Data di pubblicazione: 16/06/2016
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Persone con disabilità e lavoro in Italia. Il lungo percorso

Appunti sulle politiche sociali, n. 1/2013 (201) - Carlo Lepri, Psicologo e Formatore, docente a contratto, Università di Genova. 

A partire da un’esperienza ultra trentennale in materia di inserimento lavorativo delle persone con disabilità, si riflette e analizza l’esperienza maturata in questi anni. Dalla fase pionieristica che vuole trasformare tutta la società, alla situazione attuale nella quale seppur nessuno dice di essere contro l’integrazione, tuttavia, in nome  della sostenibilità economica, i servizi e i sostegni vengono tagliati mettendo così  in discussione i diritti fondamentali, compreso quello del lavoro (intervista a cura di Fabio Ragaini).

Ti occupi di lavoro delle persone con disabilità da più di 30 anni. Un periodo molto lungo con tanti cambiamenti nella vita sociale e lavorativa. Quali aspetti di questo percorso senti importante richiamare.

Recentemente ho provato a individuare alcuni dei momenti più significativi di questo percorso. Direi che abbiamo assistito ad almeno quattro fasi distinte. La prima, che grosso modo va dall’inizio degli anni settanta  alla metà degli anni ottanta, prende l’avvio con le grandi lotte sociali per l’emancipazione dei lavoratori e delle donne. Ho definito questa periodo come “fase della ideologia dell’integrazione” proprio perché i primi inserimenti al lavoro delle persone con disabilità nascono sulla spinta di una volontà di trasformazione che riguarda tutta la società. Non dimentichiamo che in questo periodo storico si rafforza una visione della disabilità intesa non più come disgrazia individuale o  familiare ma come esito di una società oppressiva e emarginante. E’ il periodo della lotta contro le grandi istituzioni (manicomi, scuole speciali, istituti) e l’inserimento lavorativo segna il punto più alto del riscatto delle persone disabili.

Tra la metà degli anni ottanta e la metà degli anni novanta il clima culturale si modifica ed assistiamo a quella che definirei la “fase della pratica dell’integrazione”. In questo periodo ciò che accade è il tentativo di consolidare le esperienze di integrazione lavorativa facendole uscire da una dimensione prevalentemente ideologica. Assistiamo così ad una miriade di esperienze tutte accomunate dall’esigenza del “fare”.

A partire dalla metà degli anni novanta si fa sempre più evidente la necessità di costruire un impianto teorico a sostegno delle  metodologie utilizzate. Si potrebbe dire il bisogno di “dare un sapere al fare”. Ho definito questo periodo come “fase della scienza dell’integrazione” poiché  si assiste, in quegli anni,  al tentativo  di abbandonare un approccio esclusivamente pragmatico per definire, attraverso l’evidenza scientifica, alcuni principi teorici . Anche la rilevante produzione legislativa  può essere collegata a questa necessità di raccogliere e stabilizzare la consistente esperienza disponibile.   Si definiscono, infatti, importanti leggi come la 104/92 e la 328/00 ma, soprattutto, si arriva alla riforma della 482/68 con la promulgazione della legge 68/99 sul collocamento mirato. E’ in questo periodo, tra l’altro, che prende corpo  una vera e propria comunità professionale: quella degli operatori della mediazione al lavoro.

L’ultimo periodo, che grossolanamente possiamo identificare negli ultimi 10-12 anni, è quello che ho definito la “fase dell’integrazione in difesa”. Si tratta di una situazione per certi versi paradossale nella quale nessuno dice apertamente di essere contro l’integrazione e tuttavia, in nome  dei pareggi di bilancio o delle varie sostenibilità economiche e finanziarie,   i servizi e i sostegni per le persone disabili vengono tagliati mettendo così  in discussione i diritti fondamentali, compreso quello del lavoro. Osservo, tra l’altro,  due segnali inquietanti conseguenti da questa situazione: il crescente corporativismo di numerose associazioni di disabili  e il progressivo “tecnicismo” dietro al quale si rifugiano sempre più spesso gli operatori. Credo che a partire da una discussione intorno a questi aspetti sia possibile ri-trovare una alleanza tra operatori e utenti in modo da rimettere al centro una lotta comune per la salvaguardia dei diritti di tutti.

