con la sicurezza che l’operatore sia un riferimento conosciuto dalla persona e dalla famiglia. Il 3 giugno i servizi diurni non sono stati riattivati; riapriranno circa 40 giorni dopo. Il sopraggiungere del caldo estivo rende il clima più disteso, leggero con libere uscite per tutti. Nei familiari un “desiderio di allentare la corda” e allo stesso tempo la fatica di goderne a pieno, perché le poche ore del servizio domiciliare non potevano restituire la vita di prima. Questa precarietà anche sul piano della previsione psicologica agli eventi è stata per alcuni genitori un’ulteriore esperienza faticosa. Sono stati giorni lunghi in cui non si capivano le responsabilità di una macchina burocratica preposta alla riattivazione dei servizi che di fatto non partiva. Finalmente l’8 luglio sono stati fatti i tamponi, ogni utente nel suo Centro diurno, luogo il più possibile familiare e da lì ad una settimana i servizi riprendono.

Riapertura alle visite delle residenze
A giugno la nostra Regione emana le linee di indirizzo per l’accesso alle strutture residenziali 10, ci vorranno anche qui molti altri giorni affinché ogni singola struttura sociosanitaria sia effettivamente strutturata ed adeguata all’accoglienza dei parenti. Per i genitori che hanno figli in comunità residenziale si vive questa attesa con la gioia di poter rivedere dal vivo i figli. Poi si raccontano emozioni contrastanti: gioia e dolore insieme, desiderio e paura. Rimanere distanti, non poter esprimere un abbraccio, la paura di essere veicolo di contagio, l’impossibilità di non poter essere accanto come si vorrebbe: resistere a sé stessi.
Una mamma ci racconta la gioia e la frustrazione di rivedere sua figlia, dopo mesi di videochiamate dalle quale però non riusciva ad avere riscontro alla sua voce. “Mia figlia non vede, non parla, se non ho possibilità di toccarla non riesco a capire se mi riconosce … Ho pianto sempre quando sono andata a trovarla, eravamo in giardino io e lei da sole. Così non riesco …”.
Un’altra mamma racconta: “Se durante il lockdown mi sentivo tranquilla nel sapere mio figlio al sicuro in comunità residenziale e trattenevo il desiderio di vederlo, al momento della visita ho avuto paura di essere un potenziale pericolo, un veicolo di contagio”. “In questo periodo l’ho visto tre volte: quando entriamo ci fanno misurare la temperatura, indossiamo la mascherina, ci vestiamo tutti … Tra noi e nostro figlio c’è un tavolo che ci separa e un’educatrice vigila perché teniamo le misure di sicurezza, anche se ci ha confessato di essere a disagio in questo ruolo. Il tempo previsto per la visita è di 30 minuti ma è capitato che restassimo anche di più. Lo vediamo bene, abbiamo anche notato che lo fanno camminare comunque e questo ci rassicura.” Il dialogo fra genitori che vivono questa esperienza di lontananza dai figli, in questi incontri di gruppo A.M.A, si fa delicato; anche qui le reazioni e i vissuti sono profondamente diversi per ciascuno. Si resiste al proprio istinto ad abbracciare, il ruolo del padre sembra qui rivelarsi più razionale, normativo. Si ha bisogno di un “segno” dai figli che tranquillizzi i genitori, come ci racconta un papà: “G. ci ha sorriso”. Nel caso in cui anche il linguaggio non verbale è compromesso si ha impellente bisogno di trovare modi intimi di comunicazione, che solo madre e figlio sanno riconoscere, fatto di vicinanza di odori, di contatto di mani, fatto di una voce calda e non alterata da una mascherina. Questo ce lo testimonia una mamma che a fine settembre riesce ad ottenere dall’Unità multidisciplinare il permesso di portare a casa sua figlia, previo tampone, per una giornata ogni due settimane. Si rischia il pericolo pur di ritrovare quel linguaggio sottile indecifrabile ma altamente comunicativo, che rinsalda un legame e rassicura che “il tempo non sia mai passato”.

