Prigionieri della guerra È trascorso un anno dal violento attacco di Hamas, l’organizzazione politico-militare palestinese di matrice islamista, contro alcune città e kibbutz israeliani vicini alla striscia di Gaza, a cui ha fatto seguito la dura reazione di Israele. I timori, molto diffusi al tempo, che si aprisse un nuovo e doloroso capitolo nel conflitto che da oltre settant’anni contrappone Israele e Palestina si sono rivelati fondati. A un anno di distanza non solo le operazioni militari non sono cessate, ma è difficile intravedere una strada negoziale che abbia qualche possibilità concreta di porre fine alle ostilità. Ancor più lontano sembra l’avvio di un processo che porti alla pace. Ben presente è invece lo scenario di rovine materiali e morali prodotte in questi dodici mesi di guerra da entrambe le parti: un bagaglio pesante di vite spezzate, di traumi personali e collettivi, di odio e sete di vendetta, di condizioni di vita disperate e incerte, ma anche di ideali e progetti infranti, una perdita altrettanto grave nella speranza di un futuro in cui finalmente tacciano le armi e le sirene di allarme. Soprattutto è un conflitto che fa molti prigionieri: non solo gli ostaggi israeliani o i militanti palestinesi catturati dall’esercito dello Stato ebraico, ma anche chi si lascia rinchiudere da narrazioni e prospettive di parte che rendono arduo, se non impossibile da un punto di vista intellettuale ed emotivo, cercare vie di uscita. Per chi riveste ruoli di responsabilità o è a vario titolo coinvolto direttamente nel conflitto, smascherare questi vicoli ciechi diviene un modo per resistere e ritrovare margini di azione che si ritenevano preclusi. L’aggettivo “complesso” ritorna più volte in un recente articolo dell’intellettuale israeliano Roy Chen («Noi e i palestinesi condannati all’inferno», in La Stampa, 5 settembre 2024), pubblicato pochi giorni dopo una grande manifestazione a Tel Aviv in cui si chiedeva di raggiungere un accordo per il rilascio degli ostaggi e la fine della guerra. Una scelta pertinente e rivendicata con convinzione, perché davvero ci troviamo di fronte a un quadro complesso quando ci misuriamo con quanto sta accadendo a Gaza e in Israele. Innanzi tutto, contro le generalizzazioni e le letture assolutizzanti, va tenuto a mente che tanto tra gli israeliani quanto tra i palestinesi non esiste una posizione univoca riguardo al conflitto. Allo stesso modo, pur essendo molto diffusa nell’opinione pubblica e talvolta sostenuta anche da rappresentanti politici, è profondamente sbagliata e pericolosa l’affermazione che se si è a favore dell’esistenza di uno Stato palestinese allora si è necessariamente contro Israele. Questa secca alternativa esclude a priori uno scenario in cui i due popoli possano trovare una soluzione che permetta la loro reciproca e libera esistenza, sottintendendo così che l’unica via d’uscita realistica del conflitto sia il prevalere di una parte sull’altra. A ben vedere, poi, non è neanche questione solo di due nazioni che si confrontano e si scontrano, perché – come osserva Chen – «ce ne sono almeno quattro. Ebrei religiosi, musulmani religiosi, israeliani e palestinesi laici. E ci sono anche cristiani, baha’i, atei, drusi, agnostici e soprattutto ragazzi che vogliono vivere la loro propria semplice vita». La realtà, quando ci si sofferma a osservarla, presenta molte più sfumature di quanto possa sembrare a prima vista. La situazione è complessa anche perché il conflitto storico tra israeliani e palestinesi non ha un rilievo solo locale. Altri Stati, con le loro diverse visioni del mondo e i loro interessi, si scontrano per interposta persona, in particolare gli Stati Uniti e l’Iran. Così si realizza un intreccio, spesso di difficile lettura e gestione, tra le spinte che hanno origine negli assetti politici interni delle due parti in conflitto e quelle determinate da dinamiche più ampie, legate a uno scenario geopolitico mondiale in continua evoluzione. A questo proposito, è difficile immaginare che ci sia qualche sbocco finché non si saprà chi sarà il nuovo Presidente statunitense e come orienterà la sua politica in Medio Oriente. Nel frattempo, gli episodi dei mesi scorsi – ad esempio, le operazioni di intelligence israeliana all’estero per colpire i vertici militari e politici di Hamas o di Hezbollah o le risposte iraniane, tra cui l’attacco missilistico dell’aprile 2024 – testimoniano quanto sia ormai alto il livello di tensione, con il rischio di un’escalation regionale, come segnala l’allargarsi del conflitto alla Cisgiordania e al Sud del Libano, e la fatica che si sperimenta a ricorrere ai tradizionali canali diplomatici. Di fronte a questa complessità è possibile che emerga un senso di abbattimento, ci si sente sopraffatti e impotenti; per questo le interpretazioni semplificanti trovano un terreno favorevole e le polarizzazioni acquistano un particolare fascino. Eppure la complessità, se riconosciuta e assunta, porta in sé una promessa. Non è uno stato caotico impossibile da