Nell’incontro hai affermato che “l’essere adulti è il tema ed il lavoro è uno strumento per vivere questa condizione. Non il contrario”. Aiutaci a capire meglio

Nella mia attività professionale mi sono occupato prevalentemente di inserimento lavorativo di persone con una difficoltà di funzionamento di tipo intellettivo. Come è noto uno dei tratti caratteristici di questa “categoria”, accanto ai deficit cognitivi,  è quella di presentare una certa immaturità relazionale. Si tratta di quella caratteristica che per molto tempo ha fatto si che si pensasse a queste persone come a degli “eterni bambini”, dei Peter Pan da accudire in luoghi appositamente dedicati a loro. I processi di integrazione scolastica e nel mondo del lavoro hanno dimostrato che nel momento in cui cambiano i contesti cambiano anche le aspettative verso le persone  e con esse le rappresentazioni che noi abbiamo della disabilità. Nello specifico ci siamo resi conto che anche le persone con disabilità intellettive possono diventare adulte e non solo anagraficamente.

Quindi  poter vivere una vita adulta, con i diritti e i doveri che questo comporta, è diventato un obiettivo possibile anche per queste persone. Come sappiamo il lavoro è uno dei mezzi che caratterizzano la vita delle persone adulte. Esso offre autonomia economica ma è anche un potente strumento identitario e di socializzazione. Questo è vero in generale e lo è a maggior ragione per persone che possono avere qualche difficoltà aggiuntiva proprio sul piano della identità e delle relazioni sociali.  Tuttavia il lavoro è uno strumento per accedere a questa condizione di adultità e non può trasformarsi nel fine. Ciò significa che non possiamo proporre percorsi lavorativi in modo generalizzato poiché in alcuni casi il lavoro potrebbe non essere coerente con i bisogni di una persona disabile.  In più il lavoro non può essere proposto in modo astorico ad una persona. Occorre che la possibilità di “diventare grande”  attraverso il lavoro faccia parte di un progetto educativo che deve avere inizio prima possibile.

Dici che per le persone con disabilità intellettiva non si tratta tanto di imparare un lavoro ma di  imparare a lavorare. Perché e come si riesce ad imparare a lavorare?

In effetti su questi temi, a volte, si commettono errori grossolani.Ovviamente si tratta di una distinzione molto schematica poiché questi due processi, imparare a lavorare e imparare un lavoro, sono sempre intimamente connessi.

Tuttavia, mentre l’imparare un lavoro fa riferimento all’apprendimento di una serie di compiti spesso riducibili a delle sequenze operative, imparare a lavorare fa riferimento a qualcosa di più complesso che ha a che vedere con la capacità di “introiettare” il ruolo lavorativo. In altre parole alla capacità di fare proprie, di “mettersi dentro”, tutta una serie di regole, norme, criteri che hanno a che vedere con ciò che gli altri si aspettano che io faccia in quel contesto lavorativo. Quello che in termini tecnici viene definito come il “role taking”, cioè proprio la capacità di assumere il ruolo lavorativo. Questo apprendimento può essere particolarmente complesso soprattutto se una persona non è stata abituata a confrontarsi con i ruoli e con le aspettative che li accompagnano. Assumere un ruolo, in questo caso  imparare a lavorare, comporta infatti la capacità di sapersi mettere dal punto di vista dell’altro in modo da anticipare le aspettative che l’altro (o gli altri) hanno nei miei confronti. In altre parole imparare “un lavoro”, soprattutto se il lavoro non è molto complesso, è un apprendimento che può essere molto veloce (giorni o settimane) mentre “imparare a lavorare” è un apprendimento che necessita tempi lunghi e  può essere appreso solo attraverso le relazioni e direttamente in una  “situazione” lavorativa vera.

Un’altra questione sulla quale hai molto insistito è quella riguardante le competenze relazionali delle persone con disabilità. Difficoltà che possono minare la riuscita degli inserimenti.

L’apprendere a lavorare fa esattamente riferimento al tema delle competenze relazionali. Durante tutta la mia esperienza ho osservato che gli insuccessi negli inserimenti lavorativi di persone con disabilità  (percentualmente nella media degli insuccessi della popolazione generale) non erano quasi mai dovuti al fatto che la persona non aveva appreso i compiti e le mansioni proposte quanto al fatto che il “comportamento” non era adeguato ad un contesto adulto. In altre parole che le regole vigenti in quel contesto non erano state apprese pienamente. Oppure che le regole erano state formalmente apprese ma la persona non era in grado di gestire quelle che sono le componenti discrezionali del ruolo lavorativo. Facciamo un esempio: ci sono momenti durante la giornata lavorativa nei quali è possibile scherzare tra colleghi di lavoro. Normalmente le persone sanno quando questa componente discrezionale del ruolo può essere agita e quando invece non è opportuna e quindi è il momento di smettere. Per una persona che ha caratteristiche  relazionale di tipo immaturo fare questa distinzione non è sempre facile e ciò può determinare comportamenti inadeguati al contesto. Imparare a lavorare è un po’ come imparare ad andare in bicicletta: una volta imparato si può andare su qualsiasi bicicletta e soprattutto … dura per sempre!