Centri diurni part time e sostegni domiciliari
Per i genitori che usufruiscono dei Centri diurni, i mesi estivi si vivono con la ripresa di una routine conosciuta, anche se solo per la metà della settimana. Questo ritrovarsi in una giornata scandita e organizzata permette di distendersi un po’, di abbandonare la tensione accumulata. Ciò che rassicura è un’organizzazione sicura (tamponi periodici per utenti e operatori), ritrovare educatori di sempre, la ripresa del trasporto con il pullmino, l’organizzazione in due sottogruppi. Accedere al centro in 4/5 persone al giorno tranquillizza i genitori; ritengono che i figli saranno “seguiti di più”, che le attività siano più individualizzate e che sia garantito maggior controllo per le regole di distanziamento personale (somministrazione dei pasti, igiene ecc).  Una mamma dice: “Mi sento di nuovo libera”. Si sperimenta libertà da una cura quotidiana e continua che stava raggiungendo alti livelli di stress non solo nella cura fisica dei figli ma nel doverli “tenere occupati tutto il giorno”, anche negli orari in cui si vorrebbe per se stessi un po’ di risposo. Nel raccontare quanto si stava vivendo, abbiamo registrato un ritorno a un sentimento che sembrava sopito: il senso di colpa dell’abbandono, un sentimento ambivalente e contraddittorio che sta tra l’amore per sé e l’amore per l’altro. Continuare a stare in questa responsabilità genitoriale anche da anziani e in pandemia, fa risuonare ad una mamma una frase sentita quaranta anni prima quando suo figlio aveva appena due anni: “Avresti dovuto metterlo in istituto”. Ci si riscopre quindi attaccati alla vita e alla vita dei figli, più forti e più stanchi. La ripresa delle attività dei Centri restituisce vita a se stessi e di questo si è grati, perché si può uscire senza la preoccupazione degli orari, della responsabilità, dell’assistenza. Alcuni genitori mantengono il servizio integrativo domiciliare nei giorni in cui non usufruiscono del diurno. Per la prima volta, dopo molti anni in cui si era abituati a delegare al Centro tutta una serie di funzioni (igiene, cura, educazione ecc..), ci si ritrova a vedere cosa fa un figlio adulto in presenza di un educatore, come si rapporta un educatore. Ci si ritrova a prendere accordi su orari, cose da fare e come farle. C’è chi si interroga sul senso di questo servizio a domicilio, perché non è chiaro per tutti il mandato che hanno gli educatori in casa: stare dentro, stare fuori, dove andare, cosa fare in quelle due ore di uscita. Per alcune madri, gestire questa presenza educativa richiede un ulteriore impegno organizzativo. C’è anche chi, passando più tempo con i figli in casa, nota comportamenti nuovi, apprendimenti inaspettati, scopre piccole autonomie o capacità di fare piccole scelte: “Ho colto delle cose in mio figlio in questi mesi che stiamo di più insieme che mi hanno sorpreso”;  “mia figlia farebbe tante più cose da sola, se non le mettessi io l’ansia di fare tutto di fretta perché è sempre tardi …”.  Ci si rende conto, quindi, che i figli anche con disabilità importanti avrebbero possibilità maggiori di esprimersi in condizioni adattate a loro. Luglio e agosto sono mesi di rilassatezza, chi si concede una pausa al mare, chi va in vacanza, chi si prende dei giorni per ritrovare dei parenti. Settembre continua con un’organizzazione del servizio diurno per gruppi alterni, la previsione chiara che questa modalità durerà ancora molto, preoccupa alcune persone anziane. La prospettiva futura è incerta, la possibilità di programmare periodi di “residenzialità breve”, come alcuni facevano e poi brutalmente sospesa, non è neanche contemplata dai servizi ormai da moltissimo tempo. Un futuro che non permette di riprogrammare. La paura più grande rimane quella di essere contagiati. I tamponi periodici diventano fonte di stress per alcune persone. “Col passare degli anni si diventa più paurosi e siamo più fragili”. C’è poi chi non ha più ripreso la sua attività di tirocinio lavorativo, fonte di tante attese e speranze per i familiari. L’educatore territoriale che presta servizio a domicilio diventa l’unica risorsa tra casa e il mondo fuori. Ma dove andare in tempo di emergenza Covid? Cosa fare se non ci sono luoghi aggregativi e con distanziamento personale? Una mamma dice: “Ho bisogno che l’educatore venga di mattina, così mia figlia ha un motivo per alzarsi, altrimenti resta al letto, ho paura che mi vada in depressione. Poi vede che noi siamo preoccupati … Ha bisogno di uscire, di distrarsi, di non stare sempre con noi”. La questione del servizio educativo domiciliare o territoriale pone grosse domande.