ricondurre a un ordine, ma un sistema articolato, in cui coesistono una pluralità di elementi, tra loro coerenti o in tensione. Se si entra dentro la complessità di una situazione, riconoscendo i nessi esistenti e gli spazi di manovra che si schiudono, allora si apre la speranza di vedere emergere possibili risposte, si rivelano potenzialità inespresse e strade da percorrere. Tutto questo purché si riesca a leggere i vari aspetti in modo unitario, facendo leva su diverse prospettive, incrociando esperienze e competenze in modo collaborativo. Più volte nel corso di questi mesi si sono nutrite speranze che si potesse giungere a un cessate il fuoco. Vari Stati si sono offerti come mediatori, altri hanno esercitato più o meno apertamente la loro moral suasion, sono stati elaborati documenti in cui erano state scrupolosamente concordate le singole condizioni, ma ogni tentativo di un accordo si è rivelato fallimentare, a parte la tregua nel novembre 2023, negoziata da Qatar, Egitto e Stati Uniti, in cambio del rilascio di 50 ostaggi israeliani e della liberazione di 150 prigionieri palestinesi. A inizio settembre 2024, dopo la morte di sei ostaggi israeliani che ha suscitato una forte reazione nel Paese, Netanyahu ha dichiarato che «chi uccide gli ostaggi non vuole un accordo». La frase è al contempo un’accusa verso Hamas e un’autoassoluzione. In realtà, contiene un’affermazione che ha un fondamento, perché il progetto del movimento militante islamico di rafforzare la propria posizione nel mondo palestinese e arabo è favorito dal protarsi della guerra, ma sorvola sulle responsabilità dello stesso Netanyahu, nasconde – o almeno prova a farlo, ma con scarso successo – la strategia che sta portando avanti per sopravvivere politicamente da un anno a questa parte. Infatti, se prima del 7 ottobre 2023 la posizione di Netanyahu era precaria, indebolito nel consenso e indagato per corruzione, oggi è difficilmente sostituibile, in quanto è il perno centrale del Governo di un Paese in guerra, sebbene le proteste e i malcontenti nei suoi confronti non siano certo venuti meno, anche per le scelte da lui compiute negli ultimi mesi. Prolungare il conflitto, esacerbarlo ancor di più, sabotare di fatto i tentativi di negoziato, non elaborare un piano per ciò che avverrà dopo la fine delle ostilità è funzionale al suo interesse personale e politico. Miope rispetto al futuro per scelta e per calcolo, Netanyahu si ritrova ad alimentare una linea politica che gli assicura il sostegno dei partiti estremisti di destra e fondamentalisti religiosi, essenziali per la maggioranza del suo Governo, ignorando le richieste formulate da altri esponenti, anche delle file militari, e da parte della società civile a proposito dei negoziati per il rilascio degli ostaggi o la necessità di intavolare un confronto politico sul futuro con la parte palestinese. Non c’è bisogno di raccontare le conseguenze delle operazioni militari condotte da Israele sulla popolazione civile di Gaza: le istituzioni internazionali parlano di una grave crisi umanitaria in atto. Ma c’è un altro aspetto che è messo in crisi dalle scelte compiute da Israele sul piano militare: la sua credibilità come Stato democratico. In ogni guerra, disumanizzare il nemico è una tappa quasi obbligata, un modo per rendere “sostenibile” l’atto comunque tragico di togliere la vita ad altre persone. Ma diverse voci in Israele e all’estero si interrogano se non si sia oltrepassato il limite. C’è chi ritiene che ci troviamo di fronte a un genocidio, come il Sudafrica che, a dicembre 2023, ha sollevato la questione di fronte alla Corte internazionale di giustizia, seguito da altri Paesi. Lo pensano anche alcuni intellettuali israeliani (cfr Goldberg A., «Questo è un genocidio», in Queste coraggiose prese di posizione, come altre che non abbiamo richiamato, hanno un merito e una forza specifici: sollevando domande difficili da formulare, perché ritenute inopportune o perché sembrano stonate rispetto alle narrazioni consolidate di quanto sta accadendo, in questo caso in Israele e Palestina, ne mostrano le incongruenze, mettendo a nudo la pigrizia di cercare di andare più a fondo e le convenienze ad alimentare certe posizioni. Così facendo possono essere di aiuto nel liberarci da quelle forme di “prigionia” nelle quali, come singoli o come collettività, rischiamo di restare intrappolati e che, di fatto, sono un ostacolo a un effettivo impegno per il cambiamento dello status quo. Soprattutto ci mostrano che molto spesso noi siamo i carcerieri di noi stessi e che, esattamente come possiamo costruire muri e separazioni sul piano razionale ed emotivo, così possiamo anche abbatterli per fare posto a processi di riconciliazione e di pace. Vedi anche .................. Altri materiali nella sezione documentazione politiche sociali. La gran parte del lavoro per realizzare questo sito è fatto da volontari, ma non tutto. Se lo apprezzi e ti è anche utile PUOI SOSTENERLO IN MOLTO MODI.
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