L’esperienza genovese del Centro studi dell’ASL 3 ha sostanzialmente fatto nascere i Servizi di integrazione lavorativa in Italia. Il radicale cambiamento del mondo del lavoro, che ripercussioni ha avuto ed ha sul lavoro dei SIL?

Credo che l’esperienza genovese, anche grazie all’azione di Enrico Montobbio, abbia avuto due meriti. Il primo è quello di avere proposto una metodologia innovativa e di averla sperimentata con coraggio. Dico con coraggio perché ricordo che quando abbiamo avviato le prime esperienze  la legge 482/68, allora vigente, prevedeva espressamente che le persone con disabilità psichica e intellettiva non potessero essere inserite al lavoro. La nostra azione, per lungo tempo,  è stata pertanto ai margini se non contro  la legge. E questo mi pare dimostri ancora una volta che le cose veramente innovative nascono sempre da una qualche deviazione dalla norma.  

Il secondo è quello di aver cercato di mantenere una memoria di ciò che si faceva attraverso la pubblicazione di saggi e di libri. Ciò ha dato una certa visibilità al nostro lavoro e per un lungo periodo l’esperienza di Genova è stata al centro dell’attenzione sia a livello nazionale che internazionale. Alcuni di noi hanno così contribuito, attraverso l’attività formativa, alla nascita di numerosi Servizi di Integrazione Lavorativa in diverse parti del nostro paese. Questi Servizi, attraverso la loro azione, sono stati dei precursori nell’attuazione del “collocamento mirato e mediato”che, com’è noto, è oggi alla base della legge 68, dimostrando concretamente l’efficacia di questo principio. I cambiamenti nel mondo del lavoro a cui stiamo  assistendo (o forse sarebbe più corretto dire che stiamo subendo) stanno avendo numerose ripercussioni sulla azione dei SIL.

Mi limito ad indicare due aspetti: uno qualitativo e l’altro quantitativo.

Sul piano qualitativo stiamo assistendo ad una impressionante delocalizzazione dei siti produttivi tradizionali con l’eliminazione o lo spostamento in altri paesi di gran parte delle produzione “labour intensive”. Questo penalizza molto le persone disabili che proprio in questo tipo di lavori trovavano una loro collocazione più agevole. L’altro aspetto, banalmente quantitativo, è legato al fatto che il lavoro scarseggia sempre di più mettendo, tra l’altro, in concorrenza tra loro soggetti appartenenti a diverse fasce deboli. In questo difficile scenario l’unico elemento rassicurante  è che le metodologie messe a punto dai SIL  sia in termini di strumenti di mediazione che di sostegno psico educativo risultano davvero efficaci. Quando possono essere attuate.

Da ultimo una tua valutazione ed un bilancio della legge 68-1999. Ha tradito un po’ le aspettative che vi erano state riposte?

Personalmente credo di no. Continuo a pensare alla legge 68/99 come ad una buona legge. Il problema semmai riguarda la sua piena applicazione. Sappiamo che esiste una applicazione a “pelle di leopardo”. In alcune regioni  è stato fatto uno sforzo importante di messa in rete dei servizi già esistenti prima della 68 e di attivazione dei servizi mancanti. Il tutto creando un sistema  che garantisse, allo stesso tempo, servizi alle persone disabili e servizi alle aziende sottoposte agli obblighi. Laddove si è fatto questo i risultati non sono mancati. Dove, invece, le persone disabili e le aziende non sono sostenute e non si facilitano i processi di mediazione, può accadere che la legge venga disattesa oppure che si preferiscano pagare le multe. Ma ciò non mi pare sia imputabile alla struttura della legge quanto, appunto, alla sua applicazione concreta. Direi infine che, grazie agli ampi margini nell’individuazione delle persone disabili da assumere che la legge riconosce alle aziende, sempre più vengono inserite “categorie” specifiche di disabilità. Questa mi sembra un problema poiché nonostante nella legge siano presenti alcuni facilitazioni per le aziende che assumono persone con una “disabilità complessa” queste “doti” non sembrano sufficienti per garantire l’inserimento lavorativo anche a persone con maggiori difficoltà. Ma su questo aspetto alcuni SIL hanno messo a punto sperimentazioni interessanti che in alcune regioni hanno già trovato importanti supporti sul piano istituzionale.

Dello stesso autore, Diventare grandi. La condizione adulta delle persone con disabilità intellettiva


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