Una rilettura ad oggi
L’esperienza di ascolto delle persone apre anzitutto a un “sentire”. Un sentire fatto di emozioni forti, altre latenti, altre sopite che hanno bisogno di uno spazio, di un luogo, di un tempo perché possano trovare forma in parole; questo è lo scopo di un gruppo A.M.A. Il primo elemento che mettiamo in evidenza è proprio questo, l’ascolto e la conoscenza delle persone e delle loro famiglie. È evidente che non è sufficiente l’attivazione di un gruppo A.M.A, che rimane un’esperienza che mostra i suoi limiti se i membri, quando ne hanno necessità, non sono accompagnati da percorsi di sostegno psicologico 11. Questa emergenza sanitaria ci pone, infatti, di fronte a tante paure che possono diventare vere angosce. A questo tema si allaccia quello delle nuove modalità relazionali. In questi mesi lo scambio e il sostegno tra i familiari si è modificato: la possibilità di uscire con le dovute attenzioni di distanziamento e senza assembramenti ha avuto impatto anche nel modo di relazionarsi del gruppo A.M.A. Non è un aspetto irrilevante considerando che i familiari sono, per la maggior parte, persone anziane con figli adulti disabili a carico. Il momento storico richiede di stare in relazione tutelando la propria salute e quella degli altri, anche quando l’altro è un figlio che non sa farlo da solo. Questo porta a reazioni molto diverse, chi esce ugualmente di casa, chi invece intimorito si isola, chi cerca sostegno dai servizi richiedendo educatori a casa, chi non vuole nessun “estraneo” in casa, chi lo vuole ma solo se “tamponato”. Questo aspetto ci interpella e offre un grande spunto per coniugare servizi, territorio e salute. Sappiamo che peso hanno, nei vissuti dei familiari di persone con disabilità, i servizi, il supporto o l’assenza degli stessi, la modalità di vicinanza che da essi ricevono. Abbiamo visto che dove si coltivano relazioni un tessuto sociale cresce, si attivano reti; al contrario dove questo manca si sperimenta il vuoto. Tutto questo ha mostrato anche che quelli che chiamiamo genericamente “servizi” hanno un volto per le persone che ne usufruiscono e sono spesso gli educatori che vi lavorano: la vera e quasi unica finestra di relazione con il mondo fuori. Lo abbiamo testato in piena emergenza, quando gli unici scambi con l’esterno avvenivano tramite telefono. Abbiamo toccato con mano quanto, per alcune persone con disabilità complessa che frequentano i Centri diurni (ma non solo), gli operatori sono i riferimenti, forse, per alcuni, “gli amici”. Se la famiglia viene contattata dall’assistente sociale dell’Unità multidisciplinare, dal coordinatore di struttura questo non basta a vivere un’esperienza piena di relazione, perché? Perché i ruoli sono diversi e spesso queste figure non conoscono nemmeno tutte le famiglie o non le conoscono a pieno; la relazione, di conseguenza, si appiattisce e si ingessa. Un problema che portavamo alla luce prima della pandemia era proprio su questo punto: la necessità di ripensare la comunicazione tra servizi e famiglie, spesso fonte di incomprensioni e di conflitti non agiti, tensioni sottostanti. Così, se gli educatori del servizio in piena pandemia non hanno telefonato ai propri “utenti” il vissuto è stato la solitudine. La domanda che si pone è se e quanto i servizi di territorio riescono a farsi mediatori 12 e quali sono le condizioni perché questo possa avvenire.
I luoghi che abitano i servizi sono spazi inclusivi, traghettatori di esperienze vitali, o luoghi contenitore, luoghi “non-luoghi”? Rispetto ai Centri diurni, si fanno largo domande importanti che richiedono un andare oltre la paura e ritrovare il coraggio della programmazione. Ci troviamo oggi a tre mesi dalla loro riapertura con una modalità di accesso per piccoli gruppi, metà dell’orario previsto per la maggioranza degli utenti e con servizi domiciliari integrativi individualizzati in alcuni casi. Può essere questa l’occasione per riflettere su questo servizio; che tipo di risposta dà alla persona con disabilità adulta e alla sua famiglia?
Quanto l’intervento educativo, sociale, riabilitativo, è calato su ciascuna persona, è affiancato da sostegni formali e informali, si situa dentro al progetto di vita della persona riconoscendola adulta?  Siamo invitati a riflettere anche sulla disabilità adulta e l’immaginario che ne portiamo dentro: attivare servizi flessibili, alternativi, impensabili come quello di servizi a distanza, videochiamate, piattaforme online anche con persone con disabilità complessa significa attivare strumenti perché nessuno, “indipendentemente dalla sua disabilità”, sia lasciato solo. Significa immaginare anche di sorprendersi, dare fiducia alle possibilità inaspettate, attivare risorse non solo strumentali ma anche educative, psicologiche (l’autostima, il senso di autoefficacia) e soprattutto re-imparare a conoscere la persona e il nucleo familiare. Significa inoltre “non dire mai grave”, sapere che, nella persona, il cognitivo non è slegato dall’emotivo; significa sapere che alla base degli apprendimenti c’è la motivazione ad apprendere perché qualcun altro attende, che qualcuno desidera.
Altro punto che emerge dall’ascolto delle famiglie è l’urgenza di condividere un sapere tra servizi e famiglia. Qui si è sperimentato che i servizi sono importanti, sono un pezzo della vita delle persone che va coniugato con un altro pezzo di conoscenza, quello dei familiari che sono accanto. La conoscenza e l’esperienza della vita reale fuori dai servizi è un patrimonio ricco e richiede spazio e ascolto nella progettazione condivisa di un servizio, di un intervento o nel programmare un sostegno. Questo lo vediamo bene quando i genitori ci raccontano dei servizi domiciliari, che richiedono loro uno sforzo di riorganizzazione familiare, di abitudini, di pensare anche insieme all’operatore. Occasione perché gli operatori possano ascoltare le storie, accorgersi dei dettagli, entrare nel vivo delle vite familiari ed essere ganci di esperienze, snodi di relazioni, catalizzatori di informazioni. C’è un ultimo elemento che desideriamo portare all’attenzione: il progetto individualizzato di ciascuna persona. Non un “soggetto fragile” da proteggere, da controllare, da accudire, ma una persona alla quale chiedere di fare scelte per essere attore e non solo spettatore della sua vita. Anche in uno stato di emergenza sanitaria. Per fare questo, il progetto individuale va situato in un progetto di vita e non può prescindere da chi con competenza lo sa tradurre nella realtà.



1 Redatto il 25 ottobre.

2 Gloria Gagliardini, Gruppo Solidarietà e Auto Mutuo Aiuto: il racconto di un’esperienza, in Appunti sulle politiche sociali, n. 4/2017.

3 Seminario del 6/12/2019, “Le storie di vita insegnano. Disabilità e servizi di comunità”, con Cecilia Maria Marchisio.

4 Brevi periodi, generalmente fine settimana, dia accoglienza in comunità.

5 Ordinanza Presidente della Giunta Regionale 4 del 10 marzo 2020.

6 Il decreto legge “Cura Italia” (n. 18 del 17.3.2020) art. 47 e 48.

7 Ordinanza del Presidente della Giunta Regionale 16 del 26 marzo 2020.

8 DGR 600 18 maggio 2020.

9 DGR 567 12 maggio 2020.

10 DGR 685 giugno 2020, Linee di indirizzo regionali per la gestione delle strutture residenziali sanitarie, sociosanitarie e sociali nell’area extra ospedaliera nel graduale superamento dell’emergenza Covid-19. Per approfondire, la scheda Osservatorio Marche, n. 111, del 20 luglio 2020. Vedi anche, L’ora della responsabilità. Servizi residenziali. Visite dei familiari e uscite. Senza un rapido cambio di passo l’esito è la segregazione.

11 Per approfondire: Roberto Carabolini, “Funzioni e limiti delle esperienze di Auto mutuo aiuto di genitori con figli disabili” https://scambi.prospettivesocialiesanitarie.it/ama/.

12 A questo proposito rimandiamo alla lettura di Riccardo Morelli, “La fragilità come vaccino comunitario” https://scambi.prospettivesocialiesanitarie.it/la-fragilita-come-vaccino-comunitario/#more-5471